Ritorno a Gramsci

Ritornare a Gramsci per comprendere il contemporaneo.

Ritorno a Gramsci

La fine del comunismo italiano ha portato con sé anche il gramscismo come categoria politica. L’odierna persistenza degli studi su Gramsci, pure notevole, avviene in presenza di un suo “disciplinamento”: ad essere tramandato (con fastidiosa accuratezza filologica) è il Gramsci teorico della politica; in alternativa (o in connessione), il raffinato interprete della cultura nazionale e dei suoi ceti intellettuali. Una traiettoria che d’altronde condivide con buona parte del marxismo, a cominciare dallo stesso Marx, pienamente integrato nella pubblicistica borghese proprio in quanto disinnescato sul piano della prassi militante. E così abbiamo il Lukács filosofo dell’estetica o il Benjamin teorico dell’arte: l’importante, come detto, è filtrare la loro vicenda politica preservandone l’interesse culturale (o piuttosto accademico: sull’accanimento terapeutico di taluni pensatori ancora si affidano cattedre universitarie e borse di studio).

Ma per gran parte delle organizzazioni della sinistra Gramsci è ancora lo strumento privilegiato per recuperare il terreno perduto in questi decenni di normalizzazione capitalistica: il “ritorno a Gramsci” ci garantirebbe dalle secche del postmoderno, da un lato; dall’altro, consentirebbe a questa sinistra quel rapporto dialettico con il “populismo” che infatti, ci dicono, avviene su di un piano più avanzato in America Latina proprio in virtù dell’utilizzo consapevole delle categorie gramsciane. È un discorso che ha una sua validità, che non neghiamo. Bisogna però intendersi: cosa si intende per “ritorno a Gramsci”? E quali questioni permetterebbe di risolvere?

Come noto, il Gramsci dei Quaderni istituisce – attraverso il discorso sugli intellettuali – una teoria del soggetto rivoluzionario. Il termine polemico era dato dal “marxismo” della Seconda internazionale – incarnato in Italia dal partito socialista: un “marxismo” fortemente venato di positivismo, ridotto a sterile evoluzionismo, riformista in quanto, in buona sostanza, “crollista”. Un marxismo “legale”, di fatto presidiato dai «partiti dell’ordine», che lasciava la rivoluzione agli altri: agli anarchici, all’estremismo sindacale, ai “socialisti-rivoluzionari”, addirittura al nazionalismo. Contro questo tempo «omogeneo e vuoto» già Lenin si era scagliato nel suo Che fare?, connotando il suo marxismo di un soggettivismo esasperato che rispondeva ad un bisogno immediato: sottrarre la rivoluzione all’avventurismo “populista”, riconsegnandola al marxismo “scientifico” (ma sei anni dopo, sempre Lenin correggeva la rotta con Materialismo e Empiriocriticismo). Il leninismo di Gramsci può essere individuato in rapporto a questo problema: l’azione rivoluzionaria prevede un soggetto cosciente che la determini. Nella società stratificata dell’Occidente avanzato questo soggetto non può che derivare, per Gramsci, dall’incontro tra la classe operaia e gli intellettuali. Intellettuali in quanto coscienza esterna (altro motivo leniniano), ma anche in quanto strumento di costruzione dell’egemonia che in Occidente avviene anche attraverso quella battaglia delle idee che il partito conduce nell’agone dell’opinione pubblica.

Ritorno a Gramsci

Il rapporto tra Gramsci e la tradizione culturale italiana di marca idealistica è complesso: subisce l’influenza di questa tradizione e, al tempo stesso, se ne serve nella lotta al riformismo, in quanto strumento adatto a combattere le secche del positivismo, del gradualismo, di un oggettivismo schematico che consigliava ai partiti operai di non muoversi: la storia era dalla loro parte. La teoria che emerge dai Quaderni è così non solo concentrata sulle questioni, per così dire, “sovrastrutturali” della lotta politica e dell’analisi sociale; è anche una teoria consapevolmente squilibrata in funzione del soggetto rivoluzionario e del suo corpo dirigente, attraverso lo studio delle sue radici culturali, della sua formazione ideologica, dei suoi compiti “comunicativi”.

Fatta questa premessa, veniamo ai nostri giorni e alla (vera o presunta) necessità di Gramsci. Da troppi anni subiamo (chi in maniera entusiastica, chi in stato di rassegnazione) una vera e propria dittatura del soggetto. Si tratta di una concreta egemonia teoretica: le più contrapposte dottrine speculative, per altri versi acerrime nemiche, sembrano disputare il proprio confronto su di un unico terreno “filosofico”, suonando armonie diverse di un unico spartito conoscitivo: l’idealismo. Un idealismo consapevole, da parte delle culture dominanti; oppure solamente introiettato, da parte di molti, a sinistra. Venuta meno la centralità discorsiva della classe operaia, siamo oggi all’affannata ricerca di un soggetto da interpretare e rappresentare. Ma serve davvero un’altra, ennesima, teoria del soggetto?   

La conseguenza pratico-ideale delle varie proposte del “ritorno a Gramsci” assume sempre lo stesso tono, pur con accenti diversi: serve il partito. Per quanto detto in premessa, è inevitabile: il motivo originario delle difficoltà storiche della sinistra viene individuato continuamente e costantemente in un deficit di soggettività consapevole. Forse il ragionamento andrebbe ribaltato. Ad essere sconosciuto non appare tanto questo famigerato “soggetto” – di volta in volta identificato con il precariato, con il lavoratore cognitivo, con il migrante o il rider, lo schiavo delle campagne del Sud o la falsa partita Iva delle città del Nord; e poi con “le donne”, “i neri”, gli studenti o i senza casa – quanto l’oggetto stesso del contendere: il capitalismo. E ancor di più: la realtà sociale. Cos’è il capitalismo oggi e in cosa si diversifica da quello di ieri? Come resiste alla costante (?) caduta del saggio di profitto, e quanto dureranno i famigerati “fattori di controtendenza”? Come avviene la valorizzazione reale dei capitali investiti? Avviene ancora? Dove è situata la contraddizione concretamente determinata tra forze produttive e rapporti di produzione? E – soprattutto – come “estrarre” da questa analisi oggettiva la contraddizione soggettiva, l’elemento antagonista non in base a presunte volontà di resistenza, ma da concreti processi sociali?

Ritorno a Gramsci

A queste e altre domande la sinistra, genericamente intesa, risponde con un formulario adatto a ogni scopo, e perciò inutile allo scopo. La conseguenza di questa frustrazione è il cedimento di qualsiasi misurazione scientifica dei processi sociali in atto. E allora, i soggetti che “fanno la rivoluzione” non possono essere altro che quelli “disponibili alla lotta”: questo il cliché dominante, che dai francofortesi all’operaismo all’italian theory attraversa tutta la riflessione militante. Il conflitto è tra soggetti contrapposti, o meglio: tra volontà contrapposte. I gramsciani, impregnati di realismo e sulla scorta delle sopraffine indicazioni del Machiavelli (inteso come trentesimo Quaderno), riducono la pluralità postmoderna all’unità del partito, inteso come organizzazione di intellettuali che interpreta i voleri della classe operaia: tanto basta per assolvere al compito di comprensione della realtà, sembrerebbe. Eppure non basta, vista la proliferazione di partiti “gramsciani” (o che si dicono tali) incapaci di riattivare processi di lotta politica.

Vista da questa altezza, è una polemica che data, in Italia, almeno un sessantennio: da quando, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, il marxismo iniziò a chiedersi cosa non quadrava della sua analisi sociale di fronte alle travolgenti trasformazioni del nuovo capitalismo. Si domandava dunque un aggiornamento, e i limiti di questo aggiornamento venivano in capo anche a Gramsci, o meglio al gramscismo e al suo storicismo. Quali sono, oggi, i caratteri di questo nuovo “neocapitalismo”? Non se ne ha effettiva contezza. A mancare non sono le ricerche, ma la disponibilità ad integrarle in un’ideologia anticapitalista che oggi è tutta falsa coscienza della realtà (ma una falsa coscienza per nulla necessaria). È ora di ritrovare un rapporto con la scienza. E allora ben venga Gramsci, di cui ci consideriamo epigoni. Ma venga soprattutto una nuova scienza della realtà obiettiva. Torniamo a capire il mondo e i suoi processi sociali. Non è detto che troveremo il soggetto rivoluzionario, ma almeno avremo colto l’essenza della realtà che viviamo.

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