Funghi e Zen: casualità e complessità nella musica di John Cage

A poco più di un mese di distanza dall’anniversario della nascita di John Cage (5 settembre 1912), è interessante ricordare l’attualità di alcuni principi che mossero la sua ricerca estetica.

Inquadrare il personaggio non è operazione scontata. Definirlo un compositore statunitense è senz’altro riduttivo. Il suo lavoro ebbe infatti importanti ripercussioni non solo in ambito musicale, ma anche nello sviluppo di altre forme artistiche, come la pittura, la danza e il teatro.

Sarà in seguito a un viaggio in Europa, compiuto da giovane con l’idea di diventare scrittore, che Cage inizierà a interessarsi alla pittura e alla musica contemporanea. Tornato poi in America ed entrato in contatto con Schönberg, ne diventerà suo allievo. Dedicherà la sua ricerca all’utilizzo di rumori e percussioni fino ad approdare a un metodo di composizione casuale e all’utilizzo innovativo del silenzio in musica.

Due le grandi passioni che, più o meno direttamente, lo influenzeranno nel suo lavoro: i funghi e il Buddhismo Zen. Cage fu micologo, tanto non solo da fondare con degli amici la New York Mycological Society, ma addirittura da partecipare nel 1959 a Lascia o Raddoppia? in veste di esperto sul tema. Riguardo all’influenza dei funghi sulla sua vita, egli arriverà perfino a dire: «I funghi mi hanno permesso di capire Suzuki [suo maestro Zen] […] Più li si conosce e meno ci si sente sicuri sulla loro identità: ciascuno è se stesso… i funghi danno scacco matto ai nostri tentativi di classificazione e di indagine».[1] Cage, appunto, abbraccia i principi dello Zen e li applica alla propria ricerca artistica. Come lo Zen porta all’accettazione della non organizzazione, così la musica per Cage deve portare all’accettazione dei suoni in quanto tali. È necessario cioè lasciare che i suoni semplicemente “siano”, scaturiscano da sé.

L’estetica di Cage non corrisponde tuttavia a quella Zen, che si basa su un lavoro minuzioso dell’autore sulla sua opera d’arte. Cage, al contrario, ne ricava un’interpretazione personale. La sua è musica-processo, gioco senza scopo composto da suoni casuali – come in natura – opposta a una musica-oggetto, in cui il materiale sonoro è sottomesso alla volontà dei compositori. Imitando attraverso la musica l’operare della natura il mondo si apre all’individuo, che può a quel punto compenetrarlo. La musica assolve perciò a una funzione pedagogica, preoccupandosi del rapporto tra soggetto e suo contesto.

Per Cage la musica, al pari del ready-made del suo amico intimo Marcel Duchamp, è qualcosa a disposizione: è questione di riconoscerla e assemblarla. Ma come compiere quest’assemblaggio? È così che Cage arriva all’elaborazione di un metodo di composizione attraverso la casualità, la composizione indeterminata, che sfocerà nell’opera Music of Changes (1951), inspirata dalla lettura del libro cinese I Ching, il libro dei mutamenti. Il metodo consiste nell’utilizzo dell’I Ching come una sorta di calcolatore, creando in tal modo una compenetrazione e una non-ostruzione di suoni.

Se la responsabilità dell’artista è imitare la natura nel suo modo di agire, la composizione indeterminata attua questo principio. L’arte non deve proporsi di trasformare il mondo, già di per sé in continuo cambiamento e divenire. Essa deve piuttosto tentare di evitare facili riduzionismi per avvicinarci al reale in quanto processo, per restituirci la sua complessità.

Come ben noto, il caso tornerà ripetutamente nell’opera di Cage, a livello non più solo di composizione, ma anche di interpretazione. Qui si inserisce la ricerca di Cage sul silenzio. Muovendo da un utilizzo espressivo del silenzio, Cage approda successivamente a una più radicale conclusione, ossia l’impossibilità dello stesso. Fondamentale da questo punto di vista la sua esperienza all’interno di una camera anecoica. È  in quello spazio che Cage comprende come il silenzio sia sempre impossessato da qualcos’altro: un colpo di tosse, uno scricchiolio, un rumore di sottofondo, un evento casuale. Il silenzio è in sé suono e adoperarlo significa far ricorso al caso. Il procedere del silenzio coincide con il ritrarsi del compositore-creatore: «Lo scopo della musica è acquietare la mente, rendendola così suscettibile alle influenze divine»,[2] scrive Cage in alcune note autobiografiche. L’interprete diventa compositore, il pubblico interprete, il compositore un ascoltatore di suoni a lui preesistenti. Tutto ciò si concretizza in una delle opere più famose di Cage: 4’33’’ (1952), quattro minuti e trentatré secondi di assoluto silenzio, a questo punto solo erroneamente definibile come tale.

Tuttavia, per Cage dare importanza al caso non significa assolutizzarlo. Come si è costretti ad agire su determinati aspetti della vita, così in musica ogni cosa non può essere abbandonata completamente alla casualità. Un metodo di composizione, seppur indeterminato, è ancora presente.

L’estetica musicale di Cage avrà importanti ripercussioni anche sulla sua attività come insegnante. Cage elabora e mette in pratica alcuni principi pedagogici basati sul caso. L’insegnamento pone Cage di fronte a una grossa contraddizione: come conciliare i principi Zen di rinuncia speculativa con un concetto di educazione occidentale basato, al contrario, sulla delineazione di scopi e obiettivi precisi? Egli non risolve questo dilemma svuotando la sua educazione di qualsiasi contenuto e nemmeno mettendo in atto degli interventi totalmente caotici. Piuttosto fa propri alcuni principi pedagogici moderni, rielaborandoli personalmente, riuscendo così nel compito di avvicinare istanze apparentemente distanti. Cage cerca innanzitutto di comprendere le potenzialità e le capacità di ogni suo singolo studente, ponendosi egli stesso all’interno di quel processo, come semplice allievo. All’Università di California Cage tiene un corso che non tratta nessun particolare argomento. Costituisce gruppi di lavoro secondo operazioni casuali, favorendo la messa in circolo di informazioni. Tutto ciò si rispecchia altresì nella visione di Cage relativa alla struttura universitaria. Abbracciando le tesi dell’intellettuale Richard Buckminster Fuller, auspica la costituzione di atenei come spazi liberi, senza pareti, nei quali poter disporre delle più svariate attività. Lo studente dovrebbe essere dotato della massima libertà di scelta e avere la possibilità di non smettere mai di studiare. In un simile contesto il carattere di apertura e l’arte dell’ascolto diventano essenziali.
La ricerca di Cage influenzerà altri campi artistici, primi fra tutti il teatro. Nel 1952 egli organizza uno “spettacolo” interdisciplinare con forti elementi d’improvvisazione presso il Black Mountain College nei pressi di Ashville, in Carolina del Nord. Musica, danza, teatro, cinema si mescolano in una performance innovativa e indeterminata. Come ogni suono esprime un possibile centro del mondo, così all’interno di quel particolare evento ogni linguaggio e ogni soggetto devono poter essere a loro volta centro di ciò che sta loro intorno. In fondo lo stesso compositore terrà a precisare che: «La musica era già teatro. E il teatro non è che un’altra parola per designare la vita».[3]

Seguendo il ragionamento che Marco De Marinis compie nel suo testo Il Nuovo teatro, si può notare come alcuni aspetti della sperimentazione condotta da Cage e i suoi collaboratori, ossia la coesistenza paritaria di diversi linguaggi, la presenza di elementi casuali, la diversa organizzazione dello spazio che vede abolire la classica separazione tra pubblico ed attori, torneranno in tutta la successiva ricerca teatrale del Novecento.[4] Questa continuità è garantita inoltre dagli scambi diretti che vengono ad instaurarsi tra gli artisti coinvolti (tra gli altri: David Tudor, pianista; Merce Cunningham, coreografo e ballerino; Robert Rauschenberg, pittore) e molti di quelli che diventeranno i massimi esponenti dell’avanguardia teatrale sviluppatasi dopo gli anni Cinquanta: primi fra tutti i fondatori del Living Theatre Judith Malina, collaboratrice in più occasioni di Cage e Julian Beck, il quale inizierà la sua carriera artistica come pittore (influenzato da Pollock) e collaborerà in seguito proprio con Merce Cunningham. A sua volta Allan Kaprow, che per primo nel 1959 introduce ufficialmente il termine happening, fu allievo di Cage. Egli, più di ogni altro, svilupperà in diverse direzioni questo tipo di linguaggio.

John Cage è tutto questo, artista poliedrico che ha avuto il principale merito di avvicinare l’ascoltatore/spettatore alla complessità e alla mutevolezza del reale, focalizzando la propria attenzione sull’importanza che il caso riveste nella quotidianità.

Note

[1] J. Cage, Per gli uccelli, conversazioni con Daniel Charles, Testo e Immagine, Torino 1999, pp. 204-205.

[2] J. Cage, An Autobiographical Statement, in “Southwest Review”, 1991.

[3] J. Cage, Per gli uccelli, conversazioni con Daniel Charles, Testo e Immagine, Torino 1999 , pp. 177.

[4] M. De Marinis, Il nuovo teatro 1947-1970, Bompiani, Milano 1987.

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