Giovanni Spampinato: nel tunnel

Il 27 ottobre 2012 ricorrerà il quarantesimo anniversario della morte di Giovanni Spampinato, un giornalista che pagò con la vita la sua passione per la verità. Ucciso perché svolgeva al meglio il suo mestiere: informare. A distanza di quarant’anni, Vincenzo Cascone e Danilo Schininà (Extempora/TeatroAmargine) stanno cercano di raccontare nel docufilm L’ora di Spampinato questa vicenda e di ricostruire le verità storiche avvicinate dal giornalista ragusano.

Giuseppe Casarrubea [1]



La notte del 27 ottobre 1972, un giovane della Ragusa che conta, uccide con parecchi colpi di pistola, Giovanni Spampinato, giornalista del quotidiano della sera “L’Ora”. L’assassino si chiama Roberto Campria, 31 anni, “rampollo debole e viziato” di un magistrato. Ha alle spalle una vita tutt’altro che tranquilla. È sospettato, di avere freddato, il 25 febbraio di quell’anno, con un colpo di pistola alla fronte, un suo amico, l’ingegnere Angelo Tumino.

Giovanni ha 26 anni e appartiene ad una famiglia di onesti lavoratori. Il padre, Giuseppe, era stato un partigiano nella Jugoslavia del maresciallo Tito e aveva combattuto contro l’invasione nazifascista, dalla stessa parte dell’Osvobodilna Fronta, meritandosi il riconoscimento di “eroe della rivoluzione” da parte di quella Repubblica socialista.

Il delitto Tumino segna una svolta nella vita professionale e nella vicenda personale di Giovanni. L’ingegnere non è quell’uomo normale, magari troppo intraprendente come imprenditore e uomo di destra, che tutti immaginano. È un personaggio multiforme. La scoperta delle sue passioni per l’attività del commercio in oggetti di antiquariato ne fa un uomo molto ricercato da certi autorevoli personaggi. Non solo nostrani. La sua morte segna a Ragusa la rottura di una lunga pax sociale che dura da un quarto di secolo e suscita interrogativi, specialmente in riferimento a certi ambienti del neofascismo, a strani traffici di armi e droga, a non meglio precisate manovre “di agenti del regime fascista greco dei colonnelli”, alla segnalazione della presenza di campi di addestramento paramilitare “mascherati da corsi per appassionati di archeologia”.

Giovanni si era già occupato di neofascismo nella sua provincia, che tutti ritenevano una città capoluogo tra le più ‘babbe’ (senza mafia) della Sicilia. Torna ad occuparsene il 6 marzo ’72, sull’onda di quel delitto che gli pone grossi interrogativi. La sua attenzione si fa scrupolosa, certosina. Nulla può essere ovvio in quella realtà che sembra assopita. Giovanni registra così la presenza a Ragusa di Stefano Delle Chiaie; pubblica un ampio rapporto sullo squadrismo in questa città e a Siracusa. L’8 marzo sul “L’Ora” scrive:

Come ricercato Stefano Delle Chiaie dovrebbe essere un nome scritto a chiare lettere nel ‘calepino’ dei poliziotti – in specie di quelli della ‘politica’ – e la sua foto segnaletica dovrebbe campeggiare in tutte le questure del territorio nazionale; invece a Ragusa il maresciallo Minniti non sapeva nemmeno chi fosse e, per istinto, ha chiesto se si trattasse di un anarchico. […] Negli ultimi due mesi, al Mediterraneo, a più riprese, ha preso alloggio il signor Quintavalle (con moglie e figli): romano, ex X Mas, conosciuto come fascista e fedelissimo del golpista mancato, principe Junio Valerio Borghese […] Secondo le dichiarazioni fatteci, è lui che avrebbe preso il caffè con Stefano Delle Chiaie […].

È questo il clima che si respira nella Sicilia orientale nelle settimane che precedono e nei mesi che seguono l’uccisione di Tumino, la sua “esecuzione capitale”. O meglio questa è la realtà che si presenta a chi ha un occhio allenato all’osservazione, un orecchio affinato all’ascolto, un fiuto adatto a imboccare la pista giusta.

Ne parla il fratello Alberto che ha mandato alle stampe un libro autobiografico in cui é puntigliosamente ricostruita la storia professionale di questo precoce giornalista [2]. Un libro che offre molti spunti alla riflessione, ricostruisce il filo logico di una battaglia ancora tutta da comprendere e si muove nei labirinti del patto scellerato tra quelli che possiamo definire elementi della “santissima trinità” (mondo eversivo e criminale, mafia e potere politico-istituzionale), già denunciato dal bandito Gaspare Pisciotta all’indomani della strage di Portella della Ginestra (1947).

È l’inestricabile percorso nel quale, consapevolmente, anche l’autore si incammina. Partendo dalla sua personale biografia e forse anche dai suoi sensi di colpa. Quelli che accomunano quasi tutti i familiari delle vittime. Doppiamente vittime: una prima volta per avere perduto i loro cari, una seconda volta per portarsi dietro il fardello degli interrogativi su quanto ritengono istintivamente di aver dovuto fare e che non hanno fatto. Un primo senso di colpa è la loro stessa appartenenza. Nel caso di Giovanni e Alberto Spampinato, quello di essere stati marchiati dalle loro stesse convinzioni politiche, dal loro essere comunisti, o di sinistra. Fatto che denota quanto in Sicilia l’appartenenza a un’ideologia progressista sia socialmente vissuta come un additamento. Segna infatti la linea di demarcazione con l’ideologia del perbenismo, un tempo filo agraria e padronale. Discriminante lungo la quale rimangono impuniti gli autori delle stragi e dell’eversione nera, fatte passare come normali epurazioni della “canea rossa” ostile alla democrazia. Da questo atteggiamento anche i familiari delle vittime sono stati profondamente segnati. La loro condizione è stata l’isolamento prima, l’abbandono dopo.

A pilotare tutto, secondo un manuale da guerra psicologica, vecchio di oltre sessant’anni, una grande sintonia tra palazzi. Nel caso di Giovanni Spampinato ci troviamo di fronte alla consapevolezza della dimensione storica di questo problema e al tentativo, avanzatissimo rispetto ai tempi, di costruire un’esperienza di ricerca che supera di gran lunga la semplice denuncia gridata sia del fenomeno mafioso, sia delle connessioni di Cosa nostra col potere eversivo e istituzionale. Il suo osservatorio diventa, ad un certo punto, troppo pericoloso più che per quanto era accaduto per quello che sarebbe ancora successo. Sul delitto Tumino, infatti, i sospetti di Spampinato si erano addensati sul Campria. Ma questi poteva godere di una certa condizione di privilegio, che gli avrebbe consentito, tutto sommato, di gestire quel fatto in modo tradizionale, per le vie legali, date le tutele di cui beneficiava all’interno del tribunale. Il delitto Tumino, quindi, doveva essere considerato una spia, una punta di iceberg, rispetto alla massa dei fenomeni sommersi in virtù dei quali qualcosa di grosso, di meno gestibile, si stava preparando. Quale poteva essere questo evento tanto grave? E ancora, questo evento era già accaduto e doveva essere coperto, o doveva ancora accadere? Non è facile, allo stato delle conoscenze, dare una risposta. Si possono solo formulare delle piste di lavoro.

Il delitto Tumino come evento sporadico

È vero che l’uccisione di Giovanni Spampinato non sarebbe forse avvenuta senza il delitto Tumino. Un delitto che lo spinge a saperne di più sulla presenza del fascismo in Sicilia, a meglio coglierne la geografia politica, i caratteri e l’estensione oltre i confini di un presunto autoctono insularismo. Quello di Giovanni è perciò un progetto ambizioso, che parte da piazza Fontana e approda a una prima sintesi nel suo articolo pubblicato il 10 marzo 1971 sul “L’Ora”, tre mesi dopo il tentato golpe Borghese, la fatidica notte dell’Immacolata. Prosegue dopo con una metodologia tutta calata su uomini e cose, fino alla composizione di un mosaico molto vasto. Si potrebbe, a questo punto, essere tentati di pensare che sì, il giornalista aveva colto il quadro generale della pericolosità eversiva in Italia, ma, tutto sommato, si era fermato al campo di osservazione locale. Senza questa appassionata ricerca della verità, senza il suo giornalismo di inchiesta, la sua formazione ideale all’interno di una famiglia che ha la sua bussola di riferimento nei valori insostituibili della Resistenza antifascista, ben altra sarebbe stata la sorte di Giovanni Spampinato. Figura molto simile a quella di Peppino Impastato. Ma mentre il primo ha come cemento ideale la lotta per la democrazia e contro l’eversione nera (e su questo fronte solitario cade), l’altro fa della denuncia della mafia, a cominciare da quella operante all’interno della sua famiglia, il vero motivo della sua battaglia. Entrambi cadono combattendo, su un fronte locale. Ma Giovanni anticipa Peppino di sei anni.

Il delitto Tumino espressione di un livello eversivo-istituzionale

Gli investigatori e i magistrati avrebbero dovuto seguire diverse piste. Infatti la scena del delitto offre subito un quadro barbarico, che non ha però, i connotati del classico delitto di mafia. Ce ne parla Alberto Spampinato:

Giovanni diffidava del giovane Campria, nel suo intimo era convinto che c’entrasse con il delitto Tumino, che nascondesse qualcosa, ma non aveva elementi di prova […]. Diffidava di quel tipo che notoriamente girava armato, gli faceva paura, ma non voleva darlo a vedere e non voleva fare nulla che indicasse un suo cedimento. Perciò aveva deciso di non rifiutare gli incontri e di resistere alle sue richieste. Era convinto che le sue obiezioni, approvate dai colleghi della redazione di Palermo, fossero ineccepibili […] Nessuno sa cosa successe veramente quella notte. Le uniche cose certe sono che Giovanni rientrò da Catania dopo le dieci di sera, che a casa nostra non c’era nessuno e che, un’ora e mezza dopo, crivellato di proiettili, fu portato all’Ospedale civile di Ragusa, dove giunse senza vita.

Dunque, su come siano andati realmente i fatti non c’è alcuna certezza. Ma a una analisi attenta si può condividere l’ipotesi di Carlo Ruta (Segreto di mafia) che i mandanti di questo omicidio si debbano ricercare oltre la persona dello stesso assassino. E questo perché, in assenza di elementi di raffronto per la ricostruzione della dinamica dei fatti, come avviene con tutti i delitti “misteriosi”, è doveroso avanzare più di una ipotesi. L’unica versione dei fatti è quella dello stesso assassino che, in quanto parte interessata, non può essere preso in considerazione. Soprattutto se, dopo essersi costituito nel vicino carcere, appena commesso il delitto, si trova, come egli stesso dichiara, sotto l’effetto dei “tranquillanti”. Ma nessuno può giurare sul contenuto di queste pasticche. Del resto, la versione dell’assassino è per molti versi incomprensibile. Ecco come Alberto la riassume:

Campria riceve una telefonata di Giovanni e va insieme a lui verso un bar della periferia di Ragusa, che di solito è aperto fino a tardi. Vanno con la vecchia Cinquecento di mio fratello. Trovano il bar chiuso e decidono di dirigersi verso il centro, per trovare un altro locale. Intanto discutono della solita faccenda. Davanti all’ingresso del carcere, in una strada poco illuminata, mentre la macchina è incolonnata nel traffico, Campria chiede a Giovanni di fermarsi perché accusa un malore, si sente svenire. La Cinquecento si ferma dietro una Ottocentocinquanta che inaspettatamente ha superato e si è fermata davanti all’ingresso del carcere. A questo punto il figlio del giudice apre il fuoco contro Giovanni a due mani, con una rivoltella automatica e una pistola a tamburo che ha tirato fuori dal borsello. Esplode sei colpi a bruciapelo. La Cinquecento rimasta senza controllo, scivola sulla discesa e si arresta sul ciglio della strada col motore acceso. Il figlio del giudice scende dall’auto, attraversa la strada, ingerisce delle pasticche di tranquillante che ha portato con sé, poi bussa alla porta del carcere e si costituisce. Giovanni giace accasciato sul sedile della macchina, in un lago di sangue. Non è ancora morto quando alcuni automobilisti di passaggio accorrono per soccorrerlo. Non se la sentono di aspettare l’ambulanza. Pietosamente, lo caricano sulla loro auto e lo portano di corsa al vicino Pronto Soccorso, dove giunge senza vita.

Gli elementi incomprensibili del racconto di Campria sono diversi: – è possibile che questi decida di eliminare la sua vittima dentro un incolonnamento nel traffico, quando potrebbero esserci diversi testimoni dell’omicidio? – È possibile che un assassino decida di utilizzare due diverse pistole per compiere il suo delitto? Ed è possibile che si venga a determinare la straordinaria coincidenza tra la Ottocentocinquanta che supera la Cinquecento per fermarsi proprio sul punto dell’omicidio e la decisione di Campria di costituirsi in quell’edificio davanti al quale si era manifestata l’azione di sangue? Le condizioni di oscurità della scena del delitto non aiutano a dare risposte in merito. Anzi, sollevano ulteriori interrogativi. La consegna del Campria dopo il delitto, e cioè la sua autoaccusa, non favorisce forse l’ipotesi che ad uccidere Giovanni Spampinato siano stati più soggetti, collocati ben più in alto nella gerarchia dei killer dello stesso figlio del magistrato, e che questi sia stato costretto ad accusare solo se stesso per chiudere la partita? Tutta l’attività di ricerca e di scoperta sul neofascismo della Sicilia orientale condotta dal giornalista del “L’Ora” induce a ritenere che egli sia stato vittima di un vero e proprio complotto, tramato con alte coperture del mondo politico e paramilitare interessato a progetti eversivi, e a impedire che quella voce libera e tragicamente solitaria, potesse condurre a scoperchiare fatti che dovevano rimanere sotto silenzio. Come su uno sfondo impercettibile. E questo sfondo non riguardava quanto doveva accadere, bensì quanto era accaduto fino al delitto Tumino, all’inizio di quel tragico 1972.

L’episodio, di cui Campria era una figura preminente, con la rete delle complicità eversive che portavano a Junio Valerio Borghese, alle Sam, e persino alla Grecia dei colonnelli, era soltanto la punta di iceberg di un mondo sommerso e di eventi che si erano manifestati in Italia dalla data del 12 dicembre 1969, e cioè da Piazza Fontana in poi. Ma se questa era la pista, scientificamente fondata, su cui si muoveva in modo sistematico Giovanni Spampinato, quali erano i fatti che dovevano rimanere sottaciuti e che continuavano ad avere la loro efficacia operativa e strategica dentro un progetto di natura eversiva? Dopo la strage della Banca dell’Agricoltura si ha il tentativo di golpe dell’Immacolata (dicembre 1970) che segue di qualche mese la scomparsa di Mauro De Mauro, l’altro giornalista del “L’Ora” che anticipa di circa due anni e illumina meglio l’uccisione del suo giovane collega. De Mauro conosce bene certi ambienti sia per il suo mestiere di giornalista, sia anche per essere stato un elemento di spicco del nazifascismo negli anni di Salò. Conosce bene anche Borghese e lo incontra nel luglio ’70 a Palermo, durante una manifestazione pubblica in un cinema. Probabilmente sa le stesse verità che ad un certo punto Spampinato riesce ad agganciare, muovendosi con frenesia per arrivare alla costruzione del mosaico. E lo fa in un’area ritenuta immune da infiltrazioni mafiose o di natura terroristica, con un apporto certamente originale e straordinario nel panorama delle conoscenze storiche di quei fenomeni in quell’area. Non è da escludere che i due muoiano per una verità esplosiva: la scoperta delle trame che dovevano portare ad un colpo di Stato. Quello fallito di dicembre (De Mauro), e l’altro che doveva essere messo in piedi dopo (Spampinato). Questa seconda ipotesi dà continuità alla prima. Ma mentre i fatti del ’70 sono più o meno conosciuti, quelli del ’72 sono ancora ignoti. In Italia forse non si sapranno mai.

Da due Archivi di grande rilievo, distanti fra di loro diverse migliaia di chilometri, e contenenti documenti scritti da soggetti appartenenti a schieramenti politici diversi, il Kew Gardens britannico e l’Archivio nazionale dei Servizi di Sicurezza di Budapest, apprendiamo che nella seconda metà degli anni Settanta era in preparazione in Italia un colpo di Stato, voluto dalla Nato che in Sicilia aveva le sue principali basi strategiche e militari. Non c’è dubbio che qualcosa di grosso doveva essere accaduto. Lo dimostra il formicaio dei neofascisti in grande fermento nell’isola. Come aveva capito Giovanni Spampinato non si tratta di elementi isolati. Nel ’72 fascisti locali e fascisti rappresentativi sul piano nazionale tessono le loro saldature. Qualcosa si mette a punto. Il vicequestore Giuseppe Peri indaga per un altro contesto, sul rapporto tra sequestri, furti, rapine e finanziamento di attività neofasciste. Viene arrestato Pierluigi Concutelli, e l’indagine fonda alcune ipotesi su uno strano incidente aereo avvenuto il 5 maggio 1972 a Montagna Longa (Cinisi), territorio di Tano Badalamenti. Strano anche perché vi perdono la vita diverse persone vicine al giornalista ragusano. Ne conoscevano le confidenze più nascoste, e le paure: Alberto Scandone che lo aveva “reclutato” al “L’Ora” nel 1969; Angela Fais, anche lei giornalista e sua coetanea con la quale intratteneva una affettuosa e amichevole corrispondenza. Tra le vittime, guarda caso, c’era anche quel Letterio Maggiore, medico del bandito Giuliano, solito fare la spola tra Montelepre e gli Usa, una delle persone di riferimento alle quali si rivolgevano i banditi per le loro vicende. Che erano soprattutto di lotta anticomunista.

In sostanza, alla fine degli anni Sessanta ricomincia a ripetersi il clichè della seconda metà degli anni Quaranta, quando gli Usa tentano un colpo di Stato nella penisola, per impedire l’avanzata comunista. Il piano strategico doveva essere questo: provocare un incidente per scatenare la reazione popolare e dichiarare lo stato di emergenza con la conquista del potere da parte dei militari. Ma la strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) non sortì il suo effetto. Per la realizzazione di questo progetto i neofascisti avevano fatto i patti d’acciaio con le forze militari e l’Intelligence americana.

Il primo atto di questa intesa può essere considerato il Memorandum consegnato ad Angleton da parte di Nino Buttazzoni, capo degli NP (Nuotatori paracadutisti) per conto di Junio Valerio Borghese, capo della Decima Mas. Anno: 1946. Dopo Portella furono gli stessi dirigenti comunisti a disporre la calma. Negli anni Settanta la situazione è per diversi aspetti analoga. L’incidente di Montagna Longa (115 vittime compresi i sette membri dell’equipaggio) che accade sopra uno spazio aereo militare impenetrabile, ben visibile però dall’autostrada Trapani-Palermo, nel tratto vicino ad Isola delle Femmine, tra Carini e Cinisi, è stato ed è un mistero sul quale la coltre del silenzio è stata stesa troppo in fretta, e che sarebbe bene che qualcuno riprendesse in considerazione. Se non altro per dare una spiegazione ragionevole dei fatti ai familiari delle vittime. Ci si chiede, infatti: è possibile che per dare la precedenza ad un altro velivolo un aereo vada a schiantarsi? Giovanni, militante comunista e corrispondente del giornale di sinistra che Vittorio Nisticò ha orientato verso il giornalismo di inchiesta, é un giovane che ha fatto del suo mestiere una fucina di impegno e di ricerca della verità. Essere giornalisti é per lui un modo per mettersi sulle tracce della conoscenza. Non quella che appare attraverso le immagini e le rappresentazioni oleografiche dei luoghi comuni, o dell’ovvietà, ma quell’altra che se ne sta, chissà da quanto tempo, sommersa e ha una sua vita ipogea, come una malattia maligna pronta a esplodere in qualsiasi momento. Perciò il lavoro di uomini come Giovanni, raramente si può incontrare nella Sicilia di quegli anni. A parte Dolci e Sciascia. E pochi altri [3].

Note

[1] L’articolo che segue è già apparso sul blog dell’Archivio Casarrubea.

[2] 2 Alberto Spampinato, C’erano bei cani ma molto seri, Milano, Ponte alle Grazie, 2009.

[3] Mi corre l’obbligo ringraziare Alberto Spampinato per avermi precisato l’identità di Bruno Carbone, giornalista del “L’Ora”, sincera voce democratica, che non ha nulla a che vedere col Carbone della Decima Mas di cui parlo in Lupara nera ed erroneamente confuso col primo.

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