Abitare in Appennino dopo lo sciame sismico del 2016-2017.
Questo contributo in due articoli vuole riflettere a su un’esperienza di ricerca in corso. Il lockdown, dovuto alla pandemia causata dal Covid-19, mi ha colto nel bel mezzo del lavoro di campo svolto nell’ambito della mia ricerca di dottorato: uno studio sulle forme abitative contemporanee nelle zone dell’Appennino centrale colpite dallo sciame sismico del 2016-2017. La zona esaminata è ampia: il cratere si estende dalle aree interne delle Marche fino al confine tra Lazio, Umbria e Abruzzo e coinvolge 140 Comuni e 4 Regioni. La mia ricerca si concentra sulle zone dell’alto-maceratese, cioè l’Alto Nera, una zona che comprende tre nomi-simbolo di questo terremoto: Visso, Ussita e Castelsantangelo sul Nera.
L’obiettivo del mio studio sul campo è descrivere le pratiche abitative nel contesto di un post-disastro socio-naturale. Considerate le pratiche abitative come processi culturali che fanno il territorio, lo producono quotidianamente, queste possono darci una prospettiva sul carattere dell’adattamento dal basso a quei processi di riconfigurazione territoriale che, nel loro dispiegare una “temporaneità a lungo termine”, quasi mai coinvolgono le comunità.
Partecipare alle pratiche territoriali, fare interviste strutturate non, analizzare il modo in cui se ne parla nei media, mi aiuta a moltiplicare in più punti di vista il fenomeno, e a sviluppare una transdisciplinarietà necessaria a raggiungere i risvolti di questi fenomeni anche su campi del sapere e livelli del discorso apparentemente lontani dallo spazio-tempo dell’abitare. L’ipotesi è che un certo sguardo sull’abitare possa darci una prospettiva utile su ciò che la pratica del restare nel post-sisma dell’Appennino centrale mette in gioco nella contemporaneità, da un punto di vista umano, politico e culturale.
Fatta quest’introduzione, non posso nascondere un oggetto che oggi pervade gli angoli e le pieghe del discorso. La situazione attuale mi obbliga a riflettere sull’impatto del lockdown sulla ricerca, sugli strumenti di cui mi sono dotato finora, su quelli che adotterò da qui in avanti per non fermarmi del tutto. Anzitutto la condizione di mobilità, che consente di gestire il coinvolgimento e il distacco dal campo della ricerca con i viaggi andata/ritorno, è messa in crisi. In questo momento la visione “classica” del lavoro di campo si porta dietro diversi intralci, come il rischio di dimenticare che l’ingresso in un campo è definito proprio dagli obiettivi e dalle pertinenze della ricerca.
Attualmente quello che si intende come campo della ricerca – il contesto in cui avvengono i processi che mi interessano – è inaccessibile. Allo stato attuale la possibilità di produrre la dimensione di incontro propria del campo è interdetta. In questo momento è difficile capire quali saranno le evoluzioni, ma la sensazione comune è che saranno rilevanti e, almeno in un primo momento, discrezionali a seconda dei Comuni e delle Regioni.
Di più, le dinamiche che mi interessano sono attualmente interdette o criminalizzate: l’incontro, le pratiche che producono gli spazi sociali – individuali e collettive, spontanee e non – sono proprio quelle condotte proibite, sconsigliate o riservate ai congiunti. Tentare l’avvicinamento al campo per seguire l’emergenza da vicino si rivela potenzialmente inutile: ci sarebbe ben poco da osservare. Senza dimenticare che, nella situazione attuale, il ricercatore è – e sarà, chissà per quanto tempo in futuro – non solo estraneo ma anche untore.
Se non è possibile produrre un tipo di conoscenza che coinvolge il discorso che si svolge in presenza sul campo, posso approfittare del “distacco dal campo” per prendere distanza e guardare criticamente al materiale raccolto e ho due possibilità: da una parte mantenere dei contatti telefonici; dall’altra fare analisi del discorso, individuando attori, tempi e spazi situati entro un immaginario di figure discorsive, retoriche e ideologie.1 Entrambe queste strade fanno tesoro dell’esperienza che ho svolto e la mia ipotesi di partenza è che mi aiutino ad affinare lo sguardo e le pratiche interpretative.
Questa è un’occasione per una sfida, per riflettere sullo sfrondamento e ridimensionamento dei confini del campo. Di una cosa mi accorgo presto: trovarmi ad Ancona, la città dove sono nato, porta all’evidenza l’alterità di ciò che voglio descrivere, nei termini di un confronto con il contesto e con la pratica abitativa che sto vivendo qui. Lo prendo come spunto: il gesto che delimita un campo è sempre chiamato a confrontarsi con il “suo fuori”, riflettendo sui limiti che insieme lo fondano e definiscono l’interesse del ricercatore.
Comunicazione
Il Comune di Ussita è commissariato da agosto 2019. Nel vuoto istituzionale che ne consegue, fino al 30 marzo è stata assente qualsiasi comunicazione ufficiale rispetto all’emergenza in corso. Il COC (Centro Operativo Comunale per le emergenze), apparentemente operativo e pronto ad entrare in azione, in realtà è stato attivato solo il primo aprile: non è un segnale che incoraggia ed è evidente che l’azione istituzionale costruisce il fenomeno Covid-19 a un livello già socializzato. Le previsioni si fanno autonomamente, o tramite i social network, generando parecchia confusione e la ritualità del bollettino genera un effetto di dipendenza, ma resta importante garantire il giusto livello di consapevolezza, per evitare la sottovalutazione della pandemia, il panico o la caccia alle streghe.
Nel frattempo, l’informazione istituzionale a diffusione nazionale – di cui in città impariamo a riconoscere gli effetti tra metafore belliche, clima di polizia, delazione, controllo sociale – produce i suoi effetti, creando un clima palpabile di sospetto e diffidenza. Dai contatti telefonici che ho avuto in questo periodo emerge che anche a Ussita e dintorni qualcuno si sposta per lavorare, perciò alcuni luoghi hanno un alto livello di esposizione e rischiano di essere additati come potenziali focolai: il negozio alimentare, il bancomat, il tabaccaio. C’è una gestualità quotidiana che porta le tracce del discorso sulla “pericolosità del fuori” e sulla responsabilizzazione individuale: il sospetto e lo stigma per chi non porta la mascherina, l’additamento e la delazione, la sensazione di essere controllati a vista.
Isolati
Nella temperie culturale del Covid-19 la percezione del rischio è abbastanza alta. Da un lato l’isolamento è un fattore di vulnerabilità:2 gli spostamenti non possono essere azzerati, soprattutto per chi vive in montagna, per evitare l’innalzamento del costo della vita, dato che non poter raggiungere i supermercati a valle può causare problemi economici. Dopo quasi un mese di lockdown, sono stati attivati i “buoni spesa”, per evitare di innescare un vortice di concorrenza aggressiva e favorire i commercianti che rischiano di perdere clienti.
Diversamente, invece, l’isolamento può essere considerato un “privilegio” valorizzato positivamente. Assistiamo così a un rovesciamento che attinge al serbatoio dei luoghi comuni sulla montagna, che è l’oasi dove c’è “l’aria bona”, dove tutto arriva in ritardo “restando fuori” dalle dinamiche inquinanti della città: “tenetevi pure le discoteche e i cinema multisala, noi abbiamo l’aria incontaminata e gli spazi verdi”. In montagna l’ampia disponibilità di spazi verdi, boschi e sentieri è davvero valorizzata dagli abitanti: permette di evadere dal clima di sospetto e diffidenza.
Noi cittadini lo capiamo bene, chiusi nei condomini, abituati a camminare occhi bassi per strada, quasi vergognandoci, perché venderemmo l’anima al diavolo per una passeggiata. Ma anche in montagna il controllo sociale si fa sentire: passeggiare nella natura consente di poter trovare dei luoghi, delle “isole” dove togliere la mascherina, relativizzando la pervasività e il peso del virus. A qualcuno manca la vita di paese, ma d’altronde il “vuoto urbano” è un fattore a cui ci si è anche un po’ abituati. Un amico sentito al telefono mi ha detto: «Anche normalmente guardo fuori dalla finestra e comunque non vedo nessuno che passa!».
In questo momento le aree interne potrebbero anche essere contente di tagliare i ponti con noi cittadini, che, in fin dei conti, ci ricordiamo della loro esistenza solo in prossimità della gita fuori porta domenicale, quando, caritatevolmente, risolleviamo l’economia fermandoci a comprare un ciauscolo o una confezione di lenticchie.
Dalla polpa verso l’osso (in ciclovia)
Torna d’attualità l’idea della dispersione abitativa e della fuga dalle città, che, durante la reclusione, sembra essere mossa dall’immagine delle città come luogo della congestione. La prospettiva secondo cui “le città possono adottare i borghi” da molti è vista più come una “minaccia di invasione” che come un fattore di pianificazione proiettato verso il futuro dell’equilibrio territoriale. Una tale concezione richiama idee già sentite e prese in carico paternaliste, fallimentari e dannose.
La questione meriterebbe un maggiore approfondimento, qui ci limitiamo a osservare il fatto che se il sasso lanciato da Boeri è stato capace di generare tanto dibattito, questo dipende anche dalla mancanza di visione politica che echeggia nella stanca formula “ripartiremo con il turismo”; costretta oggi a fare i conti anche con la realtà del distanziamento sociale e con le perdite a cui andrà incontro questo settore.3
In Regione si continua a parlare dell’arrivo della ripresa economica, sotto forma dei turisti che percorrono ciclovie nuove di zecca, ma a Colle – frazione di Arquata del Tronto – le copiose nevicate dei giorni scorsi, primaverili e acquose, hanno causato la frana di alcuni massi sulla SP 20, unica via d’accesso verso la via Salaria, che collega la frazione con Trisungo, Faete e Spelonga. L’intervento di messa in sicurezza e ripristino della viabilità è urgente: a Colle c’è un tessuto abitativo e sociale e, nella situazione attuale, coesistono molteplici emergenze, determinando situazioni di ulteriore difficoltà.
Questa piccola frazione di Arquata diventa un caso paradigmatico: la vulnerabilità – continueremo ad approfondire questo tema nella seconda parte dell’articolo – è frutto di scelte e processi politici e culturali che vanno compresi diacronicamente, per evitare di ripetere gli stessi errori quando si immagina il futuro di queste zone.
Note
- Come cercherò di approfondire anche nella seconda parte dell’articolo, imparare ad osservare sul campo è uno degli strumenti che abbiamo a disposizione nello studio del discorso inteso come snodo tra linguaggio e mondo, livello a cui si manifestano le strutture semiotiche.
Faccio riferimento alla semiotica generativa, cfr. D. Bertrand, Basi di semiotica letteraria, Meltemi, 2000, Greimas, Courtes, Semiotica. Dizionario ragionato di teoria del linguaggio, 1979; e ai punti di contatto tra teoria semiotica e problema etnografico dell’osservazione, cfr. F. Marsciani, Tracciati di etnosemiotica, Franco Angeli 2007; G. Marrone, N. Dusi, G. Lo Feudo, Narrazione ed esperienza, intorno a una semiotica della vita quotidiana, Meltemi, 2007. Cfr. anche la collana Quaderni di etnosemiotica, edita da Esculapio.
- siamo questo termine nell’accezione dei disaster studies. Per una sistematizzazione e mappatura bibliografica dello stato dell’arte della ricerca in Italia: A. Mela, S. Mugnano, D. Olori, (a cura di), Territori vulnerabili. Per una nuova sociologia dei disastri italiana, Franco Angeli, 2017.
- Solo per il maceratese la stima di CNA è di 800 milioni di reddito. Per un approfondimento sulle criticità della gestione delle risorse provenienti dai fondi POR-FESR destinati alla ricostruzione, cfr. D. Olori, V. Machiavelli, Grandi opere per ri-disegnare il territorio terremotato. Il “QuakeLab Center Vettore”, paradigma della strategia di sviluppo nel post-sisma dell’Appennino centrale, in Scienze del Territorio n.7/2019.