Una conversazione a margine del laboratorio di teatro-filosofia de I racconti del lavoro invisibile attorno a lavoro, precarietà e reddito garantito.
Milva Pistoni: Inizierei dalla definizione del lavoro invisibile, più che di lavoro invisibile parlerei di lavoro non pagato, non retribuito. Ci si accorge in questo momento storico del fatto che ci sono dei lavori non pagati. Eppure il femminismo aveva da tempo messo in luce il valore di tutto il lavoro non pagato fatto dalle donne, e io condivido questa visione. Solo che oggi è non pagato un lavoro che fino a poco tempo fa lo era, vale a dire il lavoro della conoscenza, il lavoro delle relazioni. E questo non perché questo tipo di lavoro non serve, anzi. Ma di fatto questo ci riporta esattamente alla riflessione femminista sul lavoro domestico, fornito gratuitamente dalle donne, ma fondamentale. Abbiamo però eluso il discorso sul mercato del lavoro e sul lavoro come merce… e viviamo il paradosso che viene retribuito di più un lavoro manuale, le pulizie, che il lavoro intellettuale.
Cristiana Scoppa: Io faccio un po’ fatica a ritrovarmi nell’accezione “lavoro come merce”. Non so, sarà che la merce mi evoca delle relazioni complesse, nelle quali entrano in gioco soggetti diversi: chi produce, chi vende, chi compra. Mentre con il lavoro mi sembra che gli interlocutori siano sostanzialmente due, io che fornisco la prestazione, e il mio datore di lavoro che mi paga lo stipendio. In quello che io fornisco – il lavoro – non sento che c’è una “vendita”, ma piuttosto uno scambio. Qualcosa di “mio” (il lavoro che fornisco) contro qualcosa di “altri” (cioè di chi mi paga, impresa, istituzione, committente: i soldi che mi dà in cambio del mio lavoro).
Quando si parla di “lavoro come merce”, mi sembra anche che il lavoro di cura, che è in larga parte lavoro gratuito, cioè il cosiddetto lavoro “riproduttivo” delle donne, resta fuori, e dunque il discorso sul lavoro così inteso non mi comprende in quanto donna. E mi sembra anche che questa accezione impoverisca il discorso sul lavoro.
Ma il punto sul quale io mi sto interrogando in questo periodo è un altro: ora che sta scomparendo il lavoro alla catena di montaggio, oggettivamente alienante come ben raccontano i tanti documentari dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, possibile che non si senta più nessun discorso sulla qualità del lavoro? Il lavoro alla catena di montaggio comportava una “de-umanizzazione” nella ripetizione meccanica dei gesti, per i quali – pur volendoci una buona dose di concentrazione e delle abilità da acquisire con il tempo – si mirava a trasformare di fatto l’essere umano in una parte della macchina.
Invece oggi, che il livello culturale medio rispetto agli anni Sessanta e Settanta ritratti in quei film è straordinariamente cresciuto, in cui tutti siamo connessi a smartphone e social che implicano una qualche produzione “creativa”, perché è scomparso qualsiasi discorso sulla qualità del lavoro, sul fatto che il lavoro non dovrebbe essere solo qualcosa che fornisce un reddito, ma anche qualcosa che fornisce delle gratificazioni di altro tipo, che permetta di esprimere le proprie inclinazioni individuali, di apprendere e “crescere” in un certo senso?
Milva: Il fatto è che il lavoro di riproduzione sociale, fatto dalle donne e non pagato, è il lavoro che consente che ci possa essere quell’altro lavoro, il lavoro per il mercato, il lavoro retribuito. Oggi, che siamo tutti connessi e viviamo sui social media, nemmeno ci rendiamo più conto che – nel momento esatto in cui scriviamo o condividiamo qualcosa, per es. su Facebook, – stiamo fornendo una prestazione di lavoro gratuita a vantaggio di Zuckerberg o di chicchessia. Oggi “stiamo sui social media” come se non avessimo anche dei corpi, un affitto da pagare, il pranzo e la cena da mettere in tavola.
Non si parla del fatto che vogliamo non solo lavorare, ma anche vivere bene. Per me il discorso sulla qualità del lavoro va necessariamente associato a un più generale discorso sulla qualità della vita, e dunque diventa prioritario fare un discorso sul reddito. Il diritto al reddito, che non sia legato alla disoccupazione e che prescinda dal lavoro, che consenta a tutti di avere il minimo per vivere, perché quando non siamo bloccati dal ricatto lavorativo per la sopravvivenza, diventiamo produttivi per la società, fornendo alla collettività una serie di “prestazioni” gratuite, ma altrettanto necessarie per quel vivere bene che dicevo prima.
Cristiana: Quando parlo di qualità del lavoro, lo faccio a partire dalla mia esperienza. Ho alle spalle tre percorsi lavorativi, diciamo che ora sono nel quarto. Ma prendiamo quei tre: sono durati più io meno dieci anni ciascuno, e nel momento in cui ho fatto quello specifico lavoro, è stato anche un lavoro che “mi piaceva”, che ha comportato moltissimo lavoro “invisibile”, nel senso di non retribuito o non adeguatamente retribuito, ma contemporaneamente “compensato” da altri elementi: l’opportunità di imparare cose nuove, di fare delle esperienze interessanti, di metterci “del mio” a livello di ideazione eccetera. Queste cose hanno avuto un peso nel farmi accettare dei compensi “sotto la media” o altro. Questo derivava credo anche dal fatto che io con il lavoro mi identificavo, che non c’era una vera cesura tra il tempo di vita e il tempo di lavoro, per me il lavoro era parte della mia vita, in continuità con tutto il resto, forse perché tutti i lavori che ho fatto si sono sempre accompagnati con una certa “militanza”.
Quando è finito l’ultimo ciclo lavorativo, dei tre che dicevo, mi sono trovata improvvisamente confrontata con una situazione di estrema fragilità: eppure ho cercato di resistere per trovare qualcosa che fosse contemporaneamente un lavoro, ma anche una cosa che mi desse nuovamente quelle “compensazioni aggiuntive” (o forse dovrei dire più onestamente alternative! per lo meno in alcuni casi…) che avevo sperimentato in precedenza.
Milva: Contano molto i percorsi personali. Io dopo la laurea in filosofia della scienza ho scelto di mettere al mondo una figlia e di abbandonare le mie ambizioni velleitarie di carriera universitaria.
Va detto però che avevo sempre lavorato per mantenermi all’università, facendo tutti quei lavori tipici di chi studia, per esempio per tre giorni alla settimana lavoravo come assistente per disabili, gli altri quattro giorni studiavo. La mia soddisfazione stava nello studio, il lavoro era strumentale a consentirmi quella parte soddisfacente della vita.
Tutta quella ricchezza che tu chiedi al lavoro, la possibilità di imparare, di essere creativa, io le ho trovate e realizzate nella politica. Quando fai un lavoro servile, quello che sostanzialmente vendi è il tuo tempo che sottrai alla creatività. Per cui la gratificazione che deriva dall’elaborare un pensiero, dal fare insieme agli altri, e vedere questo pensiero agire nel mondo – per me è sempre stata la politica.
Per questo sono abbattuta dal fatto che la politica, come progettazione collettiva di cose che poi si vanno a realizzare, oggi in Italia stia al grado zero. L’impressione è che ci siano solo persone che sgomitano per piazzarsi su una poltrona con l’obiettivo di ottenere al più presto un vitalizio. Allora mi chiedo: perché è così difficile, proprio per queste persone, ragionare su un sistema che permetta a tutti/e di avere un reddito di cittadinanza?
Cristiana: Questo è proprio il ragionamento con cui si apre e si chiude Come un paesaggio (Iacobelli, 2013), il libro curato da Teresa Di Martino e Sandra Burchi che abbiamo presentato in uno degli incontri de I racconti del lavoro invisibile alla Casa internazionale delle donne, il 5 febbraio. Penso in particolare al saggio della svizzera Ina Praetorius, che è stata attivamente coinvolta nella raccolta di firme per un referendum sul reddito di cittadinanza in Svizzera.
Milva: Ina Praetorius fa un ragionamento molto interessante proprio a proposito della quantità di lavoro non pagato, che supera – in termini quantitativi proprio – il lavoro retribuito. E parte da lì per sostenere il reddito minimo garantito. Una proposta che condivido in pieno. Ne abbiamo parlato con il collettivo politico di Lucha Y Siesta, una casa occupata e autogestita in cui vivono donne, anche con figli, che si trovano in momentaneo disagio economico. Abbiamo parlato a lungo del fatto che la misura del nostro valore non viene dal denaro ma dalle relazioni di scambio e solidarietà che costruiamo. Come si fa a vivere bene se non si è pienamente cittadini perché si è fuori dal lavoro, fuori dalla legalità, fuori dal mercato degli affitti? Di questo si dovrebbe occupare la politica.
Quando parlo di reddito garantito, non penso all’assistenzialismo, per cui mi metto lì e non faccio più niente. Avere un reddito garantito, significa poter mettere il proprio tempo e le proprie competenze a disposizione di un lavoro collettivo, di utilità sociale, che non viene e non può essere pagato.
Cristiana: Il reddito di cittadinanza mi sembra una proposta molto interessante, che tiene conto appunto del fatto che tutti/e o diciamo molti/e forniamo alla società delle “prestazioni” gratuite attraverso le attività che conduciamo “per scelta”, per una nostra “gratificazione” – se così si può dire – personale. Immagino che il modello dovrebbe prevedere che chi “guadagna” restituisca alla società – sotto forma di tasse – una parte di questo reddito, che a sua volta viene distribuito attraverso il reddito di cittadinanza, generando le risorse che consentono i consumi che a loro volta generano nuovamente il reddito di quelle imprese di produzione, che poi sarà tassato chiudendo così il cerchio. Semplifico troppo?
Milva: Nell’organizzazione sociale del lavoro per me il ruolo delle imprese non è predominante. Per me il ruolo predominante ce l’ha il lavoro invisibile, cioè il lavoro non pagato, che è quello “regge” davvero il mondo. Il mercato, e le grandi imprese, guadagnano sulla disuguaglianza, creano sfruttamento e gerarchia, e il reddito non viene redistribuito.
Un tempo anche senza denaro si poteva vivere, cosa che oggi è impossibile. Ma occorre dire che la proposta del reddito di cittadinanza fatica a farsi strada, e ha tra i suoi detrattori anche i sindacati, perché paradossalmente loro lavorano con la “merce” lavoro. Riconoscere che il diritto a una vita dignitosa è un diritto umano fondamentale è una scelta politica.
Cristiana: Mi chiedo se un discorso politico sul reddito di cittadinanza possa convivere, o è necessariamente alternativo, a un discorso politico sulla qualità del lavoro, sul perseguire la possibilità di una occupazione per tutti/e che non sia semplicemente la fonte di un reddito ma anche una occupazione che dia soddisfazione, che permetta di andare a lavorare senza sentire oppressione, frustrazione, svalorizzazione di sé per otto ore al giorno (se non di più), dovendo poi investire incredibili energie per riconquistare quel valore di sé nelle cose che si fanno nelle restanti sedici ore, e considerano che una parte di questo tempo serve semplicemente per mantenersi in vita, mangiare, dormire, spostarsi…
Milva: Non credo sia alternativo. Nella vita non ho mai pensato al lavoro come una fonte di identità, ma sempre e piuttosto come una fonte di reddito. Forse perché vengo da una condizione proletaria, nel senso che questa parola aveva nel secolo scorso, dove la scelta del lavoro si scontrava con la necessità della sopravvivenza, e queste caratteristiche di creatività nel lavoro non me le sono forse nemmeno mai permesse. Ma ho fatto comunque molti lavori, traendo a volte molto più piacere e soddisfazione dal lavoro in campagna, contadino, che non dal lavoro d’ufficio. Per me, a fare davvero la differenza nella scelta lavorativa è stato il momento in cui mia figlia è andata a scuola. È stato allora che ho cercato un lavoro stabile, un contratto a tempo indeterminato e mi sono messa a fare l’impiegata. Nei tanti lavori precari che ho fatto, ho imparato cose molte diverse e anche interessanti, ed era una situazione che tutto sommato mi stava bene. Ma quando i bambini vanno a scuola hanno esigenze di regolarità.
Solo che la stabilizzazione sul lavoro si è rivelata una chimera e non ha rappresentato una garanzia, infatti con la crisi si è tradotta in un licenziamento, in un momento in cui avevo una età in cui sperare in un altro contratto del genere era impensabile.
Le scelte da “buona madre di famiglia” possono essere una trappola per le donne, perché sono loro che – più degli uomini – rispondono al richiamo di una vita regolare che viene da un/a bambino/a quando comincia ad andare a scuola, e tutte le mattine deve uscire di casa a una certa ora, avendo fatto colazione, con i vestiti in ordine ecc. E perché quando hai un figlio da mantenere accetti condizioni di lavoro spesso orribili, e cedi a dei soprusi pur di riuscire a mantenere in piedi il quotidiano e familiare. È per uscire dalla condizione di ricatto che il reddito di cittadinanza è fondamentale.