Dentro la fornace

Tra i più bei romanzi di Thomas Bernhard, “La fornace” è ancora oggi fuori stampa. Qui di seguito la recensione di Luigi Loi, un invito rivolto ai lettori a tornare al romanzo e agli editori a ristamparlo.  

Alcuni romanzi sono un dono, sono una riscoperta della propria lingua e delle sue logiche più intime e primitive, ma sono anche un invito esplicito a perdersi in una nuova: Das Kalkwerk, o La fornace è uno dei lasciapassare più minacciosi e suggestivi che il tedesco letterario del Novecento abbia mai elargito a chi ama leggere. La storia è semplice, perché per Bernhard i meccanismi narrativi erano soprattutto quelli linguistici: nella notte della vigilia di Natale un’anziana signora paralitica viene trovata uccisa da un colpo di fucile. Subito dopo, però, la polizia scopre il marito Konrad tutto infreddolito «nel pozzo di liquame asciutto e congelato dietro alla fornace». Il marito è subito identificato senza difficoltà come l’assassino della signora Konrad.

Non faccio torto a nessun lettore perché siamo appena a pagina cinque e il plot de La fornace è già bello che concluso. Il romanzo per le successive duecento pagine narra gli antecedenti e i motivi del gesto di Konrad. Bernhard chiede tantissimo al suo lettore in ogni suo libro. Ma la fiducia è sempre ben riposta. Mortifica sistematicamente gli ariosi intrecci del romanzo psicologico, dei robusti Tolstoj, Dostoevskij e Dickens per intenderci. Riesce però a sorreggere l’impianto narrativo con la sola forza della lingua. Quello che può sembrare un difetto è un dono, perché in queste opere si scopre l’essenziale potenza del romanzo: la parola nuda. E con l’ambizione dei folli Bernhard sposta il focus narrativo ancora più in profondità martellando sopra le regole del mito e del romanzo.

L’eroe, quello del mito e del romanzo, torna dal suo viaggio con il cosiddetto elisir: riporta con sé una nuova maturità raggiunta e ne fa dono o ammonimento per i suoi vicini. Così accade ad Ulisse, così a Pëtr Bezuchov di Guerra e Pace, a Raskolnikov in Delitto e castigo, a David Copperfield. Gli eroi dei romanzi di Bernhard non riportano dal proprio viaggio nessun elisir: non lo fa Rudolf, protagonista del romanzo Cemento, Roithamer in Correzione, Sarau in Perturbamento, e naturalmente Konrad in La fornace. Se il male era prima di tutto un problema teologico, nei secoli è diventato problema filosofico, poi storico e giuridico. Se Hannah Arendt ha illustrato la banalità del male, Thomas Bernhard ha fatto di peggio: ha dimostrato la sua meccanica sistematicità che tutto digerisce senza clamore, il vivo e l’inanimato.

Storia di un furto

Questa è anche la cronaca dell’amore non corrisposto che nutro per il tedesco. Una brutta ossessione che ha come numi tutelari le prime due traduttrici di Bernhard: Renata Colorni e Magda Olivetti. Bernhard ha scritto per quasi trentacinque anni in un tedesco – dicono le due – fatto di ripetizioni, strappi sintattici e con paratattiche a grappolo, solo per dar voce a un pensiero logico (la meccanica di cui sopra) tutto sbilanciato sul suono e sulle singole parole. Questo specifico tedesco letterario smonta la sintassi e passa sotto la lente d’ingrandimento ogni singolo lemma. Eccone un esempio da La fornace:

Lui odiava la sola parola funzionario, nulla odiava più profondamente della parola funzionario che gli ripugnava soltanto a sentirla pronunciare, ma a dire il vero – avrebbe detto Konrad – dato che odiava gli uomini era naturale che odiasse anche i funzionari, tanto più che oggi ogni uomo è funzionario, tutti sono funzionari, tutti funzionano, non ci sono più uomini ormai.

La resa in italiano di questo particolarissimo tono è stato dato in questo caso dalla Olivetti e negli altri romanzi dalla Colorni. Gli altri traduttori hanno seguito questa pista già tracciata.

Così come è accaduto per il binomio Sellerio/Roberto Bolaño, Adelphi ha guardato al catalogo Einaudi e ha riportato in questi ultimi anni nelle librerie tantissimi titoli dell’autore austriaco, tutti tranne La fornace, almeno fino a oggi. Mi sono imbattuto nella Fornace nel 2008, dopo averne letto in un saggio su La malattia dell’infinito di Pietro Citati. La mia ricerca di questo romanzo è durata almeno tre anni. Il colophon del volume (che fotocopiai, in tempestate securitas) e che ora sto leggendo recita: «finito di stampare il 22 settembre 1984 per conto della Giulio Einaudi editore». Al momento il romanzo non è reperibile né su Amazon, né su Maremagnum, né su altri store di riferimento. Ho un’unica certezza: questo libro a Roma è stato preso in prestito trentacinque volte (una media di tre lettori l’anno), dal giugno 1985 fino al maggio 2012, data in cui ho ritirato da una biblioteca l’unica copia fisica presente nel circuito Opac capitolino. Le mie fotocopie de La fornace, ormai lacere, sono l’unica testimonianza che questo romanzo è passato per Roma facendosi leggere trentacinque volte: oggi alla biblioteca dove lo presi in prestito mi dicono: «l’hanno rubato».

L’udito

Parafrasando Cormac McCarthy, queste duecentoundici pagine tradotte da Magda Olivetti hanno attraversato il fragore di ventotto anni per giungere fino a me. Tuttavia comprendo il gesto di chi ha rubato un romanzo intossicante come La fornace: il suo furto non sarà stato frutto di un calcolo o di una premeditazione, ma il risultato di affinità elettive che del resto non si possono spiegare se non nelle forme patologiche proprie dell’ossessione. Konrad stesso, protagonista in prima e in terza persona, voce monologante e dialogante con i modi abituali della narrativa di Bernhard, espone la storia del proprio universo concentrazionario nella vecchia fornace, dove si reclude per poter scrivere in tutta comodità un saggio sull’udito, una vera e propria ossessione filosofica, che da tempo ha «bell’e pronto nella testa» ma che non riuscirà mai a scrivere. La scelta della fornace, una casa/prigione, è illustrazione di tutta la tragica comicità dell’uomo che non ha forza di sottrarsi alla meccanica del male:

È proprio l’assenza quasi assoluta di rumori nella fornace che acuisce straordinariamente un udito, come il suo, già finissimo. Tutto ciò che si sente come tutto ciò che non si sente nella fornace serve ad affinare l’udito. Questo stato di cose – com’è naturale – era vantaggioso per il saggio che non a caso trattava dell’udito e che dopotutto s’intitolava “L’Udito”.

Il mondo descritto da questo romanzo è apparentemente circoscritto alle pareti di una casa, ma è universalmente noto all’uomo perché è l’orizzonte più realistico che possa mai conoscere, intossicante fino all’ottusità e poetico a tratti, sempre che s’intenda la poesia come follia. In quest’opera meglio che altrove Thomas Bernhard aiutato dalla sua rintronante musicalità, e dalla voce di Konrad, riesce a dare una rotondità alla propria poetica: la parola non è uno strumento di comunicazione ma il mezzo imperfetto su cui viaggiano i fraintendimenti e le ambizioni frustrate:

Nulla è più deprimente del non riuscire a realizzare un’opera di scienza e di fantasia già perfetta nel suo cervello, nonostante il coraggio e una determinazione senza pari e infine nemmeno con tutta la sua audacia intellettuale, mettendola su carta in forma definitiva anche a beneficio del prossimo dei dotti e della posterità […] gli mancava invece la qualità essenziale: non aver paura di realizzare, di portare a compimento un’opera, non aver semplicemente paura di afferrare la propria testa, con gesto fulmineo e spietato, e ribaltarla, rovesciandone il saggio sulla carta.

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