La review è blind, cieca. Siamo in meritocrazia baby! Siamo neutrali!
La scorsa settimana abbiamo ospitato un intervento di Mieke Bal che ha in sostanza demolito il sistema di editoria accademica peer review – tradotto in italiano come sistema di referaggio o di revisione inter pares, o spesso nemmeno tradotto dalle riviste italiane che ricorrono direttamente al termine inglese. Secondo Bal il sistema, sviluppatosi nel mondo anglosassone ma ormai in vigore su scala internazionale, toglie tempo a chi dovrebbe fare ricerca; aumenta il formalismo a discapito della qualità; è conservatore e preserva l’ordine esistente dei saperi; spesso si fonda su reti di amicizie e clientela accademica; rafforza le gerarchie; disimpegna i redattori e svilisce il lavoro di redazione; ha tempi lunghi e non permette alle pubblicazioni di stare al passo con quello che succede nel mondo; genera ansia tra giovani ricercatrici e ricercatori; viene usato per guerre tra bande accademiche; e, in sostanza, riproduce autorità.
Cosa aggiungere? Alcune piccole storielle peer review che vengono dalla mia esperienza personale di revisore e che sono stato riluttante a condividere – perché poco edificanti, perché per certi versi mi imbarazzano, e non le racconto tutte – ma che aiutano ulteriormente a capire la problematicità del sistema in questione.
L’anno scorso ho presentato domanda, nell’università scozzese dove insegno, per essere promosso da lecturer (ricercatore) a senior lecturer (professore associato, o giù di lì). Uno dei criteri di valutazione delle domande qui e Edimburgo e anche nel resto del sistema del Regno Unito è la “stima” che i colleghi e le colleghe – soprattutto i colleghi e le colleghe esterne all’istituzione dove si presenta domanda – nutrono nei tuoi confronti.
Come la dimostri la stima? Concetto vago, ambiguo, scivoloso, mai chiaramente definito nei formulari che si devono riempire per essere promossi. Allora ci vogliono numeri, prove, per essere promossi con stima nell’università neoliberale. Niente chiacchiere. La stima la dimostri anche accumulando referaggio su referaggio, per (possibilmente molteplici) riviste accademiche e case editrici. Fai referaggio, dunque sei stimato perché sei considerato in grado di valutare, dunque forse hai maggiori chances di essere promosso. Forse.
Quindi negli ultimi anni ho aumentato vertiginosamente il numero di review che faccio per riviste e case editrici. Sia ben chiaro, per me fare referaggio significa anche leggere e spesso imparare e stare al passo con le ricerche altrui (questo lo si può e lo si deve ovviamente fare anche senza trasformarsi in un peer reviewer seriale). Solo che poi alla fine i meccanismi di promozione spesso ti spingono lontano da questo approccio disinteressato, e in fondo i referaggi li fa questa massa di forza lavoro sotto pressione che deve dimostrare di essere stimata, che deve gonfiare il curriculum, che deve “costruirsi reti”. E quando il referaggio lo si fa (anche) con questo motivo in testa, il motivo poi non ce lo si toglie dalla testa, e magari alcuni articoli uno li legge e li commenta bene, con attenzione; altri (soprattutto quando non si crea nessuna affinità) meno, superficialmente, scrivendo giudizi molto generici, roba copia-incolla con lo stampino che potrebbe funzionare per altre centinaia di articoli.
Facevo il ricercatore quando ho iniziato ad aumentare il numero di review e il numero di riviste per cui facevo referaggio, e il fatto che fossi appena stato assunto come lecturer ha probabilmente fatto pensare a molte redazioni e colleghi e colleghe “ora è pronto per fare un po’ di lavoro di review”. Avevo appena ottenuto un posto fisso. Stavo al sicuro. Ma solo pochi mesi prima ero un precario, mandavo appunto articoli a destra e a sinistra. Spesso articoli decisivi per accumulare il necessario arsenale per ottenere un posto fisso. Ma mentre facevo referaggio, da lecturer, mi immedesimavo in me stesso precario qualche mese prima, e mi dicevo “caspita questa la sto facendo con troppa superficialità… non sto rispettando chi, come me, ha messo anni di lavoro in questa roba, e chi come me qualche mese fa, sta appeso a un filo”. Spesso facevo referaggio con molta stanchezza addosso. Preso dalla mia ricerca e dal mio libro da scrivere. Preso dall’altra miriade di cose che dovevo fare per cercare di essere promosso nell’era dell’università neoliberale: organizzare eventi, moltiplicare le mie pubblicazioni, fare lavoro amministrativo, dimostrare, dimostrare, dimostrare, numeri, prove… e qualche peer review l’ho fatta in maniera molto superficiale, giusto per farla, giusto per aggiungere una review. E via rimorsi, sensi di colpa, il senso di tradire una coscienza di classe, la classe precaria addomesticata alla peer review come strumento di riconoscimento e scalata. Ancora qui con me, quel senso di colpa, una parola dopo l’altra.

A forza di stare dentro il sistema di referaggio accademico si finisce spesso per pubblicare, a forza di citare si viene anche citati, e allora le redazioni spesso guardano a chi cita chi e sulla base di chi cita chi decidono a chi mandare l’articolo. Ti arrivano allora articoli in cui sei citato e di cui devi fare review. Un invito-a-nozze-review. Come resistere alla tentazione di far passare un articolo in cui i tuoi lavori sono citati, e che se verrà pubblicato andrà a fare aumentare il numero di citazioni con cui poi andrai a rivendicare la tua prossima promozione, o qualcos’altro? La peer review si vuole anche come strumento morale, di etica accademica, che aiuta ad evitare dinamiche meschine di questo genere, e invece le riproduce, quando non le incita.
E poi gli editori che ti contattano per un referaggio di un manoscritto. I manoscritti sono il meglio di queste storielle che vi sto raccontando. Le redazioni chiedono spesso a chi manda i manoscritti il nome dei revisori che potrebbero fare il lavoro. “Leggerissimo” conflitto di interesse. Si scelgono quindi reviewers amiche e amici, o potenzialmente non ostili. O revisori che magari stanno dentro le stesse correnti di pensiero, con le stesse simpatie politiche, o con qualche forma di affinità.
Ma magari, a volte, questi calcoli vanno male e le ciambelle non riescono con il buco. Come quando ho ricevuto il manoscritto di un autore che conosco e che sicuramente ha indicato il mio nome per affinità politica e pensando che dunque tutto sarebbe andato liscio, in fondo stiamo dalla stessa parte, sapere critico… Poi il manoscritto era terribile. Certo, stava nel mio campo di simpatie politiche e si trattava di roba critica verso certi poteri. Però impresentabile, scritto male, con poca ricerca.
Ho bocciato quel manoscritto. Non era pubblicabile. Solo che poi sicuramente il mio giudizio sarebbe arrivato all’autore, e visto che mi aveva suggerito come reviewer avrebbe immediatamente saputo che ero io. Mentre scrivevo la bocciatura mi dicevo: ma mi si ritorcerà contro, lui è un professorone, io non sono nulla. E via che mi facevo le mie mappe di tutte le colleghe e colleghi che conoscono sia lui sia me, e a cui poi magari lui per ripicca avrebbe detto…
La peer review si regge sul presunto valore morale della segretezza: il nome del reviewer non viene rivelato, la review è blind, cieca. Siamo in meritocrazia baby! Siamo neutrali! Ma alla fine sappiamo che per funzionare, per pubblicare con i ritmi con cui vogliono pubblicare e con cui ci viene chiesto di pubblicare per stare al passo con i sistemi di valutazione della ricerca in cui siamo intrappolati, le redazioni devono ricorrere, molto frequentemente, alle peer review a carte scoperte: la sappiamo-tutti-tutto-review.
Strumento di avanzamento nella scala sociale ed economica accademica. Macchina pericolosa da addomesticamento e selezione del precariato. Dispositivo da aumento delle citazioni e pubblicazioni facili. Questi non sono mal funzionamenti della sistema di referaggio. La peer review, in fondo, è spesso una finzione con cui mascheriamo i nostri desideri.