Una lettera aperta al direttore de «Il Sole 24 ore».
Gentile direttore de «Il Sole 24 ore»,
mi preme sottoporle e condividere alcune osservazioni relative all’articolo apparso sul domenicale del 18 ottobre del quotidiano che dirige, dal titolo Sesso e gender senza pregiudizi, a firma del cardinale Gianfranco Ravasi.
È alquanto singolare, ma non c’è da sorprendersi, che l’autore dichiari di voler analizzare i due concetti «senza pregiudizi», avvalendosi però quasi esclusivamente di riferimenti bibliografici provenienti anch’essi da ambienti cattolici, riportati in calce, e di dedicare meno spazio alle altre ricerche che, da tempo, vengono condotte nei vari campi del sapere, e soprattutto del sapere femminista, gay, lesbico, trans e queer. Il risultato è un articolo impreciso, sia da un punto di vista epistemologico, sia da un punto di vista sociologico.
Spiazzante è una prima, evidente, imprecisione. L’autore, infatti, assume che La disfatta del genere e Fare e disfare il genere di Judith Butler – che sui concetti in questione avrebbe in effetti più da dire degli autori citati, e il Vaticano lo sa bene – siano due libri diversi, e non due diverse edizioni italiane dello stesso libro, Undoing Gender, pubblicato da Routledge nel 2004. Lungi dal costituire un semplice refuso, tale imprecisione inficia in realtà in modo non secondario l’intero ragionamento di Ravasi, dal momento che egli attribuisce a Fare e disfare il genere (Mimesis 2014, curato da me) il ruolo di aver «rettificato il tiro» de La disfatta del genere (Meltemi 2006, curato da Olivia Guaraldo), «introducendo una riflessione significativa», relativamente a quella che Ravasi fa passare come una sorta di repentina scoperta, quasi colma di stupore, da parte della filosofa statunitense, dell’esistenza degli organi genitali:
Il sesso biologico esiste, eccome! Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione….
Come uno stesso libro possa autorettificarsi è spiegabile ricorrendo anche in questo caso alla rilevazione di un’imprecisione: la citazione con cui Ravasi chiude il suo articolo, ascritta a Fare e disfare il genere, è in realtà tratta da un’intervista apparsa nel 2013 sulla rivista francese “Le Nouvel Observateur” e poi, in italiano, proprio sulle pagine de “il lavoro culturale”, con il titolo Sulla “teoria del gender”. Judith Butler risponde ai suoi detrattori.
Ma ancora prima, tuttavia, ci sarebbe da domandarsi in quali punti dell’intera produzione di Butler Ravasi abbia trovato affermazioni del tipo: il sesso biologico non esiste, affatto! È una finzione, una menzogna, un’illusione, alle quali apportare “rettifiche”. Un conto, infatti, è la strenua messa in discussione del dogma della differenza sessuale e dell’allocazione differenziale di valore, visibilità e riconoscimento a corpi e relazioni a partire da esso. Un altro è credere che i corpi non esistano nella propria fatticità. Un altro ancora, infine, è far credere – in modo più o meno volontario – che qualcuno abbia edificato una teoria del genere a partire dall’inesistenza dei corpi. L’autore, in fondo, sembra quasi far intendere che tali “rettifiche” attenuino la portata critica di quella teoria queer e di quel femminismo radicale che al «genere essenziale maschile e femminile» contrapponevano il «gender costruzionista che si congedava dal sesso biologico per aprirsi a una configurazione molteplice», per farle gradualmente convergere verso una posizione ontologicamente differenzialista, apertamente sostenuta dal Vaticano, secondo cui «la piena identità maschile è acquisita dall’uomo nell’incontro con la donna e, viceversa, l’identità femminile è acquisita dalla donna nel suo incontro con l’uomo».
Chiaramente, né Fare e disfare il genere né La disfatta del genere sostengono nulla di simile – e non solo perché si tratta dello stesso libro. È inoltre semplificante, e fuorviante, ridurre la portata e la complessità di un intero dibattito sul “sesso” e sul “gender” a una disputa tra l’essenzialismo e il costruttivismo: in proposito, si potrebbe suggerire al cardinal Ravasi di leggere il terzo capitolo del libro che egli chiama in causa, Rendere giustizia a qualcuno. Riattribuzione del sesso e allegorie della transessualità, sul caso di David Reimer. Vi troverà spunti interessanti.
Da una analisi dell’impianto generale del testo di Ravasi risulta poi tutt’altro che chiara la distinzione analitica minima tra le categorie di sesso cromosomico, genere e orientamento sessuale, continuamente confuse; la stessa cosa dicasi per i vari approcci interpretativi nei confronti di tali categorie e delle relazioni tra loro. Si consideri, solo a titolo d’esempio, l’apertura dell’articolo:
Chi non ricorda le due caselle con M e F dei vecchi documenti pubblici del passato? Il governo australiano ora di caselle ne propone ben 23 e Facebook Usa invita a scegliere il proprio “genere” tra 56 opzioni differenti! Altro che il codificato Lgbt già allargato al Lgbtq, con l’apparizione anche del queer dal genere variabile e indefinibile.
È interessante che, secondo Ravasi, le «caselle con M e F» appartengano ai «vecchi documenti pubblici del passato». Dovremmo ricordarci di dire alle persone trans* che la lotta per la modifica del nome anche in assenza di transizione chirurgica è del tutto anacronistica, secondo il Vaticano, dal momento che nei documenti pubblici “del presente” è sparito ogni riferimento al sesso cromosomico, ogni coercitiva distinzione tra maschi e femmine, ogni obbligo di sintonicità tra il proprio nome e i propri genitali – questo residuo di un passato oscurantista e repressivo! Ma ancora: queste caselle, il cui obiettivo è (ancora oggi) quello di classificare e amministrare i corpi in base al sesso, sono così facilmente accostabili alle tante opzioni attraverso cui un social network consente di autodefinirsi? Queste opzioni hanno lo stesso valore giuridico, performativo, simbolico delle ben più limitate opzioni ammesse dalle carte degli uffici di stato civile, o della tessera sanitaria, o di qualunque altro documento di riconoscimento, specialmente in tutti quei casi in cui a essere dirimente è la verità di questi documenti e non quella del proprio profilo Facebook? E ancora: quale genere di relazione scorge, Ravasi, tra quelle 56 opzioni e l’acronimo «LGBT già allargato a LGBTQ» (e I? e A?)? E infine, sulla base di quale bibliografia egli definisce il queer «genere variabile e indefinibile», o a nome di quali soggetti queer sta parlando…?
Molti sarebbero i modi di rispondere a queste domande anche senza ricorrere alle astratte distinzioni analitiche tra “sesso” e “gender”, ma anzi ponendo in evidenza i modi, mutevoli e molteplici, attraverso cui queste categorie sconfinano l’una nell’altra, o attraverso cui queste categorie non sarebbero linguisticamente e concettualmente definibili fuori dalla loro reciproca relazione binaria e, soprattutto, fuori dalla soggezione alla norma eterosessuale. Non sembra essere questo, però, l’obiettivo dell’articolo.
In conclusione, tornando a quella che appare come una riduzione della complessità di una discussione ricca di storia attraverso l’attribuita (da Ravasi) scoperta del corpo, da parte di chi fino a poco prima ne avrebbe negato l’esistenza, mi sembra che ciò che da più parti non si volle comprendere agli albori di quella teoria queer e di quella corrente del femminismo di cui Butler è una delle principali esponenti, si cristallizzi in ciò che, tra mistificazioni e imprecisioni, non si vuole comprendere oggi: a muoverne le istanze non era lo stupore nei riguardi dell’essere (un corpo, degli organi genitali), quanto piuttosto che su quell’essere (sul quel corpo, su quei genitali) vi fosse una verità, da interrogare nei suoi effetti di potere, e un potere, da interrogare nei suoi discorsi di verità. Eppure, in materia di potere e di verità sui corpi l’organizzazione di cui Ravasi è autorevole esponente ha avuto, e ha, un ruolo di primo piano, anche se tale ruolo è lentamente in declino: forse ciò è da imputare anche a questi episodi di scarso rigore filologico.
Distinti saluti,
Federico Zappino