Il razzismo nel nome delle donne

Un estratto di Femonazionalimo (Edizioni Alegre 2019, trad. di Marie Moise e Marta Panighal), sintesi politica di femminismo nazionalista e femocratico.

Lacey McKinney, oil on paper (2019).

A partire dalle elezioni europee del 2014 in tutto il continente la destra nazionalista ha ottenuto un numero di voti senza precedenti, laddove non ha consolidato un supporto popolare già significativo. Esito di campagne elettorali all’insegna di aspri slogan islamofobi, tali risultati hanno innescato la paura di un ritorno del fascismo. Tuttavia uno degli aspetti più sorprendenti dell’odierna destra nazionalista europea è che a differenza degli omologhi predecessori fa riferimento alla parità di genere (e in modo occasionale ai diritti Lgbt) all’interno di una più vasta retorica xenofoba. Pur senza essersi mai preoccupati di elaborare politiche concrete sulle pari opportunità, e nonostante lo stile politico maschilista, questi partiti hanno portato avanti i propri programmi anti islamici in nome dei diritti delle donne.

Geert Wilders nei Paesi Bassi, Marine Le Pen in Francia e Matteo Salvini in Italia sono i principali protagonisti dell’internazionale nera su cui si concentra questo libro. Una delle retoriche più utilizzate è l’idea che gli uomini musulmani costituiscano un pericolo enorme per le società europee occidentali, soprattutto a causa del loro atteggiamento oppressivo contro le donne.

Alcuni studi hanno descritto la svolta politica dei nazionalisti verso i temi dell’uguaglianza di genere come un tentativo di modernizzare il proprio programma e di aumentare il proprio elettorato femminile. Altri hanno evidenziato una connessione tra Europa e Stati Uniti dove, dopo l’11 settembre, i conservatori hanno rappresentato le guerre imperialiste in Medio oriente come una missione per liberare le donne musulmane dagli uomini musulmani. Non sono tuttavia l’unica forza a sventolare la bandiera dell’uguaglianza di genere in maniere che contraddicono le loro politiche e ideologie.

Dall’altra parte dello spettro politico anche alcune note femministe infatti si sono unite al coro islamofobo. Nel corso degli anni Duemila Élizabeth Badinter, filosofa femminista francese di fama internazionale, Ayan Hirsi Ali, politica femminista olandese, e Oriana Fallaci, nota “femminista occasionale” italiana, hanno puntato il dito contro l’estremo sessismo delle comunità musulmane in contrapposizione alla “superiorità” delle nazioni occidentali in tema di relazioni tra i generi. Allo stesso modo alcune associazioni femminili, e alcune burocrate ai vertici di enti statali per l’uguaglianza di genere – spesso definite femocrate –, hanno preso di mira le pratiche religiose islamiche in quanto più patriarcali delle altre, sostenendo che queste non debbano avere alcun posto nella sfera pubblica occidentale. Pertanto hanno sostenuto delle proposte di legge come il divieto di portare il velo descrivendo le donne musulmane come vittime passive da salvare e da emancipare. Questo eterogeneo fronte femminista anti islamico ha dunque presentato il sessismo e il patriarcato come prerogative quasi esclusive dell’Altro musulmano.

Oriana Fallaci.

Il particolare incontro tra programmi islamofobi e retorica emancipazionista sulle donne non è tuttavia circoscritto ai nazionalisti e alle femministe. Anche i sostenitori del neo‑ liberismo, di solito antinazionalisti, hanno fatto un uso sempre più diffuso di immaginari islamofobi in nome dei diritti delle donne. Un buon esempio di questo atteggiamento sono i programmi di integrazione per i «cittadini di paesi terzi» che, come spiegherò in seguito, sono le pietre miliari del neoliberismo. Ideati per promuovere l’inclusione delle persone migranti nelle società europee, questi programmi hanno vincolato i permessi di soggiorno di lunga durata a un impegno certificato a imparare la lingua, la cultura e i valori del paese di destinazione. Questi programmi impongono alle persone migranti di riconoscere i diritti delle donne come un valore cardine dell’Occidente e di assimilare le pratiche culturali occidentali, presentate come forme più avanzate di civilizzazione. Ciò che colpisce a questo proposito è che le politiche di integrazione tendono a generalizzare le tesi sulla misoginia intrinseca delle comunità musulmane, applicandole poi a tutti i migranti non occidentali.

In sintesi tre attori politici molto diversi – i nazionalisti, i neoliberali e alcune femministe e donne delle organizzazioni per le pari opportunità – chiamano in causa i diritti delle donne per stigmatizzare gli uomini musulmani al fine di promuovere i propri obiettivi politici. Ma perché invocano la stessa retorica e identificano gli uomini musulmani come una delle peggiori minacce per le società occidentali? Significa che i nazionalisti stanno “tradendo” il loro storico antifemminismo, i neoliberali le loro politiche antinazionaliste, o che le femministe stanno rinnegando le loro stesse prospettive di emancipazione? Chi sono nello specifico queste realtà e quali sono i loro argomenti? Stiamo assistendo all’ascesa di una nuova alleanza, o l’apparente consenso che attraversa lo spettro politico è casuale e contingente? E infine perché alle donne musulmane viene proposto di farsi “salvare” in un contesto di generale recrudescenza dei sentimenti islamofobi e anti immigrazione, in particolare rispetto al lavoro e al welfare?

La nuova centralità dell’uguaglianza di genere e talvolta dei diritti Lgbt all’interno dei programmi islamofobi è stata interpretata da diversi studi come una conseguenza della guerra al terrorismo e dello spostamento a destra che ha segnato l’Europa e gli Stati Uniti. Questi studi interpretano le narrazioni di salvataggio [rescue narratives, n.d.t.] – che descrivono le donne musulmane come vittime da salvare – come i dispositivi politici che contraddistinguono l’attuale Zeitgeist neoliberale e nazionalista, facendone emergere la logica securitaria.

Eppure le dimensioni economico‑politiche di tali intersezioni, in apparenza paradossali, sono state in gran parte sottovalutate: sono invece fondamentali. Allo stesso modo non è stata data la giusta attenzione alle modalità attraverso cui le ideologie razziste e le istituzioni anti immigrazione vengono incentivate e modellate dalle campagne islamofobe in nome della parità di genere. Intendo pertanto proporre nuovi collegamenti, concettualizzazioni e categorie di analisi per decifrare le ragioni alla base dell’inedita intersezione tra nazionalisti, femministe e politici neoliberisti. Al fine di nominare tale intersezione e inquadrarne la logica economico‑politica introduco la nozione di femonazionalismo.

Abbreviazione di “nazionalismo femminista e femocratico”, il termine femonazionalismo fa riferimento alla strumentalizzazione dei temi femministi da parte di nazionalisti e neo‑liberisti nell’ambito di campagne islamofobe (ma anche contro i migranti). Al contempo indica la partecipazione di alcune femministe e femocrate alla stigmatizzazione degli uomini musulmani in nome dell’uguaglianza di genere. Descrive dunque, da una parte, i tentativi dei partiti di destra e dei neoliberisti di portare avanti politiche xenofobe e razziste in Europa occidentale attraverso la promozione dell’uguaglianza di genere; dall’altra parte, coglie il coinvolgimento di diverse note femministe e femocrate nella costruzione contemporanea del frame dell’islam come religione e cultura intrinsecamente misogina. Per definire e delineare il femonazionalismo mi concentro su tre specifici contesti nazionali (Paesi Bassi, Francia e Italia tra 2000 e 2013) e tre specifici attori e programmi politici: (1) i partiti di destra nazionalista (il Partij voor de Vrijheid nei Paesi Bassi, il Front National in Francia e la Lega in Italia); (2) una serie di famose politiche e intellettuali femministe, associazioni femminili e femocrate dei tre paesi; (3) le politiche neoliberiste che colpiscono migranti non occidentali nel quadro dei programmi di integrazione.

Due precisazioni sono necessarie: innanzitutto vorrei sottoli­neare che a differenza della destra nazionalista le femministe, le associazioni femminili e le femocrate di cui parlo hanno criticato soprattutto i musulmani e non i migranti in generale. Cionono­stante hanno avuto un ruolo nell’elaborazione e nell’attuazione di quelle parti dei programmi di integrazione rivolte anche alle donne migranti non occidentali.10 Dimostrerò inoltre il modo in cui le retoriche islamofobe hanno permeato i dispositivi istitu­zionali rivolti alla popolazione migrante non occidentale nel suo complesso. Tento di districare questo complicato intreccio affer­mando che nel diventare la retorica dominante contro l’Altro, l’islamofobia si è connessa in determinati momenti, contesti e discorsi, con le retoriche anti immigrazione. La sovrapposizio­ne tra politiche anti islam e anti immigrazione avviene attraver­so l’assunzione di uomini e donne musulmani come i principali rappresentanti della coppia oppressore e vittima; tale rapporto è poi proiettato e generalizzato a tutte le persone migranti non oc­cidentali provenienti dal Sud del mondo (ad esempio nelle po­litiche di integrazione). Vedremo poi come l’accoppiata oppres­sore/vittima si nutra di rappresentazioni e stereotipi che erano utilizzati nel periodo coloniale in tutti e tre i paesi in questione e che sono parte integrante dei repertori razzisti più in generale.

La mia critica alla rappresentazione europea occidentale delle donne musulmane come vittime per eccellenza del pa­triarcato non occidentale non implica in alcun modo una ne­gazione della disuguaglianza o dell’oppressione che queste donne, come le donne di ogni altra provenienza geografica e culturale, possono subire nelle proprie comunità. Tuttavia mi concentro soprattutto sui modi in cui queste donne vengono rappresentate e concettualizzate nell’immaginario culturale eu­ropeo e su come tali rappresentazioni e concettualizzazioni si­ano influenzate da (e influenzino a loro volta) stereotipi razzi­sti, interessi e pratiche economiche che colpiscono anche altre donne (migranti) non occidentali.

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