Aboliamo il sistema peer review

Dieci obiezioni all’attuale sistema dell’editoria accademica.

Pubblichiamo la traduzione italiana, a cura di Francesco Zucconi, dell’articolo “Let’s Abolish the Peer-Review System” uscito su Media Theory Journal.

aboliamo il sistema peer review
Foto: Bas Uterwijk

Quando l’accademia è diventata globalmente “neoliberale”, sono state stabilite norme che sono diventate un “sistema” non più discutibile. Nessun confronto, nessun periodo di prova, rettifica o ripensamento. Le norme finiscono per prendere il sopravvento sulle persone. Una di queste norme è che tutte le riviste accademiche e le collane di libri seri e rispettabili devono obbedire al requisito di avere tutti i contributi per la pubblicazione giudicati da pari, “peer-reviewed”. All’inizio, questa sembrava una buona idea – ottenere un feedback per ottimizzare la qualità –, ma una volta generalizzata in una norma, quella stessa idea è diventata problematica. Peer review è diventato un termine corrente anche nel linguaggio ordinario e mi è capitato di incontrarlo molte volte in contesti del tutto inopportuni. Vorrei proporre dieci ragioni, correlate ma distinguibili l’una dall’altra, per le quali il sistema peer-review è fortemente problematico e, a mio avviso, pronto per essere abolito. Solo quando una norma viene ri-normata – ovvero spogliata del suo carattere di norma – si possono prendere in considerazione alternative che preservano gli aspetti positivi, ma che eliminano i dieci aspetti critici che sto per esprimere[1].

Il sistema peer review è profondamente sbagliato, in primo luogo, perché comporta un pesante fardello per gli studiosi che devono dedicargli il poco tempo a disposizione per svolgere il proprio lavoro. Il tempo per la ricerca e la scrittura è già molto ridotto a causa delle nuove norme che aumentano inutilmente il carico di lavoro amministrativo. Di conseguenza, solo gli studiosi meno attivi e meno brillanti saranno disposti a farlo, con conseguenze sulla qualità delle review. In molti casi, i colleghi che assumono tale onere fanno un grande lavoro e offrono critiche eccellenti, utili per l’autore. Ma, molte volte, la critica è superficiale e di routine. Non posso del resto biasimare i revisori, che non ottengono alcun credito per questo lavoro.

Un secondo inconveniente è che la procedura, il suo formalismo e le sue tempistiche, prevalgono sulle discussioni di qualità riguardanti la coerenza e l’originalità di un numero di rivista, di un volume collettivo o di una serie di libri. Questa situazione riduce la qualità del prodotto finale che può diventare modesto, incoerente e tardivo sia in termini di contenuto – se questo si riferisce al contemporaneo – che di altri aspetti scientifici.

Una terza obiezione è che il sistema è fondamentalmente conservatore. Poiché i giudizi sono richiesti a persone collocate in uno specifico settore, queste potrebbero non accogliere innovazioni potenzialmente capaci di mettere in discussione le loro opinioni. Ho visto spesso commenti del tipo “per quale motivo l’autore non cita questa o quella figura di spicco nel settore?”. Senza fare nomi, si può sostenere che un articolo su un soggetto post-coloniale che non fa riferimento ai due nomi più citati in quell’area sarà criticato per questo, come mi è capitato di leggere in una review. Questo atteggiamento ignora il fatto che tali omissioni possono essere propositive: un tentativo di aprire il campo a una profonda riconsiderazione di ciò che è “post-” sullo stato attuale del mondo in relazione al colonialismo. Credo che i predecessori e fondatori in questione non si opporrebbero a tali revisioni, ma i loro adulatori meno attenti potrebbero trovarlo inconcepibile. Lavorando in fretta e furia per il primo motivo sopra citato, questi verificano soprattutto se la bibliografia è “corretta”.

Un quarto motivo per condannare l’imposizione del sistema è che il risultato prodotto coincide spesso con l’esatto opposto di quanto il sistema mira a raggiungere. Quando ci viene chiesto di esaminare una proposta, si tende ad accettare di effettuare la review di articoli o di libri soltanto da amici o persone con le quali si è tendenzialmente d’accordo; oppure di persone con opinioni opposte, in modo da liberarcene. È contro questa tendenza che il sistema è stato messo in atto, ma in realtà finisce per promuoverla. Gli editori e i redattori scelgono i revisori sulla base di conoscenze personali e di ciò che si aspettano da queste stesse, non dunque su basi “oggettive”, ammesso che tali basi esistano. Fin dall’inizio della mia carriera, ho fatto entrambe le esperienze. Solo un esempio: un editore, che intendeva pubblicare un mio libro, ha inviato la proposta in valutazione a qualcuno che pensava capace di apprezzarlo, soprattutto perché io stessa avevo precedentemente raccomandato un libro di questo recensore anonimo. Ma l’editore si sbagliava. È successo il contrario, senza dubbio a causa di un atteggiamento da controllo del territorio o, peggio, di una pretesa di proprietà del campo. Quando, dopo due anni di revisione – e di scrittura del libro successivo – finalmente la proposta è stata approvata, ero ormai pronta a cambiare editore. Questo recensore non poteva sopportare che fossi entrata in un territorio che lui considerava suo. Questo accade sempre, anche se non necessariamente in modo consapevole. (Ho capito chi fosse dallo stile della scheda di valutazione della mia proposta editoriale, così come dalle opinioni specifiche e le menzioni di riferimenti mancanti, il che non fa che confermare la mia teoria).

Un quinto problema è l’effetto che il sistema peer review ha sul mondo accademico in generale, tenendo conto che esso rafforza la gerarchia. Questo aspetto scoraggia soprattutto i giovani autori ancora sconosciuti, che si sentono soggetti a un Grande Fratello.  Attraverso l’anonimato, il sistema può spingere i revisori ad assumere atteggiamenti cattivi, combattendo altre persone o altri approcci. Ma, sugli autori, tutto questo produce l’effetto di una resa abietta: sono ormai lontani i giorni in cui c’era una parvenza di democrazia nell’organizzazione accademica. La sensazione del “perché perdere tempo” viene fuori facilmente. Di conseguenza, per questa via, il mondo intellettuale potrebbe perdere preziosi colleghi futuri.

In relazione a tutto questo, ecco il sesto problema: a ben vedere, il sistema disimpegna i redattori stessi, che non sono più in grado di selezionare opportunamente gli articoli delle riviste o i libri della loro collana.  Questo rende il lavoro di redazione meno attraente per studiosi di qualità e per chi ha una visione interessata a negoziare la linea sottile tra l’imposizione di un tema e la crescita, più o meno spontanea, della pubblicazione sulla base degli articoli presentati. Di conseguenza, le pubblicazioni perdono coerenza o sostanza. Ho dovuto proporre due peer-reviewer per una buona cinquantina di contributi per il numero speciale di una rivista online. Naturalmente, non conoscevo un centinaio di persone che lavoravano nel settore. Il problema è stato risolto dai redattori stabili della rivista, che hanno chiesto ad alcuni amici di fare un rapido turn-over. È il tipico esempio di quanto ho descritto al punto quattro. Ma questo non risolve il problema di come selezionare i reviewer più adeguati.

Un settimo problema appare pratico, ma ha profonde conseguenze intellettuali: il lavoro di peer review frena il già lento sistema editoriale e sono soprattutto le pubblicazioni su tematiche contemporanee a subire tale ritardo. Questo rende la scelta di tali argomenti meno attraente per gli studiosi, il che produce un altro effetto conservatore. Le analisi delle questioni culturali contemporanee sono già obsolete nel momento in cui appaiono. Questo è stato uno dei motivi che mi ha spinto a realizzare video documentari sui temi della migrazione. Non solo è stato possibile coinvolgere direttamente i migranti “all’interno” dei film, invece di scrivere su di loro. Ma è stato anche un esercizio di vera contemporaneità. Più in generale, e più accademicamente, il testo pubblicato si basa su una ricerca che, a sua volta, viene resa disponibile tardivamente. Spesso ho dovuto aspettare due anni prima che uscisse un articolo. Di conseguenza, tutto ciò che era apparso successivamente a quando l’ho scritto non è stato preso in considerazione. Questo ritardo ha un enorme impatto sulla qualità che il sistema dovrebbe salvaguardare.

Questo ritardo comporta un ottavo aspetto che trovo particolarmente discutibile. Tali tempistiche sono ingiuste nei confronti dei dottorandi o di altri giovani studiosi che, nel culto della “flessibilità” dell’università “neoliberale” – che non è né nuova né liberale, nel caso in cui si fraintendesse il termine –, sono spesso tenuti a pubblicare prima di poter consegnare la tesi di dottorato o prima di ottenere una borsa post-doc. Questa pressione costituisce di per sé una “norma” che entra tuttavia in attrito con la norma della peer-review.  Durante i tre anni di dottorato – in molti casi, un periodo già troppo breve per scrivere una tesi – i giovani ricercatori devono aspettare mesi e mesi per sapere se il loro articolo è stato accettato e poi almeno un altro anno prima che venga pubblicato. Questa attesa suscita ansia, il che è controproducente per il progetto di ricerca più vasto.

Sono stata testimone di un caso del genere. Un brillante studente ha proposto un articolo per la pubblicazione dopo appena due anni di dottorato, quindi un anno prima del previsto. Prima dell’introduzione del sistema peer review, tutto questo avrebbe funzionato. Io ho letto l’articolo e l’ho trovato eccellente, così come il curatore del numero speciale per il quale è stato scritto. I peer-reviewer hanno impiegato un’eternità a esprimersi. Quando il tempo a disposizione di questo studente è finito, le cose sono andate storte, perché l’accettazione e l’uscita dell’articolo costituivano un requisito per ottenere un quarto anno da dedicare all’insegnamento e quindi fare un’esperienza essenziale per il suo percorso. Sulla base di una seconda serie di peer review, questa volta focalizzata sul tema scelto per lo special issue, la rivista ha respinto l’intero numero, non sulla base della qualità degli articoli, ma perché non trovava interessante l’argomento. Così, anche questa persona diligente, che aveva rispettato le norme alla lettera, ha visto vacillare la possibilità di ottenere un quarto anno da dedicare alla ricerca e all’insegnamento. Ha avuto la fortuna di avere un supervisore comprensivo e ben disposto, con sufficiente influenza, e di ottenere ciò che aveva richiesto, ma questo avrebbe potuto costargli la carriera accademica e, soprattutto, ciò sarebbe costato all’accademia un membro di altissimo profilo. Perché, non dimentichiamolo: scegliere le persone migliori è nell’interesse di tutto il mondo intellettuale.

Il nono problema è un effetto collaterale della mia quarta obiezione. Il sistema è uno strumento per il controllo del territorio: non soltanto mira alla conservazione di un campo considerato immutabile ma, ancora peggio, genera risentimento nei confronti dei colleghi e questo crea problemi agli studenti che non hanno nulla a che fare con le ostilità tra docenti. Ho fatto esperienza di ciò e ne sono stata testimone. Ovviamente, i colleghi sono sempre in disaccordo tra loro e non c’è nulla di sbagliato in tutto questo. Questo aspetto dovrebbe condurre a un dibattito che è in sé produttivo e costituisce uno dei pilastri della buona prassi accademica, garantendo la crescita intellettuale. Ma i professori non vengono selezionati secondo criteri di santità. Inoltre, il sentimento di invidia è fortemente incoraggiato dallo stesso sistema accademico e questo ancora di più da quando è stato attuato un altro requisito: quello di richiedere e ottenere grandi fondi di finanziamento. Ciò che viene considerato “sana concorrenza” fa emergere spesso giudizi di parte non dichiarati. Uno studente può subire le conseguenze di aver scelto un relatore verso il quale un altro collega porta rancore. Talvolta, le posizioni intellettuali, troppo spesso ridotte ad un’opposizione binaria, vengono anche chiamate “scuole”, con ognuno dei due antagonisti che definisce l’altra posizione come “dogmatica” e le proprie idee come “scoperte”. Il sistema di peer-review anonimo offre a chi porta rancore uno strumento per vendicarsi dell’odiato e disprezzato collega, negando ai suoi studenti l’opportunità di pubblicare e quindi aumentare la loro reputazione. Peccato per lo studente, che sta solo cercando di fare il miglior lavoro intellettuale. Ma, anche in questo caso, a perderci è anche l’accademia.

Infine, l’effetto più devastante coincide con il decimo problema. Si tratta di un aspetto generale del sistema: esso è ancorato a una mentalità autoritaria. Questo comporta un grave pericolo sociale: promuove una tendenza all’insicurezza collettiva, nascosta dietro le forme di autorità. È così che funziona: un’opera merita la pubblicazione solo se gli altri approvano. Come già segnalato nell’obiezione numero sei, questo sopprime lo stimolo degli studiosi eccellenti a coltivare la propria opinione.

Ci sono possibilità alternative per raggiungere ciò che il sistema vorrebbe perseguire senza riuscirci: il controllo di qualità o, meglio, la sollecitazione della qualità. Il prezioso feedback dei colleghi è qualcosa che un autore può comunque cercare da solo. Una rivista o una collana di libri possono attivare il buon vecchio comitato di redazione. Una volta che i redattori hanno fatto la loro selezione, un giro di discussione con il comitato scientifico può aiutare a valutare se la scelta è compatibile con il livello di la qualità della pubblicazione. Ciò include la coerenza dei numeri speciali e l’adeguatezza alle collane di libri. Tutto ciò accade comunque e dovrebbe essere sufficiente. La fiducia nelle loro capacità e nel loro giudizio è d’obbligo.

Tutto questo può essere messo in atto in relazione allo scopo delle pubblicazioni accademiche e a ciò che il sistema peer review preclude: una produzione costruttiva degli strumenti – la base stessa per i dibattiti – messi a disposizione dei lavoratori della ricerca accademica.

[1] Le dieci ragioni che sto avanzando qui possono essere utilmente valutate sullo sfondo tracciato, per esempio, da Chris Lorenz, “If You’re So Smart, Why Are You under Surveillance? University, Neoliberalism, and New Public Management” in una delle migliori riviste umanistiche, Critical Inquiry n. 38, 3 (Spring 2012), 599-629. Per ulteriori argomentazioni contro la situazione attuale, rimando al mio articolo “Power to the Imagination” in Krisis, special issue “Perspectives for the New University”, 2, 2015, 68-76.

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