Visioni e impronte nel presente: su Madreferro di Laura Liberale

di Vincenzo Idone Cassone

 

«ma forse la guarigione può iniziare soltanto quando ci saremo lasciati alle spalle il mito della madre. Perché noi siamo vittime non tanto dei nostri genitori, quanto dell’ideologia del genitore; non tanto del potere fatale della madre, quanto della teoria che le attribuisce quel potere fatale» James Hillman

«vi sono momenti in cui c’è bisogno dell’aiuto dei morti» Robert Pogue Harrison

 

Le due citazioni che aprono Madreferro (Perdisa editore, 2012) di Laura Liberale situano le coordinate fondamentali della riflessione del romanzo, che vorrei ora ripercorrere: in particolare, quell’intreccio inestricabile che fonda e oppone l’individuo e la specie attraverso i temi della sanità, dell’appartenenza, dell’aiuto e del fato. Ma (come in un rito) compiamo un passo alla volta:

Madreferro racconta (in prima persona e semi-autobiograficamente) del ritorno di una scrittrice/ricercatrice al paese in cui è cresciuta, Fabrica, nel Canavese, apparentemente in ricerca di studio e ispirazione, ma (già nella prima visita alla prozia) segnato da un percorso a ritroso nella memoria di sé e delle donne della sua famiglia, della storia di un paese che intanto vive l’immigrazione cinese con sempre maggiore timore; processo che disvelerà quanto di ctonio e nottifero le eredità personali e comunitarie possiedono ancora.

Ma è fondamentale precisare che il senso del romanzo non è affatto un ritorno personale al tempo perduto, quanto un pedaggio di sangue per una catabasi, tutta nel presente; individuale, perché tracciata nel filo della donne / streghe della famiglia; e insieme collettiva, perché i demoni in cui ci immergiamo sono sì quelli della cultura locale, ma di leggende che sentiamo tanto “nostre” da dover faticosamente illuminare banalizzandole, o relegare ai margini dell’ombra. «Cedere ai sogni e alle visioni», imprimere il presente degli echi di un passato recente e di un mondo ancora più lontano, ancestrale e incartografabile, diventa un obbligo e una necessità per poter tornare a dire, del presente, qualcosa: non a caso, lo scritto della protagonista si compirà e si fonderà sempre più con queste visioni e con la reminiscenza allucinata della storia del paesello, con le sue streghe condannate, i suoi uomini mandati in guerra, e i suoi pazzi.

L’aiuto dei morti ovvero la catabasi ha questo fine, orienta: dà la conoscenza del passato e del futuro, ma soprattutto è il momento del riconoscimento e quello della missione: i morti donano un’identità (genealogia) all’individuo, e uno scopo (tramandare, o salvare); in Madreferro, questa risposta si pone, con forza, contro tutti gli scacchi della narrazione e dell’identità, contro l’io confuso e alienato del contemporaneo, contro i suoi protagonisti abulici e le narrazioni asfittiche; come una pizia quando interrogata, il mondo (e il racconto) si riscopre pregno di senso, fino a traboccarne; ma può darsi solo, nel suo essere-l’altro (morto o dio, poco importa), per indovinelli e tramite sacrifici. Da qui, il secondo movimento del romanzo, uguale e contrario al primo: il pegno di sanità e appartenenza al notturno (oramai intimo e interno) che ognuno di noi deve compiere: perdere grammo a grammo, come l’oracolo invasato, la sanità; sentire, senza potersi voltare, che il morto ci segue per l’eternità, perché il suo scopo ora è il nostro, e il nostro il suo. Ed entrambi portano passo passo al momento in cui, richiesta dopo richiesta, scavo dopo scavo, il Mundus, la fossa di fondazione delle città, che collega vivi e morti, si aprirà di nuovo.

Sono questi contratti che, dando il potere di raccontare alla protagonista, insieme condannano la voce narrante al mondo da lei evocato; e avvinghiano lo stesso lettore, che può però districarsi trasformando la catabasi in catarsi, unico tra tutti, nel suo fortunato essere-a-lato. Ottenere insomma la consapevolezza e la salvazione, come chi ascolta i verdetti dell’oracolo, o le discese di Orfeo ed Ulisse, ma non è costretto a riviverli: può così rileggere e scoprire il senso del suo presente, separare gli strati cristallizzati del senso, inserire gli individui in quanto tali in una collettività e continuità, anche solo supposta.

«Venire qui è arrendersi ai simboli. In questa infanzia immolata ai piedi della Madre Terribile ci sono io in tutto il mio dissanguamento…» Lo spirito che dà il nome al titolo, la Magna Mater dai tanti volti; signora del sangue e del ferro, che vive nelle cattiverie delle donne di paese, negli scongiuri e nelle desiderate disgrazie, si incarna nella possessività efferata delle donne di casa, nell’indesiderato rituale delle prime mestruazioni, nella soggezione familiare alla tirannia della debolezza e in tutto quello che di ctonio la maternità e la femminilità può ancora dirci: primo e ultimo mito, quello del potere della madre, che innerva delle splendide figure di donne del libro, che recuperano tra le pagine tutto quanto l’ostentata cultura di oggi vuole loro togliere per un’illusione di sanità: il potere, il legame e il segreto.

Madreferro

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