Una riflessione sullo sciopero
Sciopero: dal latino exoperare “smettere di lavorare”, der. di opĕra “lavoro”, col pref. ex- denotante cessazione.
È “sciopero” quando si smette l’“opera”, quando si fa un passo indietro e si decide di restare fermi; quando si prendono le distanze dalla sovranità – materiale, psicologica, simbolica – del lavoro.
Si interrompe il lavoro dappertutto, e gli “scioperanti” divengono “scioperati”. In effetti, in francese, “sciopero” è la “grève”: l’etimologia in questo caso indica degli eventi precisi. Nella “nazione più politica d’Europa” (Marx), nel medioevo, fare “grève”, cioè abbandonare l’opera, significa andare sulla Place de Grève (l’attuale place de l’Hôtel de Ville a Parigi) per manifestare e reclamare un altro modo di vivere, sognare, lavorare. Modi di vita che il potere, qualsiasi potere, sia pure quello democratico, non tollera.
Da tempo, su questa piazza politica, luogo del potere, sulle rive della Senna, c’è già un altro popolo, o forse, per meglio dire, una plebe-mondo: qui si riuniscono abitualmente i senza lavoro, i “disoccupati” che cercano un impiego.
“Grève” dunque, a ben vedere, è quando i lavoratori raggiungono i senza lavoro. Ancora più precisamente diremmo che il y a “sciopero” quando i lavoratori e le lavoratrici, rifiutando il loro ruolo e la loro funzione “normali” nella società, affollando la piazza, una piazza pubblica, uscendo dalle officine e dai campi, lasciando i calls center e vicoli oscuri o very open dei loro uffici, defilando, manifestandosi, entrano in un divenire altro da sé che generalmente non gli appartiene. Sospendono il loro ruolo sociale ed evocano un altro mondo nel mondo; i lavoratori diventano altro, diventano come dei disoccupati.
Nella grève, dunque, s’impone una forma di divenire perché gli stessi scioperati si muovono verso i lavoratori. Sciopero è, oltre le paure, un’amicizia fra lavoratori e non lavoratori, fra scioperanti e scioperati, che infrange la separazione concepita dalla logica del Capitale tra esseri umani produttivi ed esseri umani improduttivi. Nessuno fa più niente. I ritmi dei tempi moderni calano, si passeggia per strada, non si corre in ufficio, i negozi sono chiusi o vuoti, i bambini giocano sui marciapiedi la mattina.
Tempi moderni di Chaplin sovverte il cinema, i modi di dire, di vedere e di sentire dell’ordine del discorso costituito. La silhouette di Charlot scompagina la vita in città, nella fabbrica, scompagina le parole e i gesti della vita normale. Inventa, contro il cinema sonoro, un’altra lingua quando Charlot, costretto dalle majors a parlare, canta la sua canzone senza senso in un ristorante.
Tempi moderni prefigura anche un’altra politica. In un momento del film, Charlot, l’ozioso, colui che vagabonda per non lavorare, per restare ai margini della società, afferra una bandiera rossa per strada e si mette alla testa di un corteo di lavoratori. È lo sciopero. È il momento in cui hobos, vagabondi, viandanti, nullafacenti, operai, operaie, impiegati e impiegate si abbracciano per lottare, sulla Place de Grève. Ognuno esce fuori di sé, per abbandonare ogni riguardo verso ciò che siamo ogni giorno: si entra collettivamente, “tous ensemble”, in un’altra dimensione; la sfera della liberazione dal lavoro. Quella del non fare; che significa innanzitutto, vagando per le strade di Francia insieme a nugoli enormi di scioperanti-scioperati, una maniera di lottare.
“Sciopero” è il tentativo di uscire dalla barbarie. Nel disastro in cui siamo, nella fine che viviamo, non-fare è l’unica salvezza: destituire tutto; innanzitutto se stessi. Fermare tutto, abbandonare ogni opera, grande e piccola. Si tratta, scioperando, di disarticolare la logica del capitalismo contemporaneo che impone la diffusione di un benessere dell’opulenza fuori controllo. Per l’animale che si denota per il suo tipo di linguaggio, l’uomo, è chiaro che oggi il telefono cellulare è vitale e necessario. Ma non è necessario averne 10 e tutti di ultima generazione. È chiaro che per il mondo che viviamo oggi muoversi, anche rapidamente e comodamente, fa parte integrante della nostra società. Ma ciò non significa che sia necessario costruire un ponte o un aeroporto o un tunnel destinati a distruggere la terra che abitiamo senza portare nessun vantaggio per la comunità. L’ipertrofia capitalistica contemporanea è quanto di più ostile all’esistenza che si possa immaginare; perché rende tutto quanto ci serve per vivere disgustoso e come una merce da desiderare. Il capitalismo è entrato in una fase di distruzione dell’umanità. Senza scrupoli. Forse qualcuno ne uscirà indenne. Quello che avrà l’aria condizionata tutto il giorno, chi non soffocherà per il caldo a Parigi o a Oslo, chi non brucerà di pene e travagli nelle carrozze di testa del treno veloce dove si rifugerà una disperata umanità, dopo la catastrofe, come accade nel film Snowpiercer di Bong Joon-ho.
Lo “sciopero” è fermare quel treno, come direbbe Walter Benjamin. Interrompere ogni attività; immaginare una nuova forma d’ascesi politica che ci imponga di comportarci come non abbiamo mai fatto: non dovremo più scrivere, parlare, lavorare, sognare come abbiamo fatto sino ad oggi. Entriamo in sciopero.
Chi cerca sviluppi “sostenibili” o “durevoli”, chi vuol far continuare le cose così come sono, chi si affida alle competenze di chi sa sempre tutto, con aggiustamenti e qualche negozio biologico in più e qualche rifiuto in meno, perpetua il massacro di corpi e forme di vite. Chi fa sciopero, invece, vuol far cessare un modello di sviluppo che ogni cosa distrugge e annichilisce. Invece di andare al lavoro e di subire comandi ha la forza di raggiungere quella piazza, sulla Senna per bagnarsi di nuovo un giorno o per baciare il suo amore, come nella celebre foto di Doisneau.
Ogni sciopero è l’occasione per diventare uno scioperato, per andare a pescare, per occuparmi di bambini, per viaggiare, per quanti più mesi e anni possibili. Per dire semplicemente: che si può vivere diversamente da come facciamo ogni giorno. Che si può infrangere sia la solitudine sia la desolazione. Giorni, anni, mesi: tempo, infine, pieno di tempo.
Il popolo che lotta, che sciopera, che interrompe il corso normale delle cose, è una forza che pretende di cambiare tutto e non è disponibile a nessuna forma di negoziazione; per questo motivo si rivolta. Questo demos eccede la democrazia; non è un principio solido, stabile, visibile, un’identità chiara, ma, tutto al contrario, rappresenta una forma di assenza; l’assenza di qualsiasi principio che può essere catalogato, rappresentato, santificato. Non sono solo i sindacalisti che dettano il calendario delle mobilitazioni. Scioperi selvaggi preparano da lungo tempo il terreno dello sciopero generale.
L’insurrezione dei Gilets jaunes continua a bloccare gli incroci delle strade e a inventare nuove comunità, un’esperienza del comunismo mai vista prima, senza capo né coda; gli studenti escono dalle scuole e mettono in discussione l’idea che la scuola oggi debba, come cento anni fa, assomigliare a una caserma dove qualsiasi brandello della vita deve essere setacciato, valutato, controllato. È un popolo multiforme, meticcio che non si lascia ridurre a nessuna rappresentazione, a nessuna forma. Anzi: diserta ogni identità precisa come diserta in questi giorni tutti i luoghi di lavoro qui in Francia; abita le piazze, le strade, trasforma qualsiasi spazio in un luogo inconsueto; lo trovi, forse, dove meno te lo aspetti.
Gli scioperanti/scioperati lottano contro la paura della paura e mostrano, come già i Gilets jaunes avevano rivelato, un coraggio sorprendente e contagioso. Riescono a compiere ciò che un attimo prima sembra impensabile; fanno, cioè, l’impossibile.
Pure di fronte a un attacco poliziesco, giudiziario, mediatico, di una durezza che in Europa non si vedeva da decenni, e cui ci hanno abituato negli ultimi anni soltanto le politiche statuali criminali contro i migranti, i Gilets jaunes un anno fa hanno mostrato che l’impossibile in politica è sempre possibile; che in nome di un’altra esperienza dell’esistenza, chiunque può mettere in gioco la propria vita e, insieme con altri, sconfiggere la desolazione.
Lo sciopero generale è una formidabile strategia tesa a debellare qualsiasi forma di sovranità in nome dell’invenzione di una politica che si lascia qualsiasi paura alle spalle.
La desolazione oggi per noi è il nome del disastro. Che cos’è la desolazione? L’attesa di una trasformazione legata alla sicurezza che il cambiamento non si realizzerà. Ecco dunque, tra le altre cose, che cosa sta accadendo oggi in Francia e che non può essere negoziato: un tentativo di lottare senza smettere di farlo; senza un’organizzazione soffocante, senza parole, con sciami di individui che fluiscono nella città, senza conoscersi, senza bandiere, senza vessilli, alcuni si scontrano, altri sorridono (insomma, l’ingovernabile); si lotta contro la desolazione.
Vediamo esplodere una determinazione improvvisa; un coraggio inatteso. Dall’urgenza di forme di vita che assaporano la catastrofe quotidiana, affiora una passione che non si lascia né raccontare né comprendere.
I Gilets jaunes hanno aperto uno spazio inedito: delicato, pericoloso, d’attraversare. Lo sciopero generale del 5 dicembre 2019 ha varcato questa soglia. Dopo questo giovedì i lavoratori e le lavoratrici continuano a incrociare le braccia, nuove manifestazioni e altri incontri si preparano sulla Place de Grève. Tutti insieme ci assumiamo la responsabilità di chi è violentato a fare violenza ma ha l’intelligenza, probabilmente senza neanche sapere di averla, di non esagerare: è sufficiente svelare che il re è nudo. Almeno per adesso.
Nello sciopero si lotta per il lavoro, per la pensione, ma con Paul Lafargue noi crediamo che si lotti soprattutto per non fare niente. Per la potenza di diventare tutto: il diritto all’ozio; che oggi è il rovescio della medaglia di qualsiasi rivolta. Michel Foucault, a questo proposito, parlava anche di un diritto assoluto alla rivolta.
La posta in gioco dello sciopero generale allora non è altro: bloccare tutto, ogni produzione, ogni fare, per cambiare ogni cosa. Lo sciopero non costituisce mai, in tal senso, soltanto una forma di conflitto meramente economico, come molti vogliono farci credere.
Lo sciopero generale : una sollevazione che ha il carattere dell’esempio politico, del fantasma, di ciò che, revocando ogni normalità, può potenzialmente accadere ovunque. Chi sono i protagonisti di questo sovvertimento dell’ordine? Perché si sollevano? Si potrebbe pensare che individui qualsiasi, apparentemente sottomessi alla cattura del capitalismo globale, in grado di governare persino i nostri desideri più intimi, non hanno né il tempo né l’energia per rivoltarsi. Ma, in realtà, non c’è alcuna contraddizione, perché la causa di questo sciopero generale sta oltre ogni causa sociale, economica, politica che possiamo facilmente immaginare. Naturalmente c’è anche questo, ma pure molto di più che non si trova inscritto nel solco del già conosciuto, ma in uno spettro di ragioni che non hanno una ragione specifica. Piuttosto nel desiderio di infrangere la litania della vittima, nella volontà di abbandonare qualsiasi risentimento e rispondere in maniera inaudita e sorprendente alla violenza in cui siamo immersi quotidianamente.
Lo sciopero è sempre anche (soprattutto) politico. È una strategia del “potere destituente” per prendere congedo dai discorsi, dalla violenza, dallo sfruttamento di chi ha tutto. La vecchia working class incontra in piazza, in questo dicembre francese, maestre di scuola; sulla stessa piazza ci sono studenti e studentesse di liceo delle banlieues e il mondo molteplice e variegato di chi un lavoro fisso non lo conosce e conduce un’esistenza precaria.
Assaporano la città: ne cambiano ritmi, regole e fisionomie dei protagonisti. Com’è bella la città quando c’è lo sciopero: la conosciamo e vediamo come non abbiamo mai fatto prima. Quanta gioia. Si diviene tutti e tutte Antoine Doinel (il protagonista dei 400 colpi… il capolavoro di Truffaut compie sessant’anni), che disertando la scuola, il controllo delle autorità, ogni forma di lavoro e disciplina, si riappropria dello spazio inventando interminabili vie di fuga. Ma in fondo lo aveva già compreso Eisenstein nel suo Sciopero (1924): lo sciopero è il tempo estatico della festa, di un altro tempo del tempo, dei bambini che giocano; è il tempo della rivoluzione. O meglio: il tempo che la immagina, precede ed eccede. Perché se ogni sciopero è una festa, come ci lascia vedere il regista russo, è anche un atto di accusa contro il potere, contro la sua cultura di morte.
Lo sciopero è un “allontamento” da questa esistenza, come direbbe Marcel Duchamp: è la lotta di chi cerca e immagina un’altra esistenza.