Le agenzie umanitarie riferiscono di oltre 1000 morti nel campo profughi al-Yarmouk di Damasco dopo il recente attacco dell’Is e l’assedio dell’esercito siriano. L’Onu parla di “situazione disumana”. L’Unicef di una “nuova Srebrenica”.
La situazione dei profughi palestinesi di al-Yarmouk è particolarmente insostenibile, ma va contestualizzata e relativizzata storicamente: i profughi palestinesi espulsi o discendenti degli espulsi da Israele nel 1948-’49 con la fondazione dello Stato e nei decenni successivi di politiche coloniali sono milioni, sparsi tra al-Yarmouk, i Paesi arabi limitrofi alla Palestina e la Palestina stessa. Tutte queste situazioni sono, in un modo o nell’altro, da tempo e nel lungo periodo, insostenibili.
Alle responsabilità israeliane per la pulizia etnica della Palestina si sommano quelle dei Paesi arabi che spesso e volentieri hanno trattato i palestinesi come un “problema”, represso nel sangue la loro lotta di liberazione (Assad padre, o il regime giordano, solo per citare alcuni esempi), collaborato con Israele nel mantenere i rifugiati nel limbo in cui sono ancora oggi, oppure strumentalizzato la causa palestinese all’interno delle dinamiche economiche e geopolitiche regionali. A queste responsabilità storiche dei Paesi arabi ora si aggiungono quelle di nuove realtà come lo Stato Islamico o Jabhat al-Nusra.
La drammatizzazione della situazione di al-Yarmouk operata da Unicef attraverso l’accostamento con Srebrenica solleva un problema politico per certi versi ancora più ampio e complesso. Mi spiego meglio.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il concetto di crimini contro l’umanità ha iniziato a prendere forma ed è stato progressivamente articolato (giuridicamente e retoricamente) spesso e volentieri attraverso accostamenti. Dal dopoguerra a oggi questi accostamenti hanno costituito uno degli strumenti retorici più ricorrenti attraverso cui è stato attribuito significato a forme differenti di violenza collettiva. Potremmo parlare di un vero e proprio ethos degli accostamenti che ha via via preso forma all’interno della comunità internazionale.
Accostamenti e interventi. Alcuni esempi noti. In ex-Jugoslavia l’intervento militare Nato è stato preceduto da accostamenti con i crimini nazisti. In Ruanda, Darfur e altri contesti si è ricorso ad accostamenti genocidiari, spesso con l’olocausto, per compattare la comunità internazionale intorno alla necessità di proteggere.
In questo processo il “mai più” (mai più genocidi e olocausti) dell’immediato dopoguerra è andato via via arricchendosi di nuove situazioni paradigmatiche, in particolare negli anni Novanta, con il proliferare delle guerre e degli interventi armati umanitari. L’archivio dei “mai più” è diventato sempre più ampio, il ricorso a “mai più” sempre più frequente, tanto da rischiare di svilire l’imperativo stesso.
Tuttavia nell’impiego politico del “mai più” o delle “nuove Srebrenica” esistono delle gerarchie morali. Non tutti i “mai più” hanno lo stesso valore. E non tutti i “mai più” vengono impiegati allo stesso modo.
In questo quadro la condizione palestinese — dato anche il valore simbolico della creazione di Israele nell’economia globale del “mai più”— continua a costituire un nodo, o forse meglio uno snodo, attraverso cui comprendere l’archivio morale dei crimini contro l’umanità e il ricorso che a questo archivio si fa in situazioni di violenza estrema.
La drammatizzazione della situazione di al-Yarmouk operata da Unicef attraverso l’accostamento con Srebrenica potrebbe far pensare che anche i rifugiati palestinesi siano diventati parte dell’archivio dei “mai più”. Occorre invece analizzarla più attentamente perché contiene molti dei paradossi che caratterizzano una certa politica internazionale degli accostamenti del dopoguerra.
Per molti versi la popolazione di Gaza e quella di al-Yarmouk sono la stessa popolazione. La popolazione di Gaza, come quella di al-Yarmouk, è costituita in gran parte da rifugiati che vivono in esilio come risultato della fondazione di Israele. E perché la popolazione di Gaza, nonostante un’esperienza storica di espulsione collettiva simile a quella di al-Yarmouk, non è stata accostata a Srebrenica dall’Onu mentre veniva massacrata dopo anni di assedio durante le ultime tre guerre israeliane contro la Striscia?
La tentazione di chi volesse rispondere a questa domanda potrebbe essere quella di dire: “Bene, hai ragione: Gaza è una nuova Srebrenica, come al-Yarmouk”. Oppure, come si sente spesso e problematicamente dire: “Gaza è un nuovo olocausto”. Ma questi accostamenti, o meglio queste equazioni, così come quella dell’Unicef, rischiano di essere fallaci.
Gaza è accostabile allo sterminio europeo degli ebrei, viste le imbricazioni storico-politiche tra le due situazioni (un Paese come Israele in parte costituito da rifugiati e sopravvissuti all’olocausto che nel suo stesso prendere forma ha prodotto nuovi rifugiati, palestinesi, alcuni dei quali finiti a Gaza, altri ad al-Yarmouk), e visto che la sistematica rimozione di ogni accostamento tra le due situazioni è ciò che ci preclude di comprendere il senso della loro imbricazione, e di conseguenza il senso del presente.
Tuttavia l’olocausto e Gaza, nonostante (o forse in virtù di) questa accostabilità, non sono la stessa cosa. E la situazione di al-Yarmouk presenta delle specificità che la rendono diversa da Srebrenica.
Dunque occorre resistere a una certa politica degli accostamenti che opera identificazioni totali tra situazioni differenti e nel farlo esclude altri accostamenti. Occorre resistere a questa politica proprio interrogando il significato degli accostamenti mancati — “perché al-Yarmouk è accostato a Srebrenica e Gaza no”—ma in un certo senso fermandosi qui (perché il problema è tutto qui), senza riaffermare gli accostamenti mancati trasformandoli in equivalenze, senza cedere alla tentazione dell’“allora Gaza è come…” Questo infatti complicherebbe solo le cose e non dissolverebbe le gerarchie su cui si fonda quella politica degli accostamenti che sembra essere diventata uno dei fondamenti dell’ordine morale globale, e di cui i palestinesi, tra i tanti, continuano a pagare pesantemente le conseguenze.