Oltre l’opposizione online/offline.
Ogni fase del fenomeno coronavirus ha i suoi temi e problemi: in primo luogo, si è trattato di affermare o negare l’esistenza del virus stesso o la sua gravità; in un secondo momento è emersa l’esigenza di unità e sono state elogiate le risorse storiche e culturali delle quali il Paese sarebbe provvisto per affrontare la sfida; dopodiché, è stata la volta delle implicazioni ecologiche e ambientali, il fatto che il virus è più feroce nelle aree inquinate e che nelle strade delle nostre città deserte fanno capolino animali del bosco, esotici per qualcuno.
Come se si trattasse dell’upgrade di un software, siamo appena entrati nella “Fase 2.2″: una boccata d’aria e uno spiraglio di sole dopo mesi di isolamento domiciliare. Riaprono i bar, i ristoranti, i parrucchieri, le palestre, le chiese e anche i teatri, i cinema. Manca soltanto una cosa: il mondo della scuola e dell’università.
Due giorni fa, alcuni tra i più importanti intellettuali del Paese hanno dunque pubblicato una lettera aperta sul quotidiano La Stampa, nella quale denunciano la «definitiva e irreversibile liquidazione della scuola nella sua configurazione tradizionale» e ricordano che essa «non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca». Si tratta di un documento importante, che cerca di far valere una serie di istanze già affermatesi nel corso delle ultime settimane. Un testo che addita la noncuranza delle istituzioni politiche e che risponde all’atteggiamento di molte università e altri organismi di istruzione che hanno approfittato della crisi per porre sul piatto l’esigenza di un “aggiornamento” dei processi di insegnamento alle nuove forme di comunicazione, intravedendo nuovi potenziali mercati. Contro il lassismo e il calcolo, chi lavora all’interno della scuola e dell’università deve fare sentire la propria voce, tutelare e manutenere quella cosa preziosa che si chiama insegnamento, in tutte le sue forme, in tutte le sue varianti.
E, tuttavia, nella lettera aperta come in molte altre riflessioni critiche apparse nelle ultime settimane, sembra affermarsi una grande, quanto discutibile, chiave di lettura fondata sull’opposizione tra la “realtà” e “verità” della classe e la “virtualità” e “sudditanza” della didattica a distanza, tra il mondo offline e il mondo online. Tutto questo, come se il semplice valorizzare e rimpiangere la realtà degli incontri dal vivo potesse annichilire le contingenze sanitarie che inducono a ricorrere alle piattaforme digitali. Come se le forme dell’esperienza sociale non fossero comunque esse stesse delle forme di mediazione e come se gli incontri in classe o in ufficio non fossero a loro volta regolati da tutta una serie di protocolli morali, economici e politici che caratterizzano istituzioni e organizzazioni.
In altre parole, opporre l’esperienza immediata della classe a quella mediata della didattica a distanza rischia di far mancare l’aspetto decisivo per la riapertura della scuola e dell’università: che il ritorno in classe sarà possibile soltanto concependo nuove forme di “mediazione” dal vivo tra docenti, studenti e personale tecnico e amministrativo, capaci di garantire la sicurezza e di salvaguardare un’idea della scuola e dell’università.
Nei mesi del coronavirus più che non mai, la nozione di mediazione è emersa nel suo carattere di imprescindibilità, nel suo essere dappertutto e comunque situata. Non si tratta di naturalizzare la mediazione ma di riconoscere che essa stessa è naturale, nel senso che la si ritrova sempre e comunque, nell’incontro con gli altri, nell’incontro col mondo e con noi stessi. Per riprendere quanto scritto da Angela Maiello sulla scorta di Richard Grusin, nel corso delle ultime settimane ci siamo dunque resi conto che il medium del virus siamo noi, che il nostro corpo è un medium e che la vicinanza – il contatto, l’incontro – articola la trasmissione della componente virale.
La necessità di dare luogo a forme di distanziamento deriva precisamente da questo: dal fatto che in un mondo globalizzato, caratterizzato da iperstimolazione delle sensibilità individuali e delle relazioni sociali, il medium non è più tanto un elettrodomestico, ma siamo noi stessi. Restando all’interno del lessico della teoria dei media e delle arti potremmo parlare della stagione che stiamo vivendo come di un momento di “ispessimento delle cornici”. È necessario estenuare i bordi, irruvidire le soglie affinché la performance di mediazione alla quale si prestano gli esseri organici e inorganici possa essere sottoposta a contenimento o moderazione.
Contro ogni semplificazione retorica, il problema della mediazione si pone comunque e ben al di là dell’opposizione tra online e offline, digitale e reale. Torniamo in azienda, e dunque a scuola, all’università. Pensiamo alle diverse tecnologie che stiamo utilizzando o che potremmo utilizzare per ispessire le cornici, per evitare il contagio. Pensiamo prima di tutto ai tanto vituperati schermi (finalmente osservabili nella loro duplice etimologia) attraverso i quali il docente e gli studenti si mostrano proteggendosi, si incontrano distanziandosi.
Ma pensiamo anche, per un attimo, a quel futuro prossimo in cui sarà possibile riconquistare lo spazio della classe, in carne e ossa. Proviamo a immaginare i dispositivi messi in atto per inibire la possibilità di un contagio. Immaginiamo gli accorgimenti logistici corrispondenti alla necessità di un ispessimento delle cornici di mediazione: la misurazione della temperatura prima dell’ingresso all’interno dell’aula, l’utilizzo di mascherine e di guanti in lattice tanto da parte del docente quanto degli studenti, la distanza di almeno un metro tra i corpi presenti nella stanza e dunque la necessità di controllare e sanzionare il mancato rispetto di tali protocolli. Inutile dire che tutto ciò, sebbene offline, impatta fortemente sull’esperienza didattica, su quella forma di incontro che abbiamo naturalizzato nella consuetudine e che amiamo chiamare “lezione dal vivo”.
Pochi giorni fa, Einaudi ha pubblicato la nuova edizione di un libro che ha avuto un importante impatto nel campo della filosofia politica e che trova oggi un rinnovato contesto di leggibilità. Ispirandosi al lessico delle scienze naturali, Immunitas di Roberto Esposito mette in luce la presenza di meccanismi di immunizazzione in ambito sociale e politico: il fatto stesso che, di fronte all’irruzione di una potenziale minaccia esterna, il corpo sociale risponde con strategie che la estromettono o la isolano, la includono in forma escludente. Si tratta di un meccanismo finalizzato a tutelare la tenuta della comunità, ma che rischia al contempo di ritorcersi contro la stessa: come nel caso delle malattie autoimmuni, un eccesso di immunizzazione finisce per attaccare il corpo della società stessa, danneggiandolo e compromettendone tanto la tenuta organica quanto il vitalismo, le potenzialità affermative.
A cavallo tra scienze naturali e scienze sociali, la nozione di immunizzazione sembra oggi più che mai accompagnarsi a quella di mediazione. Immunizzazione biologica e sociale dal virus è infatti il rapporto che intercorre tra la performance di trasmissione del medium – che anche noi siamo – e la funzione di separazione e contenimento svolta dalle cornici, dalle soglie, dalle interfacce e da tutti i dispositivi che configurano i nostri ambienti sociali, indipendentemente dal loro tasso tecnologico.
Proprio in nome di tutto questo, l’opposizione tra la “realtà del mondo offline” e la “virtualità dell’online” rischia di nascondere più di quanto non riveli. Anziché opporre resistenza alle tecnologie che si manifestano in modo esplicito come mediatiche, si tratta di riconoscere la trasversalità della mediazione e lavorare alla tutela della sua qualità politica. Chi lavora nel campo dell’istruzione e della ricerca, così come gli intellettuali, è dunque chiamato a riflettere criticamente e contribuire creativamente al rilancio della scuola e delle attività artistiche e culturali.
In altre parole, un aspetto decisivo per le prossime settimane e per i prossimi mesi sembra essere quello di sperimentare e inventare forme di esperienza, interazione e contatto che rendano possibile il mantenimento del carattere comunitario e affettivo della classe scolastica o universitaria, rilocate sui nostri schermi digitali oppure profondamente trasformate, dal punto di vista spaziale e comportamentale da nuovi dispositivi sanitari. Beninteso, tale militanza critica potrà spingersi finanche al boicottaggio della famigerata app Immuni e dei dispositivi digitali mirati a tracciare i nostri spostamenti e i nostri incontri, ma tale scelta potrà maturare soltanto a partire da un’assunzione consapevole dell’invasività della mediazione e del suo carattere ibrido, digitale e reale al contempo.
A cavallo tra XVIII e XIX secolo, un signore chiamato Ned Ludd dette luogo al primo di una lunga serie di gesti di distruzione di macchinari industriali – perlopiù telai – identificando in questi stessi la causa dello sfruttamento della classe lavoratrice durante la Rivoluzione industriale. Le cause della battaglia politica e sindacale di Ludd sembrano tutt’altro che esaurite e trovano riattivazione in relazione a nuovi scenari storici e tecnologici. Nel frattempo, a emergere sulla scena è tuttavia il paradosso di un “luddismo di destra”, nient’affatto interessato alla distruzione delle macchine per combattere lo sfruttamento, ma mirato a distruggere ogni residuo di techné, a vantaggio della mera accumulazione di risorse.
È forse in questa direzione che occorre comprendere la nozione di “brutalismo”, recentemente introdotta da Achille Mbembe in riferimento all’esperienza del Covid-19 e come chiave di lettura di fenomeni eterogenei: «la deforestazione intensiva, i mega-incendi e la distruzione degli ecosistemi, l’azione dannosa delle aziende che inquinano e distruggono la biodiversità […] tutte quelle vite fatte a pezzi da muri e altre tecnologie di instaurazione del confine, siano essi gli innumerevoli checkpoint che punteggiano molti territori o i mari, gli oceani, i deserti e tutto il resto».
Il brutalismo si articola aggredendo tecnologie vecchie e nuove, dal vivo o in remoto. È dunque a partire dal riconoscimento delle variegate forme di mediazione che disegnano i nostri ambienti e l’ambiente naturale stesso che diventa possibile orientarsi nello scenario emergenziale, spingendo verso l’uscita e sperimentando la possibilità di un rinnovamento.
Pensando alla scuola, all’università, allo spazio pubblico, la scommessa è quella di investire sulla qualità delle mediazioni nelle quali siamo presi e che, a nostra volta, articoliamo; riflettere e additare gli accenni di deriva immunitaria dello spazio sociale e riflettere criticamente sulle forme di ispessimento delle superfici di contatto, sul deterioramento delle cornici che separano e uniscono spazi, corpi, tempi.