Spazi del razzismo strutturale

Leggere il presente per ripensare la Storia e le pratiche di discriminazione

Una protesta di Black Lives Matter. Fotografia di John Wayne Lucia III. Copyright: Kneejerk Imagery

Sono trascorsi pochi mesi dall’inizio delle proteste nelle piazze e nelle strade delle small towns statunitensi fino alle grandi assemblee delle capitali europee, e non solo. Pochi giorni da un altro evento, “The Committment March” a Washington D.C. che ha coinvolto migliaia di persone per l’anniversario della marcia for Jobs and Freedomnel 1963. Il dibattito sulla questione del colore, sulla discriminazione del diverso e sul razzismo sistemico di molte società, e di molte storie, compresa quella nostra, ha riacceso i fari anche sulla nostra relazione con la Storia, i suoi monumenti e i suoi racconti. In un certo senso, riemerge un interess eo una paura che era stata messa in secondo piano, quasi nascosta. Basta sfogliare delle testate dei quotidiani nazionali o trascorrere qualche ora ad attraversare le maree di indignazione (da Black Lives Matter nelle piazze di Portland fino a New Orleans, passando per le piazze di Berlino fino a Roma). E l’omicidio di Colleferro del ventunenne Willy Monteiro Duarte ci riconsegna, in forma più scioccante, qualcosa che ci riguarda profondamente da vicino, dai nostri atteggiamenti e dalle nostre reazioni. Ma questo richiede un’analisi ancora più dettagliata della psicologia sociale nei nostri quartieri. Durante i primi mesi estivi, sono anche riapparse le notizie e i linciaggi mediatici senza filtro né attenzione sugli sbarchi, quelli che devono starsene a casa loro adesso ricominciano a tornare e così anche il tema del nero, dell’altro che invade la mia proprietà, o il mio modo d’essere, è tornato. Come se tutto ciò fosse andato in letargo.

Una riflessione molto utile e precisa è stata aperta da un articolo eccellente di Angelica Pesarini che ha descritto gli spazi dell’ipocrisia delle piazze italiane ripopolatesi, quasi in estati in un risveglio improvviso a favore dei diritti civili, dell’eguaglianza, delle minoranze, di una giustizia antirazziale. Per convenienza o per fortuna. L’aspetto performativo, come dice l’autrice, lascia spazio a un movimento senza bussola. Sono le sue parole che devono farci riflettere sui privilegi, sul timing conveniente di queste piazze italiane, e sulle possibilità di dare dignità alla protesta, alla lotta, alla necessità di riconoscimento pensando al nostro passato, alle trincee coloniali della nostra lingua e dei modi di vivere. Lontani ancora i riconoscimenti degli afro-italiani, dello ius culturae o di quei giovani cresciuti nelle nostre scuole di quartiere che per anni (ci) restano invisibili. Ancor meno di cosa significa appartenere ad una cittadinanza.

Per mesi, la pandemia ci ha distolto l’attenzione da questi temi. Assorbiti tra conferenze stampa all’ordine del giorno, statistiche, apps per il tracciamento, e posizioni di convenienza (aprire o no, congiunti o no…). Forse. Forse non siamo stati molto attenti. Infatti, le strategie e atteggiamenti consapevoli discriminatori hanno continuato per la loro strada, creando sofferenze ed isolamento. Negli Stati Uniti, ai primi giorni del lockdownagli inizi del mese di marzo, pochi davano spazio mediatico o d’inchiesta all’ironia di essere illegal, but essential. Ma questa era una condizione di molti. Lavori invisibili e la difficoltà di cure sanitarie sono anche quelle che ha ripreso il sindacalista Aboubakar Soumahoro con lo sciopero dei braccianti di fine maggio e la nascita di un suo sindacato dedicato specificatamente a questo tema. A marzo il governo Italiano con un decreto aveva dichiarato di nuovo i suoi porti come non sicuri strumentalizzando la crisi sanitaria, come ricorda Giansandro Merli. Ad oggi, avvertiamo con un certo fastidio le ennesime difficoltà della classe dirigente di metter mano ai Decreti Sicurezza del precedente governo giallo-verde.

Forse, allora è giunto il momento di farsi carico dell’esperienza emergenziale del COVID-19 e fare i conti, seriamente, con la questione del razzismo endemico alla nostra società e alla nostra identità senza semplificazioni. Un’emergenza che richiede di cambiare comportamenti, spazi, e parole per non scadere nell’ovvietà, nel paternalismo e nella dicitura poverino-selvaggio. È facile, è quasi automatico per certi gruppi della società ripetere un’ipocrisia ma messa al bando o addirittura imputare a quelliun nuovo peccato originale.

E, proprio di un “doppio peccato originale” racconta con provocazione ad una madre-patria ipotetica, un testo che potremmo definire auto-fiction di Christian Kuate, Negro. Lettera ad una madre (Lettre d’un mbenguiste à sa mère), dove “ne*ro” compare per essere rivendicato e decostruito. Ciò che l’autore intende per “doppio peccato” è l’abbandono di un oikos, quasi contro natura, che torna nella costante condanna dello sguardo dell’altro. Scrittore camerunense che da molti anni abita nelle valli trentine, Christian ci descrive un viaggio d’e-migrazione corporea che si sviluppa sui circuiti discorsivi del colonialismo europeo, dello sguardo sul/del migrante e della personale lotta di emancipazione dalle maglie familiari. Ma, se l’Europa è ancora guardata in televisione, percepita come un Eldorado, la realtà pulitaviene a scontrarsi con il quotidiano scontro: “Veniamo ogni giorno verbalmente spennellati di colore; siamo gli unici del pianeta ai quali tocca, e ci tocca in permanenza, come per metterci meglio in evidenza. Come quando, in una soluzione chimica, viene colorato un virus per analizzarlo meglio o metterlo in quarantena.”(Negro. Lettera ad una madre, pp. 63-64). Quindi, cosa significa vivere una duplice diaspora sotto la pandemia che ridisegna gabbie socio-economiche e sanitarie di un’esistenza sempre più fragile, ai margini. La condizione esistenziale (e corporea) dell’essere non-bianco si lega profondamente alle trincee di un virus che riemerge nell’ipervisibilità delle minoranze. Le spaventose statistiche delle popolazioni più soggette a soffrire (per esempio, negli Stati Uniti) sono corpi che subiscono una nuova pennellata, o un’incisione sociale che è l’effetto di un crimine ecologicodel migrante, colpevole di aver abbandonato il suo ambiente (Negro. Lettera ad una madre, p. 78). Nonostante lo scetticismo nelle manifestazioni delle piazza europee e la mancanza di un necessario discorso più ampio sui molteplici passati, Kuate avverte che tutto ciò richiede tempo e nuovi vettori per trasformare il nostro linguaggio e le modalità di relazione tra generazioni.

A female Hottentot with steatopygy. Wellcome Library, London. Wellcome Images.
Journal Complementaire du Dictionaire Des Sciences Medicales, 1819

Ma quali sarebbero delle modalità, degli spazi per ripensare un dialogo diverso sulla Storia e le pratiche di discriminazione? Sulla scia delle riflessioni raccolte nel suo libro, lo scrittore camerunense ne individua almeno due pensando alla Francia. In primo luogo, le riparazioni, risarcimenti degli abusi e restituzione di opere rubate, come ad esempio, la consegna nel maggio del 2002 da parte delle autorità francesi delle spoglie di Saartjie Baartman, più conosciuta a suo tempo sotto il nome di Venere Ottentotta da cui è uscito anche il film Venus noire (2010) del regista tunisino, Abdellatif Kechiche. Portata forzatamente in Europa verso l’800, dove fu esibita come un animale, esposta a esperimenti pseudo-scientifici, condannata alla prostituzione, morì prima dei suoi trent’anni. Un altro fattore importante è il riconoscimento e la condanna di atti di schiavitù in quanto crimini contro l’umanità, come è accaduto in Francia con la Legge Taubira nel 2001. Almeno è un passo verso la consapevolezza di un passato che non ci lascia e si ripresenta in forme nuove, in nuovi spazi di discriminazione e di assenza di diritti e assistenza, verso cui non bisogna abbassare la guardia.

Sul versante ‘italiano’ ma in dialogo con le vicessitudini di un’identità ibrida come racconta Kuate, troviamo la forza espressiva delle parole e delle immagini della scrittrice italo-somala, Igiaba Scego. In un recente incontro virtuale sui temi del razzismo sistemico delle società europee organizzato da un patrocinio italo-tedesco, parte della campagna We are in this together, Scego ha descritto con un’immagine geoesistenziale la paura coloniale dell’Italia: un essere umano che si vuole aggrappare all’Europa per paura di cadere nel meticcio – “L’italia è un ponte, ma non lo sa, ha la paura di essere considerata nera” quando gli Italiani non sono mai stati bianchi. Attraverso uno dei molti personaggi di sospensione, ibridi come Lafanu nel recente La linea del colore (Bompiani, 2020) che riguarda tanto l’Atlantico quanto l’Europa, Scego ci illustra come riconoscere i passati traumatici resta quindi un tentativo obbligato per affrontare quelle che sono delle strutturali dicotomie di colori e di spazi di dignità che ci circondano nelle nostre comunità e nei nostri quartieri di periferia. Sarebbe quindi utile ritornare alle parole e ai nostri linguaggi, alle nostre azioni.

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