La decima edizione del Sicilia Queer filmfest.
I gesti e i movimenti di Pina Bausch si intrecciano con la musica di Claude Debussy; linee rosse, a volte sottili a volte pastose, ispessiscono la trama dell’immagine con un elemento grafico che sembra uscito dai disegni di Sergej Ėjzenštejn; tre schermi affiancati riportano alla mente il Napoleone di Abel Gance, che del resto fu grande fonte di ispirazione per lo stesso Ėjzenštejn. Inizia così la decima edizione del Sicilia Queer filmfest, con un lungo trailer realizzato appositamente da Michele Bernardi, un omaggio a quella modernità novecentesca che non hai mai preso la via dritta, “straight”, ma che sempre ha proceduto lungo binari torti, strambi e sghembi, queer appunto. Un rifiuto della via retta che non riguarda solo, come nell’accezione ormai comune del termine, la sfera dell’identità di genere o di quella sessuale (per quanto non ne sia assente, come proprio in riferimento al regista sovietico ha mostrato Peter Greenaway con il suo Eisenstein in Messico, che non a caso ha inaugurato il festival nel 2015), ma che rimanda più in generale a un’eccentricità di sguardo, di approccio e di relazione con il mondo.
L’edizione 2020, che si conclude stasera a Palermo sotto la direzione artistica di Andrea Inzerillo, prosegue e rilancia questa “attitudine queer” fin dentro il grande universo queer, una linea capace di abbracciare mondi distanti eppure in qualche modo legati attraverso il fragile filo dell’eterodosso e del non omologato, come recita l’autopresentazione del festival stesso. Questo arco ampio e tortuoso è così aperto da Flavia Mastrella e Antonio Rezza, il cui SAMP si sviluppa programmaticamente per disinquadrature e piani obliqui che incorniciano le vicende di un killer vestito di fucsia, ed è chiuso da Tsai Ming-liang, che con Days – presentato alla scorsa Berlinale – si concentra invece su tematiche più classicamente LGBT+, seppur con uno sguardo obliquo e inaspettato.
Nel mezzo, si possono incontrare rivoluzionarie brasiliane che lottano per i diritti dei soggetti transgender (Indianara di Aude Chevalier-Beaumel e Marcelo Barbosa) e la regina della letteratura sadomasochistica del Brasile (Vil,ma di Gustavo Vinagre), un dandy quarantenne che ricorda le sue vite precedenti (A rosa azul de novalis di Gustavo Vinagre e Rodrigo Carneiro), storie d’amore non ortodosse e ostacolate, come quella tra Nina e Madeleine in Deux di Filippo Meneghetti, storie di registi in cerca di uno sguardo (Krabi, 2562 di Anocha Suwichakornpong e Ben Rivers e Ne croyez sourtout pas que je hurle di Frank Beauvais). Ma trovano spazio anche i corti, spesso il terreno più vivo di questo universo “bizzarro”, e le “Retrovie italiane”, un omaggio a film classici come I dolci inganni (1960) di Alberto Lattuada o Parigi, o cara (1962) di Vittorio Caprioli e soprattutto alle attrici protagoniste, Catherine Spaak e Franca Valeri, che di questa eccentricità sono state, a loro originalissimo modo, alfiere.
Al di là dei singoli titoli e dei singoli nomi, è una grande costellazione di corpi e di desideri quella che si incontra in queste immagini, poco importa se passati o presenti, vissuti o negati, rincorsi o scacciati. Corpi che riprendono il centro della scena e mostrano la carne di cui sono fatti, che è anche quella carne del mondo di cui sono parte e dentro la quale, sola, possono percepirsi pienamente come soggetti. È proprio questa la scommessa del Sicilia Queer: aprire nuovamente il concetto stesso di queer per farne una chiave di lettura produttiva del contemporaneo, o forse meglio, per farne un termine decisivo nella costruzione di un orizzonte di pratiche politiche che sappia andare oltre le pur doverose rivendicazioni identitarie ed essenzialiste.
È a maggior ragione un festival necessario quello che – pur a ranghi ridotti e posticipati rispetto alla consueta collocazione primaverile – si chiude stasera ai Cantieri Culturale alla Zisa. Perché per quanto possa sembrare scontato o ridondante rimarcarlo, il desiderio di condividere lo spazio comune è il motore della partecipazione pubblica. Il desiderio di sentirsi parte di quel mondo che il mio corpo condivide con gli altri, e che mai così tanto ci pare necessario come in questi tempi, che sono tempi strani per i nostri corpi, e non solo per il Covid. La normatività biopolitica è diventata infatti talmente normale da essere stata ipotizzata come elemento di contestazione delle disuguaglianze: la necessaria e salutare deviazione dalla norma viene dunque sempre più sottoposta a rigidi criteri normativi.
Come riporta il settimanale Variety, per rimanere nel campo cinematografico, sono stati introdotti nuovi criteri per consentire di concorrere per la categoria “Miglior film” alle edizioni degli Oscar a partire dal 2024. Si tratta di una lista di “condizioni di bilanciamento” (di genere, etnia, età, orientamento sessuale…) che devono essere soddisfatte in molteplici aspetti della produzione – dalla composizione del cast a quella delle maestranze, dal tema principale alla campagna promozionale – per poter ottenere, evidentemente, il bollino di conformità a questa “normatività equa”.
Seppure la questione delle diseguaglianze rimanga uno dei nodi politici più problematici e urgenti da sciogliere, la nuova conformità bilanciata attraverso una parità definita da percentuali e numeri corre piuttosto verso la riproposizione di quelle diseguaglianze, seppur con una platea fintamente più allargata. È evidente che i corpi e i desideri, incasellati dentro quelle rigide griglie tassonomiche e statistiche, non saranno finalmente più liberi di esprimersi ma, al contrario, subiranno un analogo processo di epurazione di ogni non-conformità all’orizzonte del potere, un potere che pure si mostra in questo caso con un volto bonario e inclusivo.
Ma certo non si può nemmeno ignorare l’altro versante del problema che, soprattutto in Italia, presenta un’urgenza ancora maggiore: basti pensare al Festival della bellezza a Verona. Mentre si sono a malapena sopite le polemiche contro la declinazione esclusivamente maschile della manifestazione scaligera, il Sicilia Queer si presenta allora anche come rovescio della manifestazione veronese. Ma non tanto perché si fonda su un – pur necessario, ribadiamolo con forza – bilanciamento di genere nella presa di parola nel pubblico consesso, quanto piuttosto perché rifugge programmaticamente quella ricerca di un canone ortodosso che è l’effetto più visibile dell’esplosione festivaliera che ha investito l’Italia, a partire dai nomi presenti in cartellone.
Non serve procedere a una comparazione puntuale di due eventi così diversi; tuttavia, scorrendo i nomi presenti di qua e di là, ci si accorge di come la dimensione centripeta dell’offerta, e di conseguenza del consumo, culturale stia richiudendo pericolosamente la “naturale” eccentricità della cultura come momento emancipativo e dei festival come spazio critico. Riaffermare dunque il carattere queer – in questa accezione ampia e inclusiva – dell’offerta culturale diventa un presupposto essenziale per riprendere le fila del discorso là dove la pandemia li ha interrotti, per rilanciarli verso il futuro, lungo strade non dritte.