Dopo l’introduzione a “Il tempo dei migranti“, a cura di Stefano Rota dell’Associazione Transglobal, pubblichiamo oggi la terza (qui la prima e qui la seconda) delle tre interviste* dedicate al ruolo del tempo nei processi migratori.
La terza fase che descrive il fenomeno migratorio verso l’Italia e più in generale l’Europa è quella attuale e mi sembra opportuno farne coincidere l’avvio con le grandi trasformazioni che dal Maghreb si sono diffuse al Medio Oriente, quindi con la fine del decennio scorso e l’inizio di quello in corso. È inutile ricordare che il 2010 sia stato anche l’anno in cui la crisi economico-finanziaria ha cominciato a far sentire pesantemente i suoi effetti, in termini di forte contrazione dei posti di lavoro e riduzione della domanda, andando a incidere pesantemente sui settori più deboli e meno protetti della composizione della forza lavoro, con conseguenze dirette su tutta l’articolazione delle forme sociali e comunitarie delle loro vite. Questi due elementi insieme spingono verso un cambiamento più formale che sostanziale del motivo che predomina nei flussi in entrata[1]. I cosiddetti “migranti economici” calano drasticamente. Aumentano in modo molto consistente, invece, le migrazioni provenienti da aree del pianeta affette da crisi “riconosciute”. La figura centrale di questo nuovo corso dei movimenti migratori, il profugo, fa saltare i meccanismi consolidati in Europa di definizione delle modalità di accettazione basati sul modello del “migrante economico”, mettendo a nudo la totale indisponibilità da parte di quei Paesi a fare i conti con la propria storia, più o meno recente, di rapporti con i Paesi del sud del pianeta. Le periferie in fiamme (ma anche rese aride, espropriate, impoverite) della ex metropoli colonialista riversano ai suoi confini una moltitudine di cittadini non disposti a tornare indietro, come dicono i migranti accampati a Calais, ribadendo nei fatti e quotidianamente uno slogan che campeggiava sui muri di Brixton a Londra, durante i riots degli anni Ottanta: “We are here, because you were there”.
Mare di sabbia – Conversazione con A., E. e M.
Settembre 2015
Questa intervista – l’ultima delle tre del “Tempo dei migranti” – ha coinvolto tre giovani nigeriani richiedenti asilo. Al suo interno si intende dare voce a chi ha seguito quelle rotte che, partendo dall’Africa subsahariana, attraversano il mare di sabbia che la separa dal Mediterraneo.
Il fermare il racconto sulla costa libica ha un duplice motivo: il primo, e forse meno importante, sta nel non voler aggiungere una voce in più alla già affollata, ma giustificatissima, serie di resoconti delle drammatiche condizioni della traversata del Mediterraneo. Il secondo motivo risiede invece nel significato che assume per molti migranti africani il raggiungimento della Libia, non solo nei termini che possono, volutamente, trasparire dal titolo di questo resoconto (chi può dire quanti morti ha inghiottito il Sahara, con le sue condizioni climatiche, i suoi mezzi di trasporto che definire “carrette” offenderebbe le barche così chiamate per l’attraversamento del Mediterraneo, ma soprattutto con i suoi lager, guardiani armati e predatori?), ma, come si vedrà, per le aspettative e la progettualità che sta molto spesso alla base dei movimenti migratori trans-sahariani.
Nawao!
S.R.: Vorrei chiedervi se potete abbozzare una descrizione delle ragioni che sono state alla base della vostra decisione di partire dalla Nigeria, ben sapendo che, in quanto richiedenti asilo, non tutto può essere detto.
A.: In effetti, una parte di queste motivazioni costituiscono un segreto nostro, che, per varie ragioni, preferiamo tenerci per noi.
E.: Nawao! [A. ride. Chiedo cosa significhi] È un’espressione in slang nigeriano che serve a manifestare una brutta sensazione, un brutto ricordo, o cose simili.
A.: Ok. Posso riassumerle in modo molto breve. Una situazione di merda. In Nigeria, se non hai i soldi, se non conosci qualcuno di importante, non puoi fare niente, assolutamente niente. Noi tutti, al di là delle differenze, avevamo dei progetti, alcuni legati a esperienze lavorative o formative, altri a esigenze familiari. Io, personalmente, sono partito per questo motivo: non avevo nessuna speranza di realizzare il mio progetto.
E.: Oltre a questo, io ho un motivo molto particolare. Nella nostra tradizione, quando muore un re locale, devono essere uccise diverse persone per essere seppellite con lui e per accompagnarlo. Mio padre era incaricato di questo e io ero uno dei predestinati. I ragazzi venivano rapiti quando si recavano al fiume, cosa che poteva accadere tutti i giorni. Mia madre mi ha spinto a scappare: questo ha creato un forte conflitto tra i miei genitori e in generale nella mia famiglia, perché mi ha aiutato mia sorella a raggiungere la Libia.
M.: Per me la ragione è più di carattere religioso. Sono nato in un’area cristiana, ma mio padre non è cristiano, è musulmano. Voleva che diventassi musulmano anch’io, ma io non volevo. Lui aveva un potere enorme su di me: poteva farmi qualunque cosa in ogni momento pur di raggiungere il suo obiettivo. Per me, partire ha significato riscattare la mia vita.
S.R.: Come è avvenuta la partenza dalla Nigeria?
A.: Tutti seguono lo stesso percorso. Si raggiunge con vari mezzi Zindar, in Niger. Il tragitto, di solito, avviene sul tetto di autobus o su camion stracarichi, con il rischio di cadere giù ogni momento, se non ti tieni molto forte. Da Lagos a Zindar è un viaggio di tre giorni. Già questo tragitto è quasi tutto nel deserto.
M.: Da Zindar il viaggio prosegue verso la Libia. Si raggiunge Sabha in una settimana, sempre nelle stesse condizioni, passando da Tigirin e Qatrun. Lungo questo percorso, non c’è una strada: solo una pista nel deserto. I mezzi di trasporto sono aperti, devi legarti a qualcosa per non correre il rischio di cadere. E molti, infatti, cadono.
Rapimenti e al-zanzana
E.: In Sabha ci sono molti rapimenti, oltre che il rischio continuo che ti sparino in mezzo alla strada, senza nessun motivo, quasi come fosse un divertimento. Tre che erano con noi sono morti così. Arrivano da te, armati, ti chiedono soldi e cellulare: a quel punto possono ucciderti o rapirti, per costringerti a chiedere alla tua famiglia i soldi per il riscatto. Tutti girano armati, anche i bambini: chiunque può ucciderti, così, all’improvviso.
A.: Da Sabha a Tripoli è la parte più rischiosa del viaggio: ci sono soldati lungo la strada che fermano i mezzi. Se ti prendono ti portano in prigione [usa il termine arabo per prigione, o più precisamente cella, al-zanzana, a sottolineare la frequenza con cui ricorre nelle conversazioni tra i migranti. I termini che vengono mantenuti in una lingua diversa da quella del racconto hanno sempre un portato specifico, che può essere positivo o negativo, quasi a sottolinearne l’intraducibilità in un’altra lingua, data dall’associazione del luogo a determinate condizioni del luogo stesso, nda]: quello è il rischio maggiore. Ti picchiano continuamente, ti lasciano sotto il sole. Le condizioni in zanzana sono spaventose: sono affollatissime, senza finestre, con un buco nel pavimento come toilette. Noi non ci siamo stati in zanzana, ma io sono stato rapito in Sabha. Mi hanno tenuto tre mesi in una casa in costruzione! Mi hanno costretto a telefonare a casa dei miei, dicendogli che se non facevano arrivare i soldi, io ero morto. Sono riuscito a scappare, ma è stato una specie di miracolo che sono vivo, perché se provi a scappare e ti prendono, ti uccidono subito.
E.: Se ti prendono e ti portano in zanzana, molto probabilmente per te è finita. Puoi starci anche oltre un anno. Se sei con la moglie e con le figlie, è quasi certo che verranno violentate. Oltre ai maltrattamenti e le violenze, si prendono anche malattie e nessuno ti cura. È come stare su una barca nel Mediterraneo, ma non per tre giorni, per un anno, o di più. Capisci di cosa sto parlando?
M.: Non saprei dire quanti, tra quelli che partono dalla Nigeria, muoiono nel viaggio, di omicidio, in zanzana. Io stesso ne conosco alcuni della zona da dove vengo che sono partiti e di cui non si sa più niente.
Lavorare in Libia. Partire o morire
S.R.: Mi potreste raccontare del periodo che siete stati Libia, fino al momento della vostra partenza per l’Italia?
A.: Tutti dicevano in Nigeria che in Libia c’è tanto lavoro. È vero, solo che non ti pagano. Ti chiamano per costruire una casa, lavori per dieci-quindici giorni e poi ti dicono, minacciandoti, Imsh, Imsh [Vai, vai, nda], senza darti niente. A quel punto sai che non puoi né protestare, né rivolgerti a qualcuno, perché lì non sei nessuno. Questo accade ovunque: a Sabha, a Brak, a Tripoli, ovunque. Se non te ne andavi, ti sparavano.
E.: Io ho vissuto così sei mesi a Sabha, un giorno ti pagavano e dieci no. Tieni presente che a Sabha fa un caldo infernale [si trova nel sud della Libia, nda].
M.: Non è proprio corretto dire che nessuno ti pagava per il lavoro. Alcuni pagavano, ma sono una piccola minoranza. Diciamo che l’80 per cento non pagava. Tra questi c’erano sia i white libians [i libici di origine araba, nda] sia i black libians [i libici di origine africana, in buona parte provenienti dal Sudan, Chad e dal Corno d’Africa, presenti soprattutto nel sud, nda]. Ma questi ultimi sono i più pericolosi, i più aggressivi; anche molti white libians hanno paura di loro [va detto che, nel 2011, dopo la caduta di Ghaddafi, si è scatenata una vera e propria caccia al nero libico, associato sempre all’appartenente alle milizie di Ghaddafi, il che, in moltissimi casi, non era vero, nda]. Si può dire che i white libians stiano imparando da loro.
A.: Da Sabha a Brak [o Birak, città nel deserto libico, sul cammino per Tripoli, nda] è un viaggio molto pericoloso: dura tre giorni. Quando ero a Brak, mi hanno portato a Tripoli di nascosto, perché c’erano molti soldati lungo strada: essere presi, significa essere certamente portati in zanzana. Bisogna fare tutto il viaggio nascosti, con un caldo insopportabile, solo con l’acqua e il cibo che si è riusciti a recuperare prima della partenza.
M.: Ci sono degli intermediari [brokers, nell’intervista, nda] che vengono a cercare le persone a Brak, per chiedere a chi è arrivato lì se vuole lavorare a Tripoli; a quel punto, organizzano il viaggio. Devono essere almeno una ventina di persone, poi si parte. Ti dicono che se non hai soldi per pagare non c’è problema, perché il viaggio si pagherà con i soldi che dovresti guadagnare lavorando a Tripoli, ben sapendo come vanno le cose. Ma questo per loro non è un problema: se non ti pagano, chi ti ha portato a Tripoli prende comunque dei soldi da chi ti ha fatto lavorare. Si tratta soprattutto di lavori nelle costruzioni, come muratori, piastrellisti, coloritori, saldatori e nelle stazioni per il lavaggio delle macchine.
E.: Anche a Tripoli la vita è molto rischiosa: devi nasconderti sempre. Per andare giro a volte ci vestivamo come donne [con il viso e il corpo coperto, nda]. Noi dormivamo in un posto con molte altre persone, tutte africane. I libici controllavano il posto e un giorno è entrato un gruppo di Asma boys [una gang di giovani libici, famosi tra i migranti per la loro efferatezza, nda] per farsi dare soldi e telefoni. Ci hanno fatti sdraiare in terra e hanno ucciso un ragazzo. Dopo questo episodio, ho deciso di andarmene da Libia e venire in Italia. Un giorno ho visto molta gente correre verso il mare: li ho seguiti e ho visto che entravano in una grande barca. Sono entrato anch’io, senza soldi.
M.: Se hai qualche amico libico, si può lavorare bene in Libia. Noi stessi avevamo intenzione di andare in Libia per lavorare lì e guadagnare. Non avevamo nessun programma di venire in Italia. C’è un posto che si chiama Shogo Ground, dove tutti gli africani e stranieri in generale vanno a offrirsi per lavorare. Passano i libici e ti chiedono se vuoi fare un certo lavoro. Il rischio che non ti paghino, anche lì, è molto alto. Un giorno, lavoravo per un persona che mi chiesto perché continuavo a stare in Libia e non andavo in Italia. Dopo pochi giorni, mi ha portato nel posto dove c’erano oltre cento persone ad aspettare di prendere la barca per attraversare il mare.
A.: Io non sapevo che dalla Libia si potesse raggiungere l’Italia, non ne avevo mai sentito parlare. Ho deciso di partire perché avevo capito che il progetto che volevo realizzare in Libia era solo un sogno, quindi ho deciso di partire con la barca. Io ho pagato circa duecento euro: erano gli unici soldi che avevo con me, quello che ero riuscito a guadagnare. Io lavoravo in Brak come saldatore, anzi, ho imparato lì il mestiere. Per fortuna mi pagavano. È lì che ho sentito parlare della possibilità di raggiungere l’Italia. Quando ero in Nigeria, pensavo che la Libia fosse un Paese diverso, un posto dove si può imparare un mestiere, guadagnare bene, inviare i soldi a casa e tornare. Quando ho visto quello che succede lì, ho capito che non era quello il posto dove volevo stare. Ho chiesto al mio datore di lavoro come potevo raggiungere Tripoli e l’Italia. Mi ha portato lui a Tripoli e mi ha messo in un posto con altre persone. Da lì poi ho trovato il modo per salire sulla barca.
Quello che si vuole provare a mettere in discussione in queste righe conclusive è la validità della distinzione tra “profugo” e “migrante”, una distinzione che viene continuamente ripresa nella definizione delle scelte politiche europee e dei suoi stati membri in materia di accoglienza. Sono di questi giorni di inizio settembre le notizie riguardo un’apertura molto consistente da parte della Germania nei confronti dei profughi siriani, seguita subito da una dichiarazione simile, ma più ambigua, da parte del primo ministro inglese. Quello su cui si vuole mettere l’accento è un punto di vista relativo alla stessa faccia della medaglia, che ne metta in evidenza un aspetto certamente meno, o per nulla, evidenziato dai media e dai dibattiti mainstream sulle migrazioni. Qual è la ragione di fondo che porta a distinguere tra “veri profughi” e “falsi profughi”, e che, all’interno dei primi, porta a definire la scala di priorità e di appetibilità di una parte di questi rispetto ad altri?[2] Credo che siano da cercarsi nel tentativo, sempre rinnovato e mai completamente raggiunto, di mettere in atto politiche di management, di controllo e selezione da parte dei governi del nord del pianeta nei confronti dei flussi migratori. A questa combinazione straordinaria e potente di forze politiche, quindi anche militari e poliziesche, la moltitudine dei migranti risponde sempre allo stesso modo: mettendo in campo l’imprevedibilità delle scelte e la soggettività che si dispiega al loro interno.
A., E. e M stanno dentro a questo quadro. Sono “profughi” o “migranti”? Hanno scelto liberamente di venire in Europa o vi sono stati costretti? Alla domanda se si considerano profughi, la risposta è stata: «non lo so, non capisco esattamente cosa significhi. Credo che quasi tutta l’Africa si possa considerare una zona da cui chi parte è un profugo, oppure un migrante. Qual è la differenza?»
Note
[*] Le interviste sono già apparse, in altra forma sul blog Transglobal di Frontiere News.
[1] S. Mezzadra ha ampiamente trattato dell’inadeguatezza del lessico sulle migrazioni in: The proliferation of borders and the right to escape, in in Y. Jansen, R. Celikates and J. de Bloois (eds), The Irregularization of Migration in Contemporary Europe. Detention, Deportation, Drowning, London – New York, Rowman & Littlefield, 2015: 121-135.
Da questo articolo è stato estrapolato il suo intervento comparso nel blog Transglobal su Frontiere News, Il lessico sulle migrazioni alla prova dei fatti e della soggettività
[2] Per un’analisi completa del modo in cui i termini usati “lavorano” all’interno di pratiche discorsive che consentono di “parlare” e rappresentare i soggetti e sulla necessità di innovare tali termini, si veda N. De Genova, S. Mezzadra, J. Pickles, New Keywords: Migration and Borders, in Cultural Studies, 2014, Taylor & Francis On Line.