Recensione a “Una mappa delle arti nell’epoca digitale. Per un nuovo Laocoonte” di Renato Barilli.
Con la conquista del sonoro da parte del cinema si apre quell’era audiovisiva che, soprattutto in seguito alle possibilità di videoregistrazione che prendono piede sul finire degli anni Sessanta del Novecento, consentirà alle arti visive di svolgere un passo importante verso la conquista di una diacronia che per molto tempo è stata loro preclusa. Le tappe principali che hanno segnato questo lungo e contraddittorio cammino compiuto dalle arti visive, che giunge sino all’attuale epoca digitale, sono state ricostruite dallo studioso Renato Barilli nel suo recente volume Una mappa delle arti nell’epoca digitale. Per un nuovo Laocoonte (Marietti, 2020).
Nel corso del Settecento, Gotthold Ephraim Lessing in Laocoonte. Sui limiti della pittura e della poesia (1766) – opponendosi alla equipollenza tra arti visive e poesia sostenuta a quei tempi da Johann Joachim Winkelmann – insiste su una loro importante differenza: mentre le prime si avvalgono della sincronia, nel loro offrire una rappresentazione unitaria e priva di sviluppo temporale, la seconda può fregiarsi invece della diacronia. Nel riferirsi alle arti visive, Lessing manca di prendere in considerazione gli ambiti pittorici e architettonici limitando la sua analisi al solo Laocoonte, opera scultorea di età ellenistica, da lui conosciuta attraverso una copia romana, notoriamente ammirata dallo stesso Winkelmann. Anche sul versante della poesia la trattazione lessinghiana appare decisamente parsimoniosa, tanto da limitarsi al solo riferimento virgiliano a partire dal quale risale fino ai poemi omerici nella convinzione che la diacronia sia il tratto distintivo del linguaggio poetico.
Al di là degli limiti evidenziati, la contrapposizione tra sincronia e diacronia proposta dallo studioso tedesco consente, allargandone l’applicazione, di collocare su un versante le arti dello spazio, quali la pittura, la scultura e l’architettura, e dall’altro le arti del tempo, comprendenti certamente la poesia, ma anche l’azione drammatica con tanto di possibilità di accompagnamento sonoro-musicale, anche se all’epoca in cui scrive il tedesco risulta “registrabile” solo attraverso una sua traduzione in grafismi, come del resto avviene per la parola.
Tale distinzione continua a reggere per buona parte dell’Ottocento, non essendo inficiata nemmeno dalla fotografia, obbligata com’è ad una registrazione sincronica seppure ottenuta attraverso una, inevitabile all’epoca, lunga esposizione temporale. Affinché l’immagine fotografica possa conquistare la diacronia occorre giungere alle sperimentazioni attuate attorno alla successione di fotogrammi che, a partire dagli scatti in successione di Eadweard Muybridge, presto condurranno al cinematografo di Auguste e Louis Lumière e Georges Méliès. Sino agli anni Venti del Novecento, quando immagini in movimento e sonoro potranno finalmente coesistere, spetta al cinematografo muto da una parte, e al magnetofono dall’altra, il compito di riprodurre rispettivamente la temporalità dell’immagine e quella del suono.
A partire dall’allargamento dell’ambito artistico alla sensorialità – e a tal proposito Barilli ricorda l’importanza del contributo offerto da Aesthetica (1750) di Alexander Gottlieb Baumgarten – alle arti nobili si aggiungono le figure retoriche, soluzioni mentali che, per certi versi, aprono le porte a un universo che condurrà sino a quella che in epoca recente sarà indicata come arte concettuale.
Occorre giungere alle Avanguardie primonovecentesche, affinché anche il panorama artistico inizi a mettere in crisi la distinzione di Lessing. Da parte sua il Cubismo, pur aspirando per certi versi alla conquista di effetti cinematici, non riesce ad abbandonare la sincronia e, nonostante i proclami, lo stesso Futurismo, almeno sul versante pittorico, fatica a fare di meglio. A proposito di quest’ultimo movimento Barilli non manca di ricordare i tentativi compiuti da Filippo Tommaso Marinetti per liberare la poesia dalla gabbia tipografica gutenberghiana ricorrendo, oltre che alle “tavole parolelibere”, al magnetofono per il suo consentire alla poesia di avvalersi delle caratteristiche sonore. Spetta a Marcel Duchamp compiere qualche passo in avanti in direzione della conquista della temporalità dapprima con i Rotoreliefs, dischi metallici fatti ruotare nello spazio attraverso congegni elettromeccanici, e successivamente attraverso proposte di ordine concettuale, poi riprese dalla successiva ondata di avanguardie novecentesche.
Per quanto riguarda l’immediato dopoguerra, le esperienze dell’Informale europeo, dell’Espressionismo astratto e dell’Action painting statunitensi e del Gutai nipponico, nonostante non manchino di essere attraversate, almeno in fase realizzativa, da fremiti votati alla diacronia, non si rivelano in grado di abbandonare quella sincronia che Lessing individua come caratteristica propria delle arti visive.
È con gli anni Sessanta che si apre una stagione di cinetismo caratterizzata, almeno inizialmente, dal ricorso ai congegni elettromeccanici anticipati da Duchamp. Tra le diverse strade che si aprono nella ricerca del movimento, Barilli indica l’happening che in alcune sue direzioni si proietta verso le arti diacroniche per eccellenza dando luogo a sperimentazioni come quelle proposte dal Living Theater e dal Teatro povero di Jezy Grotowski.
Il Minimalismo che si sviluppa attorno alla metà degli anni Sessanta, proponendo al fruitore che si confronta con l’opera di agire lo spazio, apre un’appendice caratterizzata dalla diacronia. Altre esperienze citate dal volume riguardano l’utilizzo del tubo al neon sottoposto a variazioni luminose nel tempo e il ricorso, in direzione concettuale, delle lampadine fluorescenti in grado di dar vita a mutevoli scritte luminose. La stessa Land art non manca di ricorrere a registrazioni tecnologiche volte a sottrarre, non senza contraddizioni, le opere al loro statuto effimero. Si pensi a tal proposito al lavoro di Gerry Schum che, una volta riprese le opere sul luogo, riversa le registrazioni su nastro elettromagnetico in modo da poterle trasmettere attraverso i monitor aprendo così la strada a quella che sarà definita videoarte.
Barilli si sofferma anche su alcune esperienze che lo hanno visto non solo protagonista della scena artistica nazionale sul versante critico-organizzativo, ma anche precursore a livello internazionale, come ammesso dal tedesco Gerry Schum in occasione della Biennale veneziana del 1972, del ricorso diretto alla registrazione elettromagnetica delle proposte artistiche. In particolare nel volume viene fatto rifermento alla celebre rassegna bolognese Gennaio 70 che vede lo studioso, insieme ad alcuni collaboratori, effettuare riprese di produzioni artistiche su nastro elettromagnetico, poi immesse in un sistema di monitor a circuito chiuso negli spazi espositivi.
Gli anni a ridosso del ’68, oltre ad aprire la strada al ricorso al video, che permette alle opere di aprirsi alla dimensione temporale, vedono il diffondersi, sull’onda delle precedenti sperimentazioni dell’happening e del Living Theater, della performance. A tal proposito lo studioso non può che soffermarsi su un’altra esperienza organizzata nella città di Bologna che lo vede protagonista insieme agli scomparsi Francesca Alinovi e Roberto Daolio: le Settimane internazionali della performance che si inaugurano nel 1977. Tra le cinquanta performance che in una sola settimana abitano Bologna in quella prima edizione, devono essere ricordate almeno quella che vede Marina Abramović e Ulay posizionarsi nudi all’ingresso della Galleria d’arte moderna cittadina e quella di Hermann Nitsch, fondatore dell’Orgien und Mysterien Theater, caratterizzata dai corpi nudi vincolati alle croci e ricoperti da sangue e visceri di animali. Tutto sommato, anche nel caso dell’ondata di performance che ha attraversato il panorama artistico per alcuni decenni, è il ricorso alla videoregistrazione, oggi facilmente riversabile in digitale, a garantire il permanere di una traccia diacronica.
Se l’opposizione spazio vs. tempo lessinghiana sembra ormai superata – ad eccezione dei casi in cui viene fatto ricorso a pratiche pittoriche e scultoree tradizionali –, anche nelle produzioni video un’ombra di quella vecchia distinzione pare comunque permanere, seppure dal punto di vista meramente quantitativo. In chiusura di volume, si segnala infatti come tenda a darsi una distinzione in termini di durata tra la visione che il pubblico è disposto a concedere alle produzioni presentate negli spazi dedicati alle arti visive rispetto a quella dedicata, e pretesa, nelle sale cinematografiche o in ambito domestico di fronte al televisore. Se il primo tipo di fruizione, solitamente di breve durata, si confronta spesso con video non interessati allo sviluppo narrativo, il secondo tende invece a rapportarsi con produzioni di maggiore durata dotate di una narrazione.
Se in generale, nell’ambito degli audiovisivi, la netta distinzione lessinghiana spazio contro tempo può ormai dirsi superata, la conquista temporale in ambito strettamente artistico pare refrattaria, nei fatti, a usufruire di durate eccessivamente prolungate in ossequio ai tempi di attenzione che i fruitori sono disposti a concedere.