Il lavoro è felicità ma non il contrario

Una riflessione di Giacomo Giossi sul lavoro e sul valore della felicità nella nostra contemporaneità.

Manca poco al primo maggio 2016 e l’Italia, secondo la politica istituzionale, si trova ad aver superato lo stato d’emergenza che aveva segnato gli anni scorsi: quelli tragici del governo Monti, del governo Letta e per certi versi del primo anno del governo Renzi. L’Italia dunque si trova in una condizione di ritrovata serenità? Di rigogliosa crescita e in uno stato di ritrovata fiducia? No, tutt’altro, quella che si è esaurita è l’emergenza, non i drammatici problemi legati a sfiducia, crescita e disoccupazione.

Quello che il governo Renzi ha esaurito è la funzione tutto sommato catartica della crisi. Renzi aveva promesso un cambio di passo, una svolta, e questa promessa è stata sufficiente ad esaurire la funzione della crisi per aprire un orizzonte ampio, ampissimo in cui ora tutto assume nomi nuovi, possibilità inedite, ma anche paure e angosce non più riducibili all’interno dello spazio discorsivo della crisi.

La crisi dunque non esiste più, le colpe non appartengono più al sistema, ma ai singoli, almeno fino a quando le politiche che si basano retoricamente sulla meritocrazia e la competizione si rivolgono a cittadini i cui diritti sono in via di consumo. Utente è la parola chiave ossia quella che meglio definisce, nella sua singolarità, l’azione del cittadino che tutto consuma, anche e prima di tutto se stesso.

Chi festeggerà il primo maggio lo farà dunque all’interno di uno spazio psichico privo di comunità: se da un lato abbiamo la coesione lacerata e comunque fortemente limitata dei sindacati, dall’altro c’è chi si ritrova in ambiti affettivi sinceri in cui la comunità e le relazioni si alimentano di coesioni forti, ma in chiusura, in difesa e non in apertura rispetto al mondo e alle sue opportunità di vita e di esperienza.

«Il futuro non è più quello di una volta», scriveva Valéry, perché fa paura e questo principalmente perché il lavoro non è più un oggetto fisico e stabile, capace di accompagnare la vita delle persone, magari riducendone la creatività, restringendone drammaticamente gli orizzonti, ma di certo proponendo una prospettiva, una direzione che seppur deprimente almeno era una certezza. Ora, non si vuole certo cantare l’elogio del posto fisso, meccanico e alienante così come del posto sempre garantito ad ogni prezzo e senza uno sguardo sulla sua efficacia e necessità. È centrale invece recuperare da quel mondo quel sentimento che, nonostante tutti i limiti appena descritti, definiva un sentimento che potremmo dire di felicità.

In quella che oggi viene definita infatti jobless society il lavoro è principalmente un’azione creativa e come tale intangibile, priva di forma (spesso anche di contenuto) e priva di sostanza, un’azione i cui effetti non possono essere del tutto controllati e definiti, ma che ha certamente un ritmo, un’onda precisa dentro la quale è possibile navigare mitigando ansie e apprensioni.

L’angoscia legata alla mancanza di lavoro oggi sopravvive all’interno di uno stretto canale in cui gli strumenti culturali sono ancora fortemente novecenteschi mentre il futuro che abbiamo davanti ai nostri occhi è ormai di tutt’altra natura, seppur difficile da percepire. Se lo spazio è infinito l’unica possibilità è dunque ridurre lo sguardo alle nanoparticelle della nostra quotidianità, ad un futuro immediato. Quello che è necessario vedere è la contemporaneità.

Il contemporaneo è il nostro intangibile quotidiano, è lo spazio vitale dentro al quale è possibile ridurre le paure tramutandole in azione positiva, in un rilancio continuo che sia un fare creativo e quindi liberatorio.

Per fare ciò, o meglio per viverlo, l’aspetto emotivo è sicuramente centrale, ma lo è ancor di più per rivedere gli strumenti economici che misurano l’efficacia economica delle società, altrimenti il risultato è una turbo competizione in cui a vincere non è il migliore ma il più forte in un ambito in cui la forza non è la variabile più efficace, né tanto meno la più necessaria.

L’economia, ci ricorda Leonardo Becchetti con Capire l’economia in sette passi (Minimum Fax, 2016), è una scienza inesatta, capirla significa metterla continuamente alla prova, darle l’occasione di misurare non tanto la crescita, il reddito o la ricchezza, ma la felicità delle persone e per fare questo è necessario restituire l’impianto normativo a un discorso di senso che parte dall’umano e non da categorie che nulla c’entrano con un sentimento di relazione. Becchetti non è un visionario o un’utopista, è un uomo pragmatico che con chiarezza espone i limiti di logiche vecchie e da abbandonare. Solo la felicità può essere rigenerativa di creatività, bellezza e soprattutto visionaria, capace cioè di creare quel valore aggiunto a cui l’intangibile ci richiama oggi. Un libro necessario, intelligente che forse anche Matteo Renzi dovrebbe leggere e che invece non compare in quelle foto che generosamente il fedele Filippo Sensi ci propina e che più che letture appaiono come il compulsivo consumo chimico di caramelle colorate tipico di certi adolescenti sotto esame. Gli esami non finiscono mai, invece no, gli esami sono finiti: cerchiamo la felicità, non abbiamo altro.

Print Friendly, PDF & Email
Close