Sui confini d’Europa #13

Storia del confine tra Serbia e Ungheria, dal 2016 ad oggi

Sono passati tre anni e mezzo da quando, per la prima volta, ho deciso di mettermi fisicamente in gioco lungo una delle tante frontiere sbarrate all’immigrazione della fortezza Europa. Era l’estate del 2016 quando una serie di eventi circostanziali mi portarono a trascorrere qualche settimana nel nord della Serbia, al confine con l’Ungheria. All’epoca non avrei mai immaginato che le cose potessero rimanere così per tutto questo tempo, eppure le frontiere sono ancora chiuse e migliaia di persone continuano ad attraversare illegalmente e pericolosamente la cosiddetta “rotta balcanica”. Il flusso migratorio lungo l’asse Serbia-Ungheria è drasticamente diminuito rispetto ai tempi della mia visita, ma la dinamica rimane la stessa. Chi decide di continuare il proprio viaggio passando per l’Ungheria, piuttosto che per la Croazia, viaggia da Belgrado al nord del Paese per raggiungere una delle due “transit zone”, le zone di transito di Kelebija e Horgoš.

Le transit zone furono create nel 2015 e sono l’unico modo per entrare legalmente  in Ungheria. Nell’estate del 2016 c’erano tra le 100 e le 400 persone che aspettavano di fronte alla transit zone; 15-20 al giorno venivano lasciate entrare. La vera e propria transit zone consiste di container nei quali si può chiedere asilo tramite la “border procedure”.[1] La precedenza viene concessa ai casi vulnerabili il che significa che spesso gli uomini single (la stragrande maggioranza di chi tenta la traversata), aspettano davanti la transit zone per settimane. Alcune volte le famiglie vengono separate: i figli maggiorenni vengono trattenuti nella transit zone mentre il resto della famiglia con i figli minorenni viene accomodata in un “open camp”. Quando arrivi alla transit zone devi assicurarti che il tuo nome sia inserito nella lista e aspettare il tuo turno. La prima intervista serve a decidere se sei eleggibile di asilo in Ungheria. In teoria la decisione non dovrebbe prendere più di 8 giorni ma l’attesa è generalmente molto più lunga. Inoltre, se decidi di non chiedere asilo, possono chiuderti nei centri di detenzione o decidere per un rimpatrio. L’Ungheria è generalmente solo una delle tante tappe da attraversare per raggiungere paesi europei più ricchi, dove ci si immagina di avere più possibilità di rifarsi una vita; per questo motivo molti decidono di attraversare il confine illegalmente. Da giugno 2016, chiunque entri illegalmente dalla Serbia ed è trovato in un perimetro che si estende per 8 km dal confine è rimandato indietro con quella che viene definita legge del “pushback”, messa in atto dai poliziotti Ungheresi quanto da quelli Croati, più volte denunciata da ONG e attori della società civile per la violenza e la violazione della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, denunce che non hanno mai trovato ascolto. La prassi vuole che chi viene beccato ad attraversare illegalmente dalla Serbia venga picchiato, inseguito da cani, derubato dei suoi pochi averi e silenziato attraverso la distruzione del proprio telefono.

La stessa  procedura viene messa in atto al confine tra Bosnia e Croazia in quello che viene definito “the game”, il gioco.  Tutt’altro che divertente, il gioco consiste nel cercare molteplici volte di attraversare illegalmente il confine con la Croazia, passando da una due piccole città di Velika Kladuša o di Bihać, cercando di sfuggire alla violenza della polizia Croata e degli agenti di Frontex. I respingimenti avvengono, come al solito, di notte e in punti di confine semi-rurali per evitare la presenza di testimoni. I migranti sono prelevati dai confine in “combis”, celle di isolamento mobile, senza finestre né ventilazione, che si avvalgono di un sistema di pompe che immette aria calda nel retro passeggeri causando nausea e vomito.

Nel 2016 la Bosnia non era ancora battuta come oggi e, dopo qualche viaggio lungo i confini serbo-bosniaci, io e i miei compagni decidemmo di non consigliarla nonostante dal punto di vista dei controlli fosse più sicura della Croazia. I problemi principali nell’attraversare il confine tra Serbia e Bosnia sono rappresentati dal fiume Drina, che scorre lungo tutto il confine centro-settentrionale tra le due nazioni, e dalle mine antiuomo. Le mine, retaggio delle guerre jugoslave, sono ancora numerose all’interno del territorio bosniaco e, spesso, poco mappate. Le mappature della presenza di mine all’interno della Bosnia sono obsolete e incomplete. Inoltre, assestamenti del terreno in seguito a forti precipitazioni climatiche fanno si che le mine si spostino e rendono pressoché impossibile esser sicuri della loro localizzazione nel terreno. Eppure come già anticipato, ad oggi, la Bosnia è diventata uno dei Paesi più battuti della rotta Balcanica e, da febbraio 2018, viene considerata la nuova Serbia, mentre la polizia croata mette in atto le stesse pratiche disumane perpetrate da quella ungherese, creando delle “buffer zones” nelle quali i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione di Ginevra e dalle leggi internazionali sull’immigrazione sono continuamente negati. E., uno dei leader del campo di Horgoš ai tempi della mia visita, dopo aver raggiunto l’Austria agganciato alle ruote di un autobus e aver ottenuto l’asilo in Germania, è tornato cinque volte in Serbia ad aiutare i suoi fratelli e mi racconta come, rispetto ai giorni della sua permanenza, il traffico lungo la rotta serbo-ungarica è decisamente diminuito negli ultimi quattro anni. Ma i numeri restano elevati: l’Ungheria riporta che, nel solo mese di gennaio di quest’anno, 3400 persone hanno tentato l’attraversamento illegale dalla Serbia.

Il 30 gennaio 2020 diverse centinaia di migranti, tra cui famiglie con bambini piccoli,  hanno provato ad attraversare il confine tra Serbia e Ungheria. Il gruppo è arrivato al confine tra Kelebija e Tompa e ha passato la notte al freddo e al gelo protestando e chiedendo di entrare in Ungheria ma si è trovato di fronte i soliti agenti che ne hanno impedito il passaggio. Il giorno dopo diversi autobus, “messi a disposizione” dalle autorità serbe, li ha riportati nei centri di richiesta asilo del Paese. I cartelli esposti durante la protesta al confine recitavano “Non siamo criminali”, “I nostri figli meritano un educazione”, “La mia famiglia mi aspetta in Europa”. Mentre esponevano le proprie richieste su quadrati di cartone, i manifestanti hanno scaldato la notte cantando la loro più semplice richiesta, così giusta e umana, eppure ancora negata: “OPEN THE BORDER!” .

 

[1]

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