Nuove lucciole. Spazi di resistenza culturale

“Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono oggi un ricordo abbastanza straziante del passato)”.

Con questa straordinaria metafora “poetico ecologica”, come l’ha chiamata Didi-Huberman, Pasolini lanciava una delle sue più strazianti denunce. Le lucciole sono scomparse, ovvero: la stessa cultura popolare o d’avanguardia, a cui Pasolini fino a quel momento riconosceva una pratica di resistenza è stata assorbita da una cultura di massa totalizzante. L’intellettuale italiano parla di un vero e proprio “genocidio culturale”, della scomparsa delle condizioni antropologiche di resistenza al potere centralizzato. “Ho visto con i miei occhi – dice Pasolini – il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano fino a una irreversibile degradazione”.

Lette oggi quelle parole sembrano profetiche. I lunghi anni dell’impero berlusconiano hanno portato a compimento una rivoluzione culturale senza precedenti. In questi anni il potere politico si è mostrato in tutta la sua volgarità e brutalità, chiuso nel Palazzo, impegnato in festini a base di “escort”. Intanto fuori dal palazzo dilagavano stereotipia sociale e orge mediatiche fatte di programmi come Uomini e Donne, Il grande fratello, La fattoria, ma anche il TG 1 di Minzolini, Studio Aperto, Lucignolo, gli speciali senza fine su Sarah Scazzi e così via, si potrebbe continuare all’infinito.

In un delirio mediatico di questo tipo, continuo e senza sosta, è difficile non vedere all’opera il neofascismo televisivo di cui parla Pasolini. Un processo di livellamento delle differenze, di appiattimento culturale da cui scaturisce un’adesione completa al potere e ai “regimi di verità” che questo impone.

Giorgio Agamben ne Il Regno e la Gloria costruisce un’analisi ancora più radicale: “oggi la società dello spettacolo è per l’opinione pubblica ciò che l’assoggettamento delle folle è stato per i totalitarismi di ieri”. L’opinione pubblica, per Agamben, non è altro che la forma moderna dell’ “acclamazione”, cioè quel fenomeno culturale che si trova messo in scena in quei filmati dell’istituto luce che rappresentano le folle acclamanti al passaggio del dittatore. Folle assoggettate, prive di qualsiasi capacità di resistere, che nel loro acclamare esprimo un’adesione totale al potere (o sarebbe meglio dire che diventano il potere esse stesse).

I due pensatori non sembrano lasciarci scampo, descrivono uno scenario apocalittico, claustrofobico, uno scenario che ci lascia senza respiro perché non offre vie d’uscita. Questo non significa che le loro descrizioni non siano aderenti al contesto che ci troviamo a vivere: un contesto che è caratterizzato da un potere senza un epicentro preciso, che è ovunque e contemporaneamente da nessuna parte, un potere che assoggetta e soggettivizza. Manca qualcosa però in queste analisi, mancano la “lucciole” o quelle che Gilles Deleuze chiama “linee di fuga”.

I regni, le governamentalità, i regimi di verità e i discorsi dominanti secondo Foucault tendono a opprimere, ad asservire e a controllare i popoli. Ma questa oppressione e questo controllo anche quando sono estremi producono sempre qualche “linea di fuga”, qualche resistenza.

Nel suo Abecedario Gilles Deleuze dichiara che resistere significa creare, e attraverso la creazione liberare la Vita dalle prigioni che l’uomo costruisce: “la filosofia crea dei concetti e quando si crea si resiste. Gli artisti, i registi, i musicisti, i matematici, i filosofi resistono”. Si resiste quindi, anche quando si creano alternative (anche se esclusivamente immaginative) e quando si crea pensiero critico (anche se disorganizzato, liquido, privo di modelli). E si resiste ai percorsi obbligati, alle immagini stereotipate, alle opinioni bieche, ai modelli ai quali bisogna uniformarsi.

Allora le lucciole non sono scomparse. Compaiono all’improvviso, le vediamo per qualche istante, poi svaniscono ed è di nuovo buio, ma rieccole comparire più brillanti di prima quando meno ce lo aspettiamo. Così ecco la luminosità di studenti e precari che scendono in piazza, discutono, si confrontano, creano alternative e costruiscono resistenze. Danno vita a un movimento colorato, giocoso e rabbioso allo stesso tempo. Un movimento è un’esplosione di luce, è uno spazio anomico dai confini liquidi che crea cultura, immaginario e pensiero critico.

C’è poi la luminosa resistenza delle donne che si indignano, protestano, combattono un modello al quale non vogliono essere uniformate. Perché è vero che l’industria culturale si è appropriata dei corpi, del sesso e dell’eros e ha costruito modelli precisi di femminilità che poi ha inserito nei circuiti di consumo. Ma le “figlie delle streghe” non ci stanno, rielaborano il “femminismo storico”, danno vita a cortocircuiti che “aprono il presente sul futuro” e così facendo creano alternative.

Nel buio sconfortante di un presente che ci parla di precarietà (magnifico dispositivo di asservimento e di controllo), di barbarie televisive e di donne mercificate, le lucciole non sono scomparse e continuano a lanciare i loro segnali luminosi. Per vederle bisogna aguzzare la vista, bisogna sapersi guardare intorno: all’inizio del 2010 la rivolta di Rosarno, poi ci sono stati Melfi e Pomigliano, la protesta dei migranti di Castelvolturno, quelli di Brescia che sono saliti su una gru, Terzigno, la rabbia de L’Aquila, gli studenti e i precari in piazza e infine Mirafiori con l’opposizione al modello di crescita indicato da Marchionne.

Sono le “linee di fuga”, i segnali luminosi intermittenti nel buio di un paese che ormai è alle corde.

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