Il vaso di Pandora

Il mito del Sistema Sanitario Nazionale italiano alla prova del Covid19

covid disuguaglianze

 

E altri mali, infiniti, vanno errando fra gli uomini

(Esiodo, Le Opere e i Giorni)

 

 

Si dice che il Sistema Sanitario Nazionale italiano sia uno dei migliori al mondo: universale, gratuito e di alto livello. Il rapporto dell’OCSE del 2018 lo vede nella parte più alta della classifica dei Sistemi Sanitari, al quarto posto per longevità dopo Giappone, Svizzera e Spagna, e con uno dei più bassi tassi di mortalità.

Con un punto di forza: assicurare a tutti la stessa avanzata, internazionalmente riconosciuta, qualità delle cure.

Non sorprende, se si considera che era pensato come “uno strumento politico verso una maggiore democrazia”: lo definiva così Alessandro Seppilli, uno dei padri della legge che l’avrebbe fatto nascere.

La pandemia COVID-19 ha minato questo mito di efficienza e uguaglianza, sottoponendo il nostro SSN a uno stress immaginabile solo con una esuberante immaginazione, e facendo emergere le (tante) ombre che hanno in parte oscurato le (chiarissime) luci di cui la nostra Sanità può farsi vanto.

Prima ombra fra tutte: la sempre maggiore emarginazione di parti importanti della popolazione, come donne e migranti.

Quanto influiscano sulla mortalità le ampie disparità nell’accesso alle cure e i cosiddetti determinanti sociali è molto evidente in sistemi diversi da quello italiano: negli Stati Uniti, le note disuguaglianze strutturali nel sistema sanitario e nella società sono state più che amplificate dall’emergenza. Secondo i dati della Johns Hopkins University e dell’American Community Survey, il tasso di infezione per le contee a predominanza di popolazione di colore è più di tre volte superiore a quello delle contee a predominanza bianca, e il tasso di mortalità è addirittura sei volte superiore.

Ma anche Paesi con un Sistema Sanitario più comparabile al nostro, come la Francia, mostrano come questa epidemia non colpisca tutti allo stesso modo, affatto: la concentrazione dei decessi e dei casi di infezione nella Seine-Saint-Denis, uno dei dipartimenti più poveri della Francia, è significativa.

E in Italia?

A prima vista, complice la mancanza di dati adeguati, sembrava che l’infezione si fosse diffusa in modo trasversale, fra l’altro nelle regioni più ricche: Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna, Lombardia.

Uno sguardo superficiale negli ospedali avrebbe potuto dare la stessa impressione: nei reparti isolati di un grosso ospedale di Milano troviamo fianco a fianco l’imprenditore e l’ospite del dormitorio, la sciura del centro e la badante che abita in periferia.

Perfino reali autorità cliniche si sono lanciate ad affermare: gli stranieri non si ammalano di COVID.

Giovane età, resistenza genetica, influenza della vaccinazione per la tubercolosi: sono state tantissime le ragioni immaginate – e immaginarie.

Qui si capisce l’importanza di un’accurata raccolta dei dati epidemiologici: se analizziamo meglio i numeri, la prospettiva cambia, eccome.

Il bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) pubblicato il 28 aprile 2020 riporta che i casi, tra la popolazione straniera residente, sono stati 6.395, pari al 5,1% del totale nazionale. Un numero in linea, se non inferiore, con la percentuale di residenti stranieri rispetto alla popolazione italiana, che nel 2019 era 8,7% (dati ISTAT). La distribuzione dei casi stranieri classificati secondo l’Indice di Sviluppo Umano (HDI) dei Paesi di origine mostra che la maggior parte proviene da Paesi con HDI medio (57,5%), principalmente dagli stati dell’America Latina e dell’Est Europa non appartenenti all’Unione Europea. Anche questo, dato allineato con le percentuali di residenti stranieri nelle regioni più colpite.

L’analisi mostra però due grandi differenze tra la popolazione italiana e quella straniera. Innanzitutto, è diversa la struttura demografica. I casi stranieri sono più frequentemente di sesso femminile (56,4% vs 50,8%) e hanno un’età mediana molto più bassa (46 anni, con un range che varia tra i 37 e i 55) rispetto a quella italiana (64 anni; range 54-80). In secondo luogo, varia anche la distribuzione geografica, mostrando una maggiore concentrazione di casi stranieri nelle aree urbane (52,1% vs 31,0%).

È evidente come le persone più vulnerabili siano quelle che già vivono in condizioni di fragilità: donne straniere in età lavorativa, concentrate in grandi aree urbane.

Questo segmento rappresenta gran parte dei lavoratori essenziali: badanti, dipendenti della grande distribuzione, operatori della cura. Lavori a basso salario e ad alto rischio: impossibili da svolgere a distanza, gravati dalla scomparsa sul mercato dei dispositivi di protezione individuale.

Ma è la curva dei contagi a essere più preoccupante: quella dei residenti stranieri è uguale a quella dei contagi italiani, ma con uno sfasamento di circa due settimane.

Ciò sta a significare (come ipotizzato dallo stesso Istituto Superiore di Sanità), con buona probabilità, che i residenti stranieri contagiati ci abbiano messo più tempo rispetto ai casi italiani ad avere una diagnosi.

Per i medici che lavorano negli ospedali colpiti dall’epidemia è stata una delle poche cose subito chiare: una diagnosi tardiva porta a un maggiore bisogno di intubazione e di cure intensive, e a una prognosi peggiore.

Ma perché una diagnosi così ritardata? Perché, per prima cosa, è necessario lavorare. C’è qualcosa che fa più paura del virus: perdere il lavoro, non riuscire a pagare l’affitto, o semplicemente mangiare.

Le donne, inoltre, hanno anche l’onere dei lavori domestici e della cura della famiglia: se si ammala la mamma, dove rimangono i bambini? Se non c’è la figlia, chi si occupa degli anziani?

La quarantena, poi, necessita di una stanza tutta per sé, non per scriverci, ma per viverci – non sono molti i nuclei famigliari che si possono permettere una camera a testa.

Ciò riflette anche un aspetto evidenziato dalla FNOMCEO (Federazione Nazionale Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri): l’indebolimento – e la conseguente, inevitabile, diminuzione dell’efficienza – della medicina primaria, prima porta d’accesso al sistema sanitario e, spesso, ai servizi pubblici di base.

La differenza tra i nostri medici di Medicina Generale (lasciati ad affrontare COVID-19 e 1500 pazienti a testa con una mascherina e due paia di guanti) e il Dr. Checov a Melinchovo (a confrontarsi, unico medico per 25 villaggi dispersi nella steppa, con il colera esclusivamente con dei clisteri) non è tanto grande – non fossero passati più di 100 anni e infiniti discorsi sulla Sanità Pubblica.

L’accesso alle cure primarie è anche il primo momento in cui diventa visibile che la sanità è solo uno spazio clinico ma anche sociale, dove si negoziano delle fortissime differenze di potere: per la popolazione migrante in Italia, anche per quella regolare, sono infinite le barriere formali (amministrative) e informali (linguistiche, culturali, psicologiche) all’accesso ai servizi sanitari di base, in particolare per le donne.

E quindi, di barriera in barriera, sarà il Pronto Soccorso a essere individuato come l’unico punto accessibile per le cure – ma sappiamo che è stato anche, nel momento della pandemia, uno dei luoghi di più rapido contagio – dove si va solo quando la situazione è ormai davvero insostenibile – e questo può essere fatale.

C’è quindi una predisposizione sociale all’esposizione al coronavirus, a cui si associa una maggiore incidenza di quelle comorbilità che alimentano le complicazioni – ipertensione, diabete, obesità, malattie cardiovascolari, patologie irrimediabilmente legate, per una grande parte, alle condizioni di vita.

Basta guardare la mappa dei contagi della città di Milano, con quel suo centro bianco e le zone rosse nelle periferie a Est più vicine ai primi focolai, e più densamente popolate – Affori, Niguarda, Quarto Oggiaro –: una fotografia, anche se non esaustiva, della demografia ineguale della malattia.

Non stiamo parlando di situazione nuove.

Nel 2019 l’ISTAT ha redatto “L’atlante italiano delle disuguaglianze di mortalità per livello di istruzione”. Quella che scopriamo nell’Atlante è che negli anni, invece di diminuire, il solco delle disuguaglianze sanitarie si è ampliato, tanto da causare differenze di aspettativa di vita fino a 3 anni. Le cause sono ben note: i tagli ai finanziamenti per la sanità pubblica e la tendenza, crescente, alla privatizzazione.

Le ragioni di questo fenomeno, e dei dati analizzati del rapporto dell’ISS, sono molteplici: in primo luogo, il sistema sanitario, da solo, è spesso incapace di ridurre le disuguaglianze sanitarie che nascono a causa del lavoro, dell’alloggio, del reddito e delle condizioni di vita generali. Secondo, ma non meno importante, il sistema sanitario stesso a generarle, queste disuguaglianze, attraverso un accesso più difficile o di qualità inferiore per alcuni. Si crea un circolo vizioso: la sensazione di venire curati meno e curati peggio diminuirà la fiducia nel Servizio Sanitario Nazionale (e, per esteso, nello Stato) in soggetti che già normalmente lo Stato stesso marginalizza.

L’impatto sanitario e sociale della pandemia COVID-19 sarà tutt’altro che limitato alle cifre del bollettino settimanale dell’ISS, che non comprende tutte quelle malattie e situazioni da “indotto del virus” che dovranno essere misurate nel tempo.

Se non ci chiediamo ora le domande giuste (qual è l’impatto psicologico? Cosa ne sarà di chi torna a casa dall’ospedale e una casa non ce l’ha più? Come saranno gli esiti e i reliquati fisici? Come seguiamo il contagio? e così via), non saremo preparati per il futuro, e, soprattutto, avremo leso i principi alla base del nostro Sistema Sanitario. Perché se il compito della sanità pubblica è quello di promuovere tutto ciò che possa garantire un prolungamento o un miglioramento dell’esistenza fisica (e di conseguenza psichica) di tutti i cittadini, in Italia, a 40 anni dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, questo obiettivo non è stato ancora raggiunto, o almeno non è stato raggiunto per tutti.

Quello delle disuguaglianze, nella società e nella sanità, è uno dei grandi vasi di Pandora italiani: se i principi del Servizio Sanitario Nazionale ci fanno pensare che l’epidemia di COVID-19 l’abbia riaperto violentemente, in realtà – forse – dobbiamo chiederci se sia mai stato davvero chiuso.

 

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