Rilocazione obbligata

Ozio e lavoro nei giorni del Coronavirus.

Sono passate due settimane dalla chiusura delle scuole in Lombardia e nel Veneto e alcuni giorni dall’estensione di tale provvedimento a tutta Italia. Sabato sera sono state farraginosamente emanate nuove misure mirate a definire le aree particolarmente a rischio per poi dichiarare l’intero Paese una grande “zona protetta”. Intanto, le città sono sempre più deserte, i bar e i ristoranti vuoti, senza turisti e con pochi avventori. Al cinema e al teatro è proibito andare. I musei sono chiusi. Eppure, il principale effetto sulla mia vita delle misure intraprese dal Governo presieduto da Giuseppe Conte per combattere il Coronavirus coincide con un’intensificazione delle mie performance spettatoriali.

Il termine che mi sembra descrivere meglio questa strana situazione proviene dagli studi sul cinema e i media: si tratta di “rilocazione” e mi pare in questo caso una rilocazione obbligata. Francesco Casetti ha sviluppato questa nozione per analizzare il «processo grazie cui un’esperienza mediale, in generale si riattiva e si ripropone altrove rispetto a dove si è formata, con altri dispositivi e in altri ambienti». Attraverso l’idea di “rilocazione” è stato possibile indagare le forme di persistenza e trasformazione dell’esperienza cinematografica nell’epoca dei nuovi media, così come riflettere sulla condizione di portabilità che caratterizza le tecnologie contemporanee. Parlare del quotidiano nel momento di punta del Coronavirus come di una rilocazione (più o meno) obbligata significa dunque fare attenzione allo specifico rapporto che, in questi giorni, intratteniamo con i media e, più in generale, alle trasformazioni riguardanti l’idea stessa di mediazione.

Prima di tutto le serie tv e i film in streaming, ed è banale constatare che in caso di chiusura degli spettacoli pubblici, in contingenze di quasi-isolamento, cresce il desiderio di farsi guidare da un racconto per immagini capace di portarci in un altrove senza muoverci dal divano di casa. Ma la questione non finisce qua. Se davanti allo schermo del computer passo le giornate già da tempo e se frequento abitualmente piattaforme come Sky o Netflix, devo ammettere che adesso – da poco meno di una settimana – accendo pure la TV generalista, talvolta anche al mattino, e la lascio accesa. La lascio accesa come se costituisse un modo per connettermi con quel fuori al quale non accedo o non accedo come prima dell’allarme Coronavirus. Più del computer, più di internet, la televisione accesa sopperisce nella mia testa al venire meno o al ridimensionarsi dell’esperienza quotidiana del bar, dell’incontro estemporaneo con un conoscente, del casino sulla piazza o lungo la strada. Anche in questo caso, mi piace pensare che si tratti di una rimediazione e rilocazione: del rumore e del fastidio, di tutto ciò che di affaticante, ingombrante, triviale comporta l’uscire e frequentare lo spazio pubblico. Con la televisione accesa, me lo porto a casa.

Ma la vita di questi giorni non è fatta soltanto di passatempi rimediati o svaghi rilocati. Chi lavora in azienda sperimenta, magari per la prima e non ultima volta, il telelavoro. Quelli che insegnano a scuola e all’università, fanno i conti con il fantasma delle lezioni online. Ogni giorno, si attendono chiarimenti sulle modalità di svolgimento della didattica a distanza. Nei messaggi inviati da responsabili e dirigenti scolastici e universitari, si parla dello svolgimento dei corsi online come di un disagio ma anche di un’occasione per sperimentare tecnologie che avremmo già dovuto conoscere e che potrebbero aprire nuove strade per l’insegnamento nel prossimo futuro. In molti Paesi tutto questo è già norma: negli USA e in UK non è per niente raro tenere e ricevere corsi a distanza. Allo stesso modo, anche in Italia, sono in molti a lavorare da casa per conto della propria azienda o per conto terzi, in condizioni di precarietà generalizzata. Da tale punto di vista, uno degli effetti politici del Coronavirus è quello di esporre tutti quanti alle modalità di lavoro e interazione che già riguardano molte figure professionali.

Ecco allora che anch’io mi registro su nuovi siti, cerco di migliorare le slide della lezione (adesso quanto mai fondamentali), cerco su Youtube le istruzioni per gestire al meglio software dai nomi mai sentiti prima: Google Classroom, Microsoft Teams, Skype for Business… Ma quando i corsi online iniziano davvero, è impossibile non avvertire i paradossi della rilocazione obbligata. Sono nel salotto di casa e davanti a me, sullo schermo, ci sono decine di studenti, ognuno nella propria casa, ma non li vedo in faccia, solo le iniziali del Nome e Cognome. Nel corso di cinema e media gli parlo dell’11 settembre 2001 come momento di svolta nella cultura visuale contemporanea; nel laboratorio artistico facciamo un’analisi di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, propedeutica al lavoro interpretativo e creativo sul film. Per un attimo, trattando di intermedialità in diretta su Microsoft Teams, ho il terrore della mise en abyme, come il personaggio di Lila Crane che si spaventa di fronte alla sua immagine allo specchio, in una delle sequenze finali del film.

Ma eccoci qua: lo spazio pubblico è inagibile e ci siamo ritrovati sullo schermo. Proviamo ad adattarci, a tradurre (in modo quanto mai imperfetto) le coordinate ambientali della nostra classe con questo spazio online. Forse, mi dico, sarebbe bello approfittare del passaggio al digitale per estendere i confini della classe, aprire i corsi e l’università tutta a chiunque – in queste “giornate particolari” – abbia voglia di seguire una lezione, anche solo una tantum. Ma per adesso non è così e, almeno nella grande maggioranza dei casi, i corsi online si svolgono a porte chiuse.

Come scrive Jack Torrance, bloccato da settimane dentro all’Overlook Hotel di Shining, “All work and no play makes jack a dull boy”. Un po’ come lui, abbiamo voglia di uscire, che il virus passi in fretta con il minore danno possibile. Ma, a ben vedere, proprio i termini “work” e “play” dicono molto della situazione in cui ci troviamo. Alla rilocazione obbligata dell’intrattenimento pubblico nelle nostre abitazioni corrisponde infatti un’assunzione della sfera lavorativa all’interno del privato e per il privato degli studenti, reso a sua volta possibile attraverso schermi e tecnologie che ricostituiscono virtualmente l’ambiente intersoggettivo.

Se lo schermo del mio computer e quello della televisione sono diventati l’interfaccia dei rapporti professionali e sociali è perché la rilocazione obbligata afferra in un’unica presa ozio e lavoro: da un lato garantendo una domesticizzazione dell’intrattenimento e dall’altro operando una gamificazione del lavorativo. All’interno di tale processo, il rapporto tra queste sfere deve essere ripensato come una tendenziale sovrapposizione e ibridazione, non priva di costi in termini estetici, sociali e politici.

Se tutto questo accade è perché i concetti di rilocazione e (ri)mediazione non riguardano ormai soltanto chi si occupa di cinema e media, ma identificano pratiche sociali e politiche di ognuno di noi, in contingenze emergenziali come nella routine del quotidiano. Da cui la necessità di assumere consapevolezza delle implicazioni politiche delle metafore spaziali e geografiche – da “diffusione” a “convergenza”, da “trasmigrazione” a “rilocazione” – che da anni utilizziamo nell’ambito della teoria dei media.

Nel frattempo, una domanda affiora alla mente in questi giorni di rilocazione obbligata: e se la chiusura delle sale cinematografiche (annunciata da anni e sempre posticipata) non fosse nient’altro che un presagio, la sirena d’allarme, dell’affermazione totalizzante del telelavoro?

Print Friendly, PDF & Email
Close