I giorni della nepente. Una storia tossica è il primo romanzo dello scrittore umbro Matteo Pascoletti. Una narrazione che svela i meccanismi con cui lo Spettacolo dà forma alla tragedia su cui collassano le vite di quattro personaggi qualsiasi.
La distanza che passa tra l’informazione e la letteratura si misura nella dimensione del raccontare, quando questo prende il sopravvento sulla mera registrazione degli eventi. I giorni della nepente. Una storia tossica (effequ), romanzo d’esordio di Matteo Pascoletti, mette in scena tra le sue pagine esattamente questa distanza.
Da una parte c’è l’informazione o, meglio, lo Spettacolo, incarnato dalla voce monocorde del coro. Un’idra fatta di parole che suonano identiche, anche quando a pronunciarle sono voci e istanze enunciative così distanti l’una dall’altra da apparire inconciliabili.
Fanno parte del coro i giornalisti e i giornali, i pubblici ministeri e gli avvocati, i blogger e i commentari dei siti web, la vox populi dei bar e delle fermate degli autobus. Un tappeto sonoro, un rumore di fondo che s’aggrega intorno all’omicidio di Lorenzo Gherardi.
Sbandato ed eroinomane, Lorenzo è il ritratto del tossico par excellence. Passa le sue giornate volteggiando nei paraggi di un distributore automatico di sigarette, con la frase «checc’hai du spicci» sempre in canna. La scimmia ben posata sulla spalla e un appuntamento fisso con lo spaccino di turno.
Il lavoro di Lorenzo è scollettare, e gli aspetti a lui trascurabili sono le persone che camminano attorno, amoreggiano sulle panchine, gettano briciole ai piccioni, guardano le locandine dell’edicola, entrano nel bar, consumano, sfogliano distrattamente i giornali locali, evacuano, pagano, escono, entrano in farmacia, comprano medicine da banco o con ricetta, escono, restano in centro a distrarsi o tornano a casa e s’intristiscono.
Una routine precaria e uguale a se stessa, che s’interrompe dopo una sòla che lo lascia malconcio e in preda all’astinenza. È così che Lorenzo decide di scippare la madre di Mauro, insegnante precario e manesco compagno di Giulia, che un tempo di Lorenzo fu amante e oppiacea musa; ora passa la sua vita di ex tossica tra la gelateria dove lavora e l’appartamento che divide con Mauro, animata da un insopprimibile bisogno di redenzione.
Che fare? Sì, è un’altra domanda, ma è la sorgente di ogni domanda, raggiunta la consapevolezza che non puoi stare qui. Conosco il tuo cruccio. Io e te siamo una cosa sola. Hai il dubbio che Angelo sia la ripetizione di un errore: l’incontro imprevisto mentre fuggi da un inferno, la tua debolezza che chiede vigore a un altro uomo.
Un uomo, Mauro, che cova bile e mastica odio. E ciclicamente eplode la sua furia. Come “quella maledetta domenica”, in cui un tossico ha scippato la madre provocandone la morte e lui, accecato dall’ira, lo ha rincorso e ucciso a mani nude. Certo, col concorso di un gruppo di persone. Ma è lui che s’è accanito sul corpo di Lorenzo, che s’è bagnato nel sangue del ragazzo per ordine dell’odio che lo rode dentro. Un odio che, forse, non è nemmeno rivolto all’assassino della madre, ma di cui è quello a farne le spese.
Mauro colpisce il tavolo con un pugno, bestemmiando, e Giulia si alza, corre in bagno. Sa che è meglio farsi piccoli e stare in disparte, perché ogni cosa è straniera e nemica agli occhi della furia. Si rannicchia schiena al muro, mentre dalla cucina arriva il fracasso di piatti nel lavello. Finisce sempre così quando parla a sproposito di quella donna. Che stupida è stata! La furia si sta espandendo, inghiotte aria e oggetti; potrebbe arrivare a lei, prima di scivolare sotto la superficie, impregnando le stanze. Nulla resterà del suo passaggio, se non i cocci da spazzare e le macchie da pulire. Nel peggiore dei casi ci saranno tagli da disinfettare, o lividi da coprire con fondotinta e sciarpe. Un giorno, pensa, l’appartamento sarà così saturo di furia da esplodere con loro all’interno.
Poco più in là, in disparte, c’è Angelo. Giornalista codardo, amico di Lorenzo, in procinto di diventare amante di Giulia. Sfiorato dalla tragedia, se la scuote di dosso con la stessa facilità con cui s’ordina una consumazione al bar.
«Oh, ma che fa quello? Attento!» grida da dietro il barista. Qualcosa mi arriva addosso; il tavolo metallico, cui d’istinto mi aggrappo, sobbalza, e la caduta è una parabola d’immagini che volteggiano insieme al mio corpo: il libro di poesie che scivola sul ciglio del tavolo metallico, il bicchiere di vetro che cade e si spacca, un gruppo di ragazze sul gradone esterno della fontana che mi guardano cadere, e il volto di Lorenzo, che posseduto dalla scimmia mi segue nella caduta, finendomi sopra.
Ho addosso lui e il puzzo di sudore e vestiti sporchi. Scarico ogni impeto spingendo via quell’ombra di carne e guadagno lo spazio per rialzarmi. Lui però mi afferra il braccio.
«Aiutami!» mi dice.
«Impara a stare al mondo, cretino!» urlo, dandogli un’altra spinta. Per fortuna capisce l’antifona e fugge via.
Ma l’omicidio di Lorenzo non è solo uno dei tanti fatti di sangue che si possono incrociare nel corso di un’esistenza, è il punto d’impatto attorno a cui, per un istante, convergono le vite dei personaggi e dei protagonisti di questo romanzo.
Leggere I giorni della nepente fa lo stesso effetto che si avrebbe nel guardare dall’alto le traiettorie delle vetture di una giostra di autoscontri. Le vite dei personaggi vagano dritte, curvano, voltano e piroettano finché non si toccano di schianto in uno scontro che non lascia mai privi di conseguenze dolorose.
È in questo intrecciarsi delle esistenze dei protagonisti del libro che si tocca con mano il lavoro dello scrittore.La struttura ordita da Pascoletti scandisce la lettura senza creare frizioni tra i frammenti di racconto che, incastrandosi, rilanciano e sollevano la narrazione. Perché a ogni scontro, le esistenze raccontate si legano sempre più le une alle altre per andare a comporre quel mosaico unitario che è I giorni delle nepente. E mano a mano che il circuito si chiude e che il nostro sguardo viene illuminato dalla corrente narrativa che scorre tra le pagine del libro, emerge un’immagine che non è soltanto quella della storia minima e personale.
La tragedia messa in scena da Pascoletti germina dal contesto in cui si svolge. Come se il tappeto d’aria su cui scivolano le matte vetture d’autoscontro che sono i personaggi del libro fosse costituito dal logoro tessuto del discorso pubblico dell’epoca in cui viviamo. Un tappeto crepitante di fastidiose scariche elettriche che provano a tenere in vita con dosi sempre maggiori di voltaggio il corpo morto di una società: la nostra.
È qui che il lavoro dell’autore colma la distanza tra informazione e letteratura, tra narrazione e registrazione dell’esistente. Mostrando queste vite minime, che non accadono mai al di fuori di una cornice che non le spiega, ma le contiene e le determina senza che ci sia sosta possibile. Come a dire che gli individui – unici e singolari che siamo – e le nostre esistenze non si danno in vitro; al contrario sono sempre comprese in una rete di relazioni che costruiamo mentre essa stessa ci costruisce. Non esiste un al di là o un fuori, rispetto al flusso d’informazione che registra ciò che accade, in cui le vite dei personaggi (e le nostre) possono scorrere come se nulla fosse. Quella rete di parole e di concetti, spesso vuote idee ripetute all’infinito, ci avvolge e ci trasforma. È nel mostrare il meccanismo, nello smascherare le relazioni, nel disvelare le conseguenze che i discorsi hanno sulle vite, che prende corpo e si dispiega la dimensione etica dello scrivere e che, ancora una volta, la narrazione accede al suo massimo potere.
Nasce così un romanzo in cui stupisce la familiarità con cui parla di vite altre, che a volte appaiono così simili alle nostre. E lo fa rinunciando alla doppia tentazione di essere didascalia del presente e di fare un’allegoria o una metafora a tutti i costi. I giorni della nepente è il ritratto di un tempo, il nostro, in cui la distopia aleggia sempre come possibilità concreta tra le vite delle persone. Vite che restano la materia più concreta e irriducibile della narrazione e del racconto; non è forse il compito ultimo della letteratura, farci sentire la distanza tra il dettaglio e l’insieme mentre l’operato minuzioso delle parole ricuce lo strappo per mostrare noi stessi, in quanto individui e articolazioni della società, come un insieme imperfetto?
[Le foto che corredano il post, ad eccezione della copertina del libro, sono opere di John Wood dalla serie intitolata Gun in Landscape].