Il dibattito cittadino attorno al Teatro Pinelli ha assunto in questi giorni un livello di confusione polemica tale da rendere necessario un ragionamento più articolato su alcune questioni relative all’utilizzo dei beni patrimoniali comuni.
Lo scenario della crisi
L’immensa quantità di immobili, spazi e terreni pubblici o privati, abbandonati e/o sottoutilizzati impone a tutti delle questioni sulle quali non è possibile condurre né un dibattito astratto né, allo stesso tempo, neutrale: questo argomento è necessario osservarlo dalla prospettiva oggettiva della povertà, sempre più dilagante nella società. Un paese e una città in cui le cattive condizioni economiche di larga parte della popolazione stanno sempre più riducendo al lumicino la possibilità che dalla crisi se ne esca, e che se ciò dovesse accadere, se ne esca con una soluzione trovata all’interno dei meccanismi perversi del sistema che la crisi ha prodotto. Dalla notte dei tempi ciò che prima era legale è divenuto illegale (e viceversa) attraverso dei conflitti, degli attriti a volte violenti tra l’apparato dello Stato e forze attive della società. Essendo la società sottoposta alle leggi del divenire (mentre il diritto si ferma sempre più spesso nella dimensione di un “essere senza tempo”, atto ad assicurare la riproduzione dei rapporti di potere sussistenti), la giustizia può essere assicurata sempre e solo attraverso il rispetto dei diritti minimi di esistenza che ogni essere umano possiede in quanto essere vivente (ci sarebbe poi anche la Dichiarazione dei Diritti Umani), e il rispetto per il conflitto, come strumento di emancipazione dei diritti. Cioè oggi si dà democrazia solo se le istituzioni riconoscono la propria insufficienza, lasciando venire fuori dal limbo le istanze volte alla trasformazione del reale. La giustizia dunque, in assenza di un vero dibattito politico nazionale, la si può riconoscere solo mettendo in sospensione il diritto vigente che è stato emanato proprio per legittimare l’ingiustizia. Lo spazio giuridico (o extragiuridico) di questa sospensione della vigenza del diritto proclamata dal basso è il nodo teorico-pratico che deve essere indagato dalla riflessione che vuole legarsi sempre di più al processo concreto piuttosto che alla formalità di un diritto che, da solo, si trasforma, e non può che trasformarsi, presto in repressione e violenza.
Nelle nostre attuali democrazie si è scelta questa seconda strada: si è barricato il potere in una fortezza, permettendo ai sottoposti solo di opzionare quale governo dovrà non tanto fare scelte, ma imporre la “necessità” e “l’urgenza” come pratica di controllo della società. Necessità e urgenze dettate dai veri padroni degli stati, cioè le banche, le società finanziarie e le grandi imprese multinazionali. Cioè la democrazia di oggi è solo la delega in bianco data ad un esecutivo affinché esso governi in nome e per conto di un perenne stato di eccezione, derivante dagli squilibri economico-finanziari imposti attraverso pratiche speculative e, dal lato opposto, dall’emersione sempre più forte di lotte sociali che rivendicano diritti, redistribuzione del reddito, democrazia diretta e autogoverno popolare degli spazi in dismissione (fabbriche, case, teatri, spazi culturali, spazi sportivi, ecc…). Oggi i governi, per assicurare la stabilità politico-economica dei mercati, stanno riducendo in polvere i diritti sociali e quelli collettivi affinché lo spazio d’azione dei predatori venga epurato da tutti quei vincoli che ostacolano la valorizzazione privata e l’estrazione di profitti dall’immenso patrimonio di beni comuni in dismissione. Mentre i colpi dati dalla finanza speculativa e dalle banche vengono assecondati nelle scelte politiche di ogni partito di governo, i colpi dati dal paese reale affinché il potere pubblico corrisponda non tanto alla volontà generale, ma ai bisogni concreti di tutti coloro i quali sono stati colpiti dalla crisi, vengono respinti.
L’incuria programmata, il patto di stabilità e le politiche del rigore imposte dall’alto hanno la funzione di preparare i vari “carrozzoni” del settore pubblico, luoghi molto spesso di sprechi, corruzione e clientela, e tutto il patrimonio immobiliare dello stato, a essere svenduti a società private che, senza rischiare nulla, accumuleranno servizi e beni essenziali di una comunità dal sicuro profitto. L’esempio più chiaro di questa lotta di classe ribaltata è quello del tentativo (in parte riuscito nonostante il referendum) della privatizzazione del servizio idrico. Se è vero che la forbice tra ricchezza e povertà in questi anni si è di gran lunga allargata, chi detiene oggi la ricchezza materiale (o virtuale) di acquisire la gestione e/o la proprietà di un bene o servizio essenziale per la comunità (trasporti, istruzione, sanità ecc..) sono, guarda caso, coloro i quali hanno ridotto questo paese ad un colabrodo arricchendosi vertiginosamente, in virtù di un sistema fondato sulla corporazione e sulla corruzione intrattenuta tra il settore pubblico (tramite i partiti) e il settore privato clientelare che sempre di più è in grado di condizionare le decisioni in termini di politica economica.
Se a questo scenario aggiungiamo l’incredibile processo di militarizzazione dello spazio politico e del territorio (specie quello siciliano), che comporta spese per miliardi di euro che finiscono nelle tasche di imprese che fanno delle guerre la loro fonte di guadagno e di sfruttamento del resto del mondo, o se osserviamo la caccia a migranti disperati nel mediterraneo e il loro confinamento in centri di detenzione, o se vediamo imporci la costruzione di strumenti di controllo e di imperialismo neo-coloniale come il Muos, il quadro smette di essere a tinte fosche, per trasformarsi in un triste e oscuro dipinto, che con un’immagine sintetica è in grado di trasmettere l’assurdità di un mondo organizzato a tutti i livelli per creare gerarchie e diseguaglianze. La crisi della democrazia rappresentativa e del relativo spettacolino mediatico, sta tutta in questa sintesi reale, ma irriducibile ad unità, di sguardi attenti e critici di fronte a ciò che appare scientifico, neutrale, frutto di un calcolo puramente razionale. Tra questi, il Teatro Pinelli.
Il caso di Messina e il Teatro Pinelli
Il Teatro Pinelli, come molti altri percorsi di autogestione presenti in Italia e in Europa, agisce all’interno di questa frattura tra interessi collettivi e interessi privati, tentando di ricomporre una soggettività politica territorialmente organizzata in grado di promuovere una sorta di delegificazione degli spazi cittadini che oggi vengono aggrediti dall’ondata speculativa o si trovano da anni in stato di colpevole o incolpevole abbandono. Non lo fa di certo in nome di una imprecisata anarchia, ma tentando piuttosto di legittimare socialmente e politicamente l’idea che possa esistere, tra il diritto privato e il diritto pubblico, un diritto all’uso in comune, meglio rispondente alla ricchezza sociale. Il Teatro Pinelli opera per promuovere una alter-regulation dal basso, e lo fa attraverso la riappropriazione di luoghi vittima della desertificazione produttiva di questa città. L’azione diretta di riappropriazione dal basso non vuol dire assenza di regole, ma promozione di una legalità che stia fuori dal controllo esclusivo dello Stato e dei privati, ritornando in mano ai cittadini.
Non è un caso che, grazie all’occupazione del Teatro in Fiera prima e della Casa del Portuale poi, si sia iniziato a parlare di regolamenti di uso civico. E non è nemmeno un caso se l’attuale amministrazione ha dedicato un assessorato a “l’autogestione dei beni comuni”. Il diritto d’uso civico evoca l’idea di una proprietà collettiva, di uno spazio non autoritario, non padronale nel quale tutti possano esercitare liberamente le proprie attività, combattendo l’alienazione e lo spaesamento della solitudine e della precarietà. L’uso civico nel senso impressogli dalle lotte, apre la strada dell’autogoverno dal basso dei beni comuni. È un’affermazione della libertà di un pezzo di società che, non percependo che attraverso la burocrazia statale si possano sbloccare in tempi ragionevoli gli innumerevoli “iter sospesi”, si riappropria di un bene prendendosene cura (e dunque restituendo un vantaggio alla società, un’utilità collettiva). L’idea di libertà che si associa all’uso in comune non è pero quella della “libertà negativa”, cioè che la mia libertà trova il limite nella libertà assoluta e insindacabile dell’altro; non è nemmeno l’arbitrio o l’abuso, o l’idea che in uno spazio delegificato ognuno possa fare ciò che vuole impunemente. L’autogestione di un bene comune comporta che si interpreti la libertà come un vincolo di responsabilità nei confronti del destino altrui. È il tentativo di pensare che siamo liberi non in quanto soggetti proprietari di beni in concorrenza con gli altri, ma in quanto esseri singolari-plurali che di fronte all’arbitrio della forza proprietaria, hanno il bisogno, oltre che il dovere, di costruire una comunità resistente e solidale.
Il vincolo sociale che costruisce una “comunità resistente” può essere il bisogno di spazi culturali, sociali o abitativi; può essere la questione del reddito e della redistribuzione del potere economico; può essere l’esigenza di un’economia eco-sostenibile; può essere l’idea di un’alimentazione sana non inquinante e non inquinata; può essere la messa in sicurezza di un territorio a rischio sismico; può essere l’istruzione, la sanità garantita per tutte le fasce sociali. Può essere la lotta contro la devastazione del territorio, contro la militarizzazione e contro la guerra. Il teatro Pinelli ha avuto come suo minimo comun denominatore la produzione culturale e l’esigenza di socialità. Questa esperienza però ha sempre cercato di interconnettere i propri contenuti di lotta con tutti i soggetti sociali che patiscono la crisi. E per questo il Teatro Pinelli non ha avuto difficoltà a sostenere la lotta dei richiedenti asilo, fornendo ad essi anche spazi di socialità e momenti di incontro che nessuna istituzione pubblica è stata in grado di fornire. Per questo motivo il Teatro Pinelli ha anche sostenuto l’occupazione della scuola di Paradiso, affinché si desse un tetto a delle famiglie senza casa in stato di necessità. E il Pinelli lo ha fatto anche contro l’amministrazione comunale, della quale molti ritengono sia solo una protesi, giudicata in quel caso inadeguata a dare risposte avanzate alle lotte sociali.
E, nonostante questi dati apparenti facciano dire il contrario, Il Teatro Pinelli non si sarebbe mai tirato indietro di fronte a una seria proposta pubblica e aperta di scrittura di un regolamento degli usi civici. Ma chiaramente l’esigenza della democrazia diretta e partecipativa può realizzarsi solo istituendo rapporti alla pari con le istituzioni che si mostrano disponibili a interagire sulla questione della regolamentazione dal basso dei luoghi comuni e su tutte le forme giuridiche in grado di riconoscere che l’illegalità formale può essere bypassata attraverso la dichiarazione di legittimità sostanziale. Un confronto proficuo può esserci solamente se ciò che si produce socialmente può ragionevolmente essere dichiarato, nella sostanza, migliorativo rispetto ad una condizione di abbandono e di degrado (com’è, ad esempio, nel caso dei murales di via Alessio Valore e dell’autorecupero della Casa del Portuale): in questo caso il compito della politica è quello di trovare una soluzione in grado di tutelare dalla repressione una iniziativa che, seppur formalmente illegale, ha nella sostanza migliorato la qualità della vita della città, o anche solo di una parte di essa. Chi giudica se è un miglioramento oggettivo? Nessuno. Ma visti gli enormi scempi compiuti in piena e oggettiva “legalità” e di fronte all’assenza di alternative realistiche di progettazione urbana a vocazione sociale, l’autogestione dal basso si accredita ad essere una concreta risposta al silenzio tombale della democrazia italiana, ostaggio degli affari e delle speculazioni.
L’amministrazione Accorinti ha inserito tra i suoi propositi quello di recuperare l’immenso patrimonio pubblico dismesso per restituirlo alla collettività: tutto questo, dal punto di vista di un amministratore pubblico, non può che avvenire nel solco della legalità. E non è necessario, per essere radicali, essere contro ogni processo legale, specie se sviluppa positivamente ciò che le lotte hanno rivendicato Ma, se è vero che la rappresentanza politica classica non può essere resuscitata con un colpo di bacchetta magica, non ha senso dire che tutti i processi di riappropriazione collettiva devono essere legali, al di fuori dei quali occorre “tolleranza zero” (com’è stato evocato nella celebre seduta estiva della X Commissione Consiliare da parte di tutti i partiti politici, escluso CMdB).
Quando una comunità si organizza, anche illegalmente, prendendosi cura di una porzione del proprio territorio e garantisce l’accessibilità e l’uso a terzi di quello spazio comune, l’unico atto che può fare avanzare nella direzione della giustizia sociale il percorso di una istituzione è la rimozione degli ostacoli legali che impediscono il riconoscimento di quella pratica sociale. Ciò può avvenire attraverso la negoziazione creativa di strumenti regolamentari ed all’occorrenza attraverso la creazione di registri nei quali si riconosca valore alle “comunità dei volontari” che promuovono l’autogoverno ad uso comune degli spazi abbandonati. Se un volontario può occuparsi della pulizia delle spiagge, perché non può recuperare un immobile abbandonato?
La figura del volontario potrebbe essere reinterpretata, dunque, per dare un riconoscimento e un valore positivo alle azioni di riappropriazione. Per costruire un’interfaccia tra movimenti e istituzioni, infatti, al di là delle classiche forme giuridiche di riconoscimento degli enti collettivi (imprese, associazioni e/o fondazioni), si deve studiare una forma giuridica oggettiva (il regolamento di usi civici, la carta dei principi dell’autogoverno dei beni comuni, la revisione dello statuto comunale, ecc..) e una soggettiva. Se la discussione sul regolamento degli usi civici appare immediatamente una via più facilmente percorribile dal punto di vista giuridico (visto il precedente della città di Napoli), lo è un po’ di meno quella sul soggetto giuridico che “autogoverna” un bene comune. Chi decide di un bene comune? La “comunità dei volontari dell’autogoverno” potrebbe essere, a questo riguardo, una figura giuridica sperimentale in grado di accogliere l’idea della moltitudine all’interno del diritto. Il volontario, infatti, non presta la propria attività in nome di un interesse particolare, ma opera a favore della collettività per rispondere ad uno o più bisogni sociali. In un contesto del genere, anche la lotta contro la crisi può diventare la risposta ad un bisogno sociale, e dunque anche la caratterizzazione politica di un gruppo di volontari può ottenere un riconoscimento giuridico (che chiaramente non può esaurire in sé il processo di legittimazione). Il diritto di essere un soggetto sociale attivo e partecipe della vita politica collettiva è, del resto, ricavabile dallo spirito del testo costituzionale.
Il comitato di gestione di un bene comune, dunque, per non essere il soggetto proprietario di un bene, potrebbe essere pensato come un coordinamento di un gruppo informale di volontari ad adesione individuale (anche se non è da escludere l’integrazione di persone giuridiche come le associazioni, i comitati e le fondazioni) che, a titolo gratuito, si occupa di garantire le condizioni di agibilità di un luogo comune a tutti (che di volta in volta saranno decise in maniera assembleare), potendo usufruire, in cambio, della possibilità di svolgere attività. Quali usi civici sono consentiti all’interno di uno spazio autogestito è chiaramente una questione da rimandare ad un momento successivo (ad esempio, se un luogo al quale viene attribuito l’uso civico per fini sociali e ricreativi, possa essere utilizzato anche per attività lavorative in coworking). La riflessione sulle specifiche di questo nuovo “diritto vivo” può essere proficua solo dopo aver accettato politicamente la necessità di una nuova regolamentazione dal basso.
In ogni caso, sia il percorso sul versante regolamentare, sia quello sulla tipologia di soggettività giuridica da configurare, trovano il proprio radicamento costituzionale negli articoli 42 e 43 della Costituzione italiana, nei quali si afferma la funzione sociale della proprietà e il principio secondo il quale “legge può riservare originariamente o trasferire […] a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese”. Una interpretazione estensiva di questi due principi fondamentali dell’ordinamento pubblico italiano può dare un contributo enorme alle amministrazioni e agli enti che intendono riconoscere le forme di autogoverno dal basso. Anche l’UE opera oggi attraverso il riconoscimento di “gruppi informali”, come accade spesso per i finanziamenti di progetti di scambio culturale tra giovani. E se delle istituzioni si assumono la responsabilità di finanziare gruppi informali non si capisce perché non possa legittimare tali gruppi a prendersi cura di un bene comune.
Ma tutto ciò, non si scrive solo in nome dei movimenti sociali: c’è una ragione in più. Allo stato attuale, il deficit comunale e le politiche di austerità dell’UE non garantiscono le risorse necessarie per poter riqualificare tutto il patrimonio pubblico. L’unica via che lo Stato impone è quella della dismissione o della privatizzazione. Vie che, il più delle volte, si dimostrano molto svantaggiose per la collettività e molto vantaggiose per i pochi privati detentori della ricchezza che hanno costruito il proprio potere sulle spalle della stragrande maggioranza dei cittadini (spesso e volentieri in maniera criminale, oltre che illegale). A Messina, ad esempio, abbiamo assistito alla vendita, poi stoppata dalle denunce della Rete No Ponte, ma soprattutto dall’ipoteca posta dal gruppo Franza (quindi solo per un altro interesse privato), degli ex Magazzini Generali all’imprenditore Vincenzo Vinciullo (che occupa un posto di rilievo nelle indagini della Commissione Parlamentare Antimafia del 2006 che ricostruiscono le dinamiche dei poteri mafiosi nel messinese), con una formula “mista” che, in sostanza, ha permesso al suddetto di acquisire l’immobile alla modica cifra di 489.000 euro (equivalenti al 10% del valore dell’immobile) dando in permuta addirittura tre immobili. Un affare che sarebbe andato solo a vantaggio del privato, e non della collettività.
Osservando questi scempi ci si rende conto immediatamente di come l’autogoverno potrebbe diventare uno strumento per recuperare, senza svenderlo, l’immenso patrimonio pubblico che altrimenti rimarrebbe del tutto degradato, realizzando una riforma sull’uso del demanio che, sul lungo periodo, potrebbe porre le condizioni per una nuova economia sociale dal basso. Agli interventi di carattere politico e giuridico, dunque, sarebbe necessario affiancare un intervento di carattere economico, affinché non vengano solo tutelate le esperienze già in vita, ma che anche altre esperienze vengano incoraggiate alla nascita. Questo può avvenire attraverso quattro tipologie di azione: colpendo la rendita e le posizioni di dominio garantite da privilegi politici; riducendo gli sprechi in altri ambiti di spesa non direttamente utili ai bisogni sociali degli ultimi; creando un fondo ad hoc nel quale vengano riversati i risparmi ottenuti attraverso le decurtazioni volontarie degli amministratori comunali; reperendo finanziamenti e risorse esterne attraverso bandi; aprendo conti comuni sui quali versare i contributi volontari dei cittadini (come il 5×1000).
Il problema, come spesso capita, non sta nei mezzi a disposizione (anche se in questo caso siamo davvero poveri di mezzi): sta piuttosto nella volontà politica. La domanda a cui le istituzioni preposte dovrebbero rispondere è la seguente: ha senso mettere a riparo dai tumulti sociali una legalità di ferro, tanto astratta quanto spietata, e sacrificare ancora una volta la vita reale, la concretezza degli eventi e, in un certo senso, il decorso della storia? Più la crisi si accrescerà e più le lotte e le rivendicazioni si faranno forti. Compito di tutti i soggetti istituzionali e non che si dicono progressisti sarebbe quello di garantire piena cittadinanza a forme di vita nuove, in grado di scuotere e rinvigorire il dibattito politico. Il momento richiede questo grado di determinazione. Non è che con la Casa del Portuale nuovamente aperta e tutelata si esaurisca la questione: ma la sua strenua difesa è condizione necessaria, oggi, per non far morire il dibattito su usi civici e beni comuni. A meno che, sulle spalle dell’esperienza del Teatro Pinelli, non si voglia chiudere la questione semplicemente attraverso un bando per la concessione degli immobili a privati o ad altri enti giuridici “riconosciuti”. Perché una cosa l’abbiamo capita: non può esserci bene comune se la politica costruisce le sue decisioni attraverso istituzioni e processi delegittimati dai fatti. Solo l’incursione insorgente di embrioni di comunità in lotta può riempire di vita la tristezza del presente. Solo attraverso la partecipazione collettiva è possibile promuovere i beni comuni. E solo se questa insorgenza comunarda sarà accolta come un’energia da valorizzare e non come un pericolo da reprimere, che potremo davvero dire di aver vinto.