Su “Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento” di Alain Badiou

Se Amleto non esiste lo spettatore è precario.

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In un’annotazione del 1931 Wittgenstein si chiedeva: «Posso dire che il dramma ha un tempo suo proprio, che non è un segmento del tempo storico? Ossia, posso parlare di un prima e di un dopo, ma non ha alcun senso chiedersi se quegli avvenimenti sono accaduti ad esempio prima o dopo la morte di Cesare» (Pensieri diversi, tr. it. di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, p. 33).

È a partire dagli effetti paradossali di questo nonsenso che il filosofo francese Alain Badiou indaga i meandri della teoria del teatro in una serie di testi inediti per l’Italia, riuniti in un’unica pubblicazione a cura e traduzione di Francesco Ceraolo (Pellegrini, Frontiere Oltre il Cinema, 2015). Si tratta di una serie di contributi apparsi fra il 1990 e il 2012 che comprendono il saggio che dà il titolo all’intero volume, Rapsodia per il teatro, e gli interventi teorici del filosofo su teatro, filosofia e politica.

La riflessione di Badiou si svolge all’ombra dell’esperienza diretta e militante del teatro: il filosofo è stato infatti autore tra il 1979 e il 1990 di una serie di pièce teatraliL’Écharpe rouge, L’Incident d’Antiochie, Ahmed le subtil, Ahmed philosophe, Ahmed se fâche e Les Citrouilles – delle quali rappresenta una sorta di breviario programmatico e di bilancio speculativo del lavoro svolto a fianco al regista Antoine Vitez.

Come nota Ceraolo, nella ricca introduzione ai testi dal titolo significativo Per un’inestetica del teatro, l’attività di drammaturgo di Badiou si svolge parallelamente all’elaborazione di nodi cruciali del suo pensiero, negli anni in cui lavora a L’Essere e l’Evento. In tal senso gli sforzi del filosofo si concentrano sulla questione tutta platonica dell’individuazione di una peculiare ontologia teatrale contemporanea; punzecchiato dalla figura dialogica dell’Empirista («Ogni empirista è come un poliziotto inglese», p. 124) si pone una serie di questioni teoriche cruciali: quale rapporto intercorre fra la singolarità dell’istante dell’evento della rappresentazione, il vero e proprio momento teatrale, e l’eternità del testo? Quale ordine dialettico s’insatura fra l’autorialità del testo, la capacità rappresentativa del regista e la ricettività critica dello spettatore? Quale ruolo svolge la corporeità dell’attore?

Sono domande, queste, alle quali Badiou risponde rovesciando l’assunto platonico della compromissione del teatro con la sfera degradata del sensibile, con un ordine delle cose apparente e in quanto tale lontano dal vero. Da luogo dello sguardo e dell’ascolto, da scena dell’apparenza, il Teatro si noti la maiuscola – diventa nei variegati spunti melodici della Rapsodia il luogo di una possibile delucidazione del pensiero, di una sua liberazione dagli schematismi della logica speculativa, dalla necessità della concatenazione argomentativa.

La rappresentazione teatrale autentica non è per Badiou un ostacolo sensoriale all’esercizio del pensiero ma «la filosofia colta nel momento della dissolutezza» (p. 139), in quanto cerca di completare nella dimensione dell’immanenza, del precario e del transitorio, l’Idea-teatro espressa dal testo drammaturgico, che quando è vero produce una chiarificazione (éclaircie) della posizione dell’uomo nella vita e nella Storia. In altre parole il testo teatrale, scritto una volta per tutte e depositato in una tradizione culturale, «non esiste che in un futuro anteriore» (p. 106), quello dell’evento-rappresentazione che ne riqualifica nell’immanenza il contenuto.

Tutto ciò sarebbe però impossibile senza la presenza dello spettatore: il teatro richiede sempre la sua cognizione situata, la sua capacità di cogliere l’universale del testo drammaturgico nell’etica dell’evento e della singolarità della rappresentazione messa in scena dal regista per mezzo degli attori. A differenza del cinema, della riproduzione tecnica di immagini, il teatro vive della messa in scena di fronte allo spettatore e pertanto può esserci solo laddove lo spettatore è attivo e partecipe.

Da qui emerge infatti un altro aspetto della singolarità dell’evento scenico. Infatti, «se il cinema è ovunque, è perché non richiede uno spettatore, solo le pareti che circondano un pubblico» (p. 54). Al contrario il teatro richiede non nuda presenza (pubblico), ma presenza qualificata (spettatori).

Si deve andare a teatro, secondo l’austera prospettiva militante di Badiou, non per divertirsi ed essere intrattenuti ma per assumere «la posizione universale del filosofo» (p. 137). Questo perché, fuori dalla costrizione pedagogica e dallo snobismo, dall’indottrinamento delle masse e dal chiacchiericcio culturale collettivo, il teatro rimane uno spazio in cui lo spettatore diviene soggetto o trasferendo sulla scena il proprio desiderio (secondo la prospettiva terapeutica che da Aristotele arriva a Lacan) oppure entrando in relazione con l’Idea del testo (secondo il platonismo dell’immanenza sostenuto da Badiou).

In entrambi i casi compie un lavoro, uno sforzo di attivazione delle proprie capacità critiche, che lo pone nella posizione del filosofo, di colui o colei che può cogliere la verità del testo e sostenerla. Ma tale collocazione permane sempre come precaria e figlia della casualità: quella che traduce l’Idea-teatro nella singolarità della scena coniugandola con i sette elementi della rappresentazione (Luogo, Testo, Regista, Attore, Scenografia, Costumi, Pubblico), quella che trasforma una Folla eterogenea, giunta ad assistere alla rappresentazione, nell’universale concreto dello Spettatore.
Dunque, il teatro produce sulla scena un effetto di verità singolare e irriducibile solo se innesca una dialettica della rappresentazione i cui momenti costitutivi sono la situazione in cui essa si svolge, la pro-vocazione del testo da parte degli attori, il possibile sostegno alla verità del testo da parte dello spettatore. Di questa dialettica il primo momento è l’inevitabile luogo di un’analogia fra teatro e politica: nella situazione della rappresentazione, nello stato dello Stato messo in scena, il teatro è in grado di produrre eventi capaci di mettere lo spettatore al cospetto della sua dimensione pubblica.

Tuttavia di analogia si tratta perché lo fa nel tempo del futuro anteriore, del ciò-che-potrà-essere dello Stato: il teatro non è la presentazione di uno stato di cose ma mette in scena sempre e solo una rappresentazione. È così che Brecht ricorrendo al Secolo d’oro mette in scena, nel personaggio di Galileo, la relazione contemporanea fra scienza, politica e potere; è così che i grandi tragici greci ricorrendo a sovrani di terre lontane, miti e dèi rappresentano le contraddizioni della democrazia ateniese.

Inoltre, fra i registri linguistici in grado di mettere in scena lo stato dello Stato la commedia è secondo Badiou quello più efficace nel «non rappresentare il modello chiaro di un legame formale fra il teatro e la politica» (p. 233), quindi quello più consono a parlare al futuro anteriore. Questo perché la commedia è in grado di coinvolgere lo spettatore nella rappresentazione del piano dell’esercizio del potere “locale”, dei micropoteri, e delle loro contraddizioni interne, dalla famiglia alla coppia, dalle relazioni interpersonali a quelle di natura economica.

Rispetto alla tragedia, che si compie «sullo sfondo neutro dell’essere» (p. 153), che vuole insegnarci qualcosa sul nonsenso della volontà individuale di fronte alla morte, che punta a rappresentare l’universale dello Stato, la commedia lavora per mostrare le potenzialità della realtà contemporanea. Perché mette in scena l’intervallo fra diverse scene sociali (i padroni e i domestici, i vecchi e i giovani, i potenti e i sudditi) facendo circolare al suo interno la tensione del comico, ovvero «l’intrigo del desiderio» (p. 234). Un ruolo centrale nella commedia è svolto dal «personaggio diagonale» (Scapino, Arlecchino, Figaro, Sc’vèik), quel personaggio che si oppone alla rete dei micropoteri proponendo traiettorie, istanze d’uscita che l’ordine stabilito non può tollerare.

Operando attraverso l’invenzione di situazioni nuove, di soluzioni che prima non esistevano, di alternative, i personaggi diagonali danno voce a coloro i quali vivono nell’invisibilità, che soccombono nelle pieghe di quei micropoteri irrisi dalla commedia. Forse, e in questo si nota una certa inattualità dei testi, Badiou omette di dire come questa tipizzazione goda oggi di molta più fortuna transmediale che solo teatrale: si pensi alla circolazione in rete dello Scaramouche, Scaramuccia, Scaramuzza de L’Armata dei sonnambuli, il romanzo di Wu Ming sulla Rivoluzione francese.

Quanto invece al secondo momento della dialettica della rappresentazione, la pro-vocazione del testo da parte degli attori, Badiou ascrive alla ruolo dell’attore una posizione decisiva e allo stesso tempo meramente strumentale. Decisiva perché l’attore completa, con la propria recitazione, ciò che il testo drammaturgico lascia incompiuto: l’esecuzione sulla scena, la visibilità tangibile della rappresentazione. Strumentale, tuttavia, perché l’attore dà in prestito il proprio corpo, la propria voce alle parole del testo, scomparendo. Se come diceva Lacan, di fronte ai tentativi di stabilire il quadro psicopatologico del principe di Danimarca, «Amleto non esiste», allora l’io che ne fa la mimesi, che lo interpreta e mette in scena è ancora più inconsistente.

Forse in questo risiede il miglior contributo di questi testi di Badiou alla teoria del teatro: non tanto nelle elucubrazioni sul rapporto fra rappresentazione e rivoluzione, nel richiamare una bolscevica pedagogia politica dello spettatore-massa, proponendo il parossismo del teatro obbligatorio (si veda p. 150: detrazioni fiscali per chi riempie i teatri di provincia!), quanto nell’etica della non-permanenza, dell’incompletezza del testo, nucleo di un teatro che nutre ancora velleità di incidere sulla società dello spettacolo. Amleto non esiste (più) e neanche lo spettatore sta tanto bene.

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