Perimelasma. Note sullo spazio-tempo di un disastro

In un racconto originale del 1998, lo scrittore di fantascienza Geoffrey A. Landis ripercorre l’esperienza enigmatica di Wolf, un’intelligenza artificiale scagliata da un’equipe di ricerca verso Virgo, un buco nero distante 57 anni luce dalla terra[1]

Per riuscire nell’esperimento, la capsula in cui è installato Wolf dovrà discendere verso l’orizzonte degli eventi e tentare l’impossibile: accelerare fino alla velocità della luce ed entrare nell’orbita della singolarità oscura che divora lo spazio-tempo circostante. Tale manovra gli permetterà così di raggiungere il punto d’osservazione più vicino al buco nero: il perimelasma.

Sono tornato laggiù, nel cratere, a quattro anni dagli eventi. A differenza di Wolf, io non sono stato scagliato a 57 anni luce dal nostro pianeta. Eppure, più mi allontano dalla costa adriatica, più i miei sensi sembrano vittime di un inganno, di un enigma – o forse un dèjà vu. Il cruscotto della mia auto segna 37 gradi centigradi, ho la schiena impregnata di sudore. Mano a mano che mi spingo verso l’entroterra marchigiano però, la lingua d’asfalto si fa sempre più stretta, la vegetazione si infittisce e una lieve frescura selvatica penetra piacevolmente attraverso il finestrino.

I Monti Sibillini dall’area SAE di Pian di Pieca, nei pressi di San Ginesio (MC) – Foto dell’autore, 23 luglio 2020.

Provo una sensazione strana – famigliare e inquietante allo stesso tempo. La ricordo bene, quella sensazione. Viene da tutt’intorno: dalle sezioni di muro crollato che iniziano a far capolino a bordo strada, dalle piccole botteghe e negozietti abbandonati, dalle palazzine sventrate sorrette a malapena da pali di consolidamento. Ma non è solo questo. Ecco: è quello sguardo fugace di un passante, in cui intravedo un misto di rassegnazione e sorpresa. Che cosa sei venuto a fare fin qui?, sembra interrogarmi. Ma fin qui dove? Quanto tempo è passato qui?

Supero Amandola, un piccolo paese in provincia di Fermo, poi discendo lungo il versante opposto del borgo finché non intravedo la fattoria. Scrivo ad Annalisa, una giovane allevatrice, che sono arrivato. Non ci vediamo da due anni: nonostante le mascherine sulla bocca, ci salutiamo affettuosamente ed entrambi intuiamo i nostri reciproci sorrisi. Eppure, qui nulla sembra essere cambiato: la grande casa crepata, abbracciata da grossi cinturoni di sicurezza; il container dove vive la famiglia di Annalisa, sempre stretto e umido; e poi, il volto gentile e malinconico della madre che mi accoglie – quel volto. E allora, di nuovo: quanto tempo è passato qui?

Ci sediamo intorno a una tavola di legno e la madre organizza un piccolo aperitivo alla buona, con i salumi di loro produzione. E intanto Annalisa mi racconta della ricostruzione, mai avviata realmente, della pandemia a malapena superata e del senso di solitudine profonda in cui sembra essere affossato questo maledetto “Centro Italia”, con le sue aree interne e i suoi paesini sulle pendici dell’Appennino, luoghi di cui vale la pena scrivere – rigorosamente a margine, trafiletto di un trafiletto – e parlare giusto in occasione delle commemorazioni e degli anniversari. È arrabbiata, ha ancora la forza per esserlo, e questo mi stupisce. «Non c’è un’idea vera per ridare dignità e rilanciare questi luoghi», mi dice.

E in effetti, le statistiche non mentono: solo il 3% delle circa 80mila abitazioni dichiarate inagibili è stato ricostruito. Ma non si tratta solo di questo: l’amministrazione della ricostruzione, così come l’assenza di veri e propri interventi politici, economici e sociali di rilievo, hanno di fatto amplificato gli effetti dell’emergenza, trasformando il cosiddetto cratere sismico in un’area dominata dall’indecidibilità delle responsabilità e delle possibilità di azione, una situazione che ancora oggi impedisce un’effettiva rielaborazione simbolica dell’evento da parte dei terremotati. Cosa succede, dunque, qui?

Spazio per i giochi nell’area SAE di Pian di Pieca, nei pressi di San Ginesio (MC) – Foto dell’autore, 23 luglio 2020.

Al termine del suo ciclo vitale, una stella sufficientemente grande può collassare su se stessa per effetto della forza gravitazionale e, in seguito a una brusca contrazione, esplodere; nel caso la sua massa superi le tre masse solari, l’esito dell’esplosione consiste nella formazione di un buco nero. A quel punto, nulla può più contrastare la sua attrazione gravitazionale.

I lunghi processi di spopolamento demografico e di impoverimento sistemico delle aree interne dell’Appenino hanno condizionato enormemente il ciclo vitale delle comunità di questi territori, condannate alla centralizzazione dei servizi e delle infrastrutture, ma soprattutto a modelli economici e di sviluppo del tutto inadatti alle peculiarità di realtà locali a bassa densità demografica. Il sisma, da questo punto di vista, non è che un semplice epifenomeno: sono le condizioni di vulnerabilità pregressa e prolungata che hanno reso possibile e “manifesto” il disastro – inteso come esito di processi di lunga durata e non come calamità inattesa da accettare fatalisticamente. Mi trovo qui, dunque. Qui dove c’è stato un tremendo collasso culturale. Qui dove il buco nero, ora, sembra divorare tutto.

Lascio la fattoria di Annalisa promettendole di tornare a trovarla quanto prima. Le ruote ora corrono veloci verso nord, e poi ad ovest, lungo l’asfalto rovente che attraversa come una lama la Valle del Chienti. Pieve Torina dista ancora una cinquantina di chilometri: Emanuele, un lavoratore ultra-sessantenne, mi aspetta al Bar Expò. Supero Muccia e proseguo verso sud, in direzione della cresta lontana formata dai Monti Sibillini. Giunto in paese rivedo affacciarsi dai marciapiedi le fotografie scattate tre anni fa durante la prima ricerca etnografica: le stesse recinzioni, le stesse tapparelle a metà, gli stessi container.

Qui il tempo non trascorre come là fuori. Emanuele ha lo sguardo distratto, perso nel fondo della tazzina di caffè con cui mi accoglie al tavolino del bar. Sembra sfinito. «Qui non succede niente, è tutto fermo, così. Poi con questo Covid che c’è stato, è stata una cosa davvero dura, anche economicamente». È di poche parole, così gli chiedo se ha voglia di accompagnarmi a vedere le casette emergenziali (dette SAE, Soluzioni Abitative Emergenziali,) dietro l’area commerciale “provvisoria” – si fa per dire. L’area SAE è un agglomerato di villette in stile villaggio turistico: gli spazi interni ed esterni sono molto risicati e ciò contribuisce in maniera evidente a riconfigurare la spazialità sociale del luogo, a ripensare il rapporto con l’ambiente circostante e le relazioni su cui si fondava.

Pali di consolidamento nel centro storico di Pieve Torina (MC) – Foto dell’autore, 23 luglio 2020.

Due anni prima, Emanuele mi aveva accolto all’interno di una piccola casetta su ruote, installata a sue spese nel giardino della casa danneggiata; sperava che con le SAE le cose sarebbero andate meglio. E invece, «Si sta tutti un po’ così vicini», mi dice sconsolato scrollando le spalle. Pieve Torina ora non è che uno dei tanti raggruppamenti di alloggi anonimi sulla dorsale appenninica. Ma per quanto tempo si starà così? Che cosa significa “Strutture Abitative di Emergenza”? Quanto dura un’emergenza qui? Il buco nero si espande, il tempo rallenta e lo spazio subisce una compressione inimmaginabile. Attraversiamo uno dei vialetti della struttura, una signora anziana ci sorride da una veranda e saluta Emanuele – «Qui così ci si conosce tutti proprio». Molti però, hanno deciso di andarsene, non hanno resistito. «È dura… poi, sai, ci sono stati molti problemi con queste casette» mi spiega Emanuele. Eppure c’è ancora vita, qui dove i boiler dell’acqua esplodono per difetti di fabbricazione, qui dove la muffa striscia silenziosa sotto i pavimenti, qui dove il provvisorio rischia di trasformarsi in un indeterminato che là fuori non è possibile neanche immaginare.

Nel protrarsi dell’emergenza, l’esperienza del tempo e dello spazio subisce una distorsione radicale di cui ancora si tende a sottovalutare l’impatto: l’habitus individuale si ritrova a oscillare tra le soglie di due mondi irraggiungibili – il mondo dis-fatto e il mondo ri-fatto –, costretto a un compromesso che degenera in vertigine culturale. Una vertigine che aldilà della classica medicalizzazione psicosomatica (la quale ha portato a un considerevole aumento nei consumi di psicofarmaci nel cratere), non sembra trovare risoluzione. «E niente, aspettiamo» conclude Emanuele passandosi una mano sulla fronte perlata di sudore.

Il caldo è asfissiante, così decidiamo di tornare al Bar Expò. Mi offre un Amaro Sibilla – cui non posso in alcun modo dire di no – e continuiamo a chiacchierare: mi sembra più rilassato e presente ora, di tanto in tanto sorride anche. Ma dura solo un attimo. Ci salutiamo nel grande spiazzo all’esterno: risalgo in macchina e parto, mentre Emanuele sfreccia su un monopattino elettrico verso le SAE, scomparendo nei bagliori del primo pomeriggio.

Mano a mano che il buco nero consuma energia e si espande, anche l’orizzonte degli eventi raggiunge un diametro sempre più esteso. Una volta superato questo punto, il tempo e lo spazio vengono inesorabilmente risucchiati verso la singolarità e quel che accade a chi precipitasse al suo interno resta del tutto ignoto.

Arrivo a Tolentino in anticipo. Daniele, un lavoratore originario di Muccia, mi raggiunge al bar DABLIU qualche minuto dopo. Contravveniamo alle regole sanitarie e ci stringiamo la mano: «Mi fa davvero piacere vederti» esclama. Daniele dopo aver abbandonato la montagna, nei mesi successivi alle scosse, si era trovato costretto a spostarsi in un hotel predisposto per gli sfollati a Porto Sant’Elpidio. Da quel momento, insieme a un’associazione di terremotati, si è impegnato nel coordinare richieste, chiarimenti e interventi per tutta la durata dell’emergenza – attività che prosegue ancora oggi. Mi spiega che si fa una grande fatica a tenere il passo con le ordinanze, gli iter burocratici e i cavilli con cui il governo e il Commissario Straordinario – quattro diverse figure in quattro anni – provano a gestire la situazione: «È una lotta continua» dice con una punta di sarcasmo.

Come già evidenziato altrove[2], più che da uno stato d’eccezione, il contesto post-sismico del Centro Italia sembra essere dominato da una dimensione di incertezza che ha prodotto la sfumatura di ogni vincolo: responsabilità, diritti e necessità, all’interno del cratere, si trasformano in oggetti culturali “spettrali”. C’è un’oscillazione costante tra la presenza e l’assenza, sia per i terremotati, condannati all’indefinitezza temporale di un’emergenza che si protrae verso un futuro impensabile, sia per il governo, la cui effettiva azione non è mai accertabile o chiarita in maniera definitiva, sia per quei soggetti istituzionali o privati che nel post-disastro si ritrovano ad avere – nel bene e nel male – una maggiore libertà di azione. «Noi non molliamo», dice Daniele sorridendo mentre sorseggia un bicchiere di vino.

Vialetto dell’area SAE di Pieve Torina (MC) – Foto dell’autore, 23 luglio 2020.

Nel punto più vicino a un buco nero, l’esistenza stessa di una qualsiasi entità è prossima all’annientamento per effetto delle forze di marea e di attrazione gravitazionale della singolarità. Eppure qui, nel perimelasma, intorno all’orbita estrema del buco nero, c’è ancora vita. In questo spazio-tempo costretto a un rallentamento e ad un restringimento inesorabile e continuo, ci sono intere comunità e individui che si sforzano di mantenere stabile ancora per un po’ la traiettoria delle loro esistenze. Perché qui, qualcosa ancora è possibile. Si può ancora trovare un punto di fuga alternativo, ma per farlo occorre ripensare il paradigma che domina le narrazioni sui disastri in Italia: serve cioè un discorso “del” disastro che metta in luce, in maniera estensiva, capillare e pragmatica, l’intreccio di dinamiche da cui originano specifiche condizioni di vulnerabilità territoriale, sociale, politica ed economica.

I disastri sismici più recenti – il terremoto aquilano del 2009 e quello emiliano del 2012 – hanno indubbiamente mostrato come, nel corso dei processi di ricostruzione, si manifestino tensioni socioculturali che esasperano la fragilità e la marginalità delle popolazioni colpite: la dilatazione temporale dello stato d’emergenza, di fatto, favorisce la sovrapposizione e il prevalere di logiche che, nella maggior parte dei casi, sono del tutto slegate dalle peculiarità territoriali e dalle reali necessità locali. Basti pensare alle modalità con cui è stato ridisegnato il modello urbano dell’Aquila, le quali, in nome di un policentrismo urbanistico più “sicuro”, che ha intenzionalmente dimenticato il centro storico, hanno generato dei veri e propri “spazi vacui” mal collegati e del tutto incoerenti rispetto all’identità culturale del luogo.

Sul lungo periodo, il rischio concreto è quello di una trasformazione demografica e culturale dello spazio che, anziché stemperare la vulnerabilità locale, paradossalmente la intensifica: è questo il frutto di un dispositivo emergenziale e narrativo difettoso, la cui azione finisce per persuadere la storia che non poteva andare altrimenti e che ci sono – e ci saranno sempre – ragioni altre. Qui, il timore è che le coordinate dei modelli di sviluppo economico neoliberisti, insieme alla riduzione-centralizzazione dei servizi lungo i poli urbani costieri, possano non corrispondere a quelle dei terremotati e alle loro vite in bilico.

Bisognerà cioè osservare quale tipo di compromesso o frizione emergerà tra le esigenze di un processo di ricostruzione ancora in fase letargica e i più ampi e intricati disegni politici ed economici che agiscono su ordini dimensionali superiori. Per questa ragione, diventa sempre più urgente ricostruire la semantica stessa del disastro, mostrandone la natura processuale di lunga durata, e disinnescare così i limiti della tipica visione evenemenziale e fatalistica, la quale in alcun modo potrà mai rendere conto della complessità multidimensionale di quanto sta accadendo qui – e di quanto altrove è già accaduto.

[1] G. A. Landis, 1998 Approaching Perimelasma, in “Asimov’s Science Fiction”, Vol. 22, N. 1, pp. 10-34.

[2] F. Danesi, 2020 «Dimmi di che morte dobbiamo morire»: dinamiche di persuasione strutturale nel post-terremoto del Centro Italia (2016-2017), in “Archivio Antropologico Mediterraneo”, 22, 1.

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