Un nodo invisibile da sciogliere: su “Euforia”, di Lily King

“Euforia”, romanzo dell’americana Lily King da poco pubblicato da Adelphi e tradotto da Mariagrazia Gini, trae ispirazione dalle vicende biografiche di tre grandi figure della storia dell’antropologia: Margaret Mead, Gregory Bateson e Reo Fortune. Una lettura di Lorenzo Alunni.

Ogni grande antropologo dovrebbe avere nel proprio curriculum un tentativo di suicidio. Preferibilmente fallito, certo. O, se proprio vogliamo addolcire la cosa: dovremmo fidarci di più degli antropologi che annoverano nel loro curriculum un tentativo fallito di suicidio.

Nella biografia di Gregory Bateson – uno dei più grandi – di tentativi di suicidio non c’è traccia, per quanto sappiamo. Ma in quello di suo fratello sì: un tentativo riuscito. A seguito di una delusione d’amore e in una situazione di forte disagio in famiglia (suo padre fu peraltro il primo a usare il termine “genetica”), si sparò in testa – nell’orecchio – sotto la statua di Anteros a Piccadilly Circus. Quella scelta segnò profondamente Gregory, e la ridicolizzante sfiducia dei suoi genitori nella scienza a cui aveva deciso di dedicare la propria vita – l’antropologia – non lo aiutava.

«Tre giorni prima ero andato al fiume per annegarmi». Per Bateson, la lacuna – quasi una macchia nel curriculum – di un tentativo di suicidio ora la colma in parte la scrittrice americana Lily King, che, verso l’inizio del suo romanzo Euforia (Adelphi, ottima traduzione di Mariagrazia Gini), racconta di Bankson (cioè Gregory Bateson) che tenta di affogarsi nel fiume Sepik, dopo essersi riempito le tasche di pietre. «È strano come l’infelicità sparisca, quando hai una missione da compiere».

Lo salveranno alcuni abitanti del villaggio in cui risiedeva per studiarne la vita. Lui voleva studiarne la vita, loro gliel’hanno salvata.

Quello che, a prima vista, potrebbe sembrare un momento narrativo ben studiato per introdurre il personaggio e dirne subito la condizione di tristezza, è invece come una scena che tocca una delle corde profonde del libro. «Nell e Fen avevano scacciato i miei pensieri suicidi, ma cosa mi era rimasto? Desideri impetuosi, una grande marea di sensazioni di cui capivo ben poco, un dolore che sembrava chiamarsi solamente voglio. Io voglio. Intransitivo. Nessun oggetto. Era il contrario di voglio morire. Ma non era molto più sopportabile».

Peraltro torna in mente, in maniera beffardamente ironica, il collegamento con una delle considerazioni finali di Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici: «Come il sasso che cade nell’acqua traccia nella superficie infiniti anelli concentrici, per raggiungere il fondo devo buttarmi nell’acqua». Già, buttarsi nell’acqua come Bankson. E, non fosse per il rischio di un irrimediabile spoiler, ci sarebbe da dare conto della tragica circolarità acquatica di questo romanzo.

La storia di Euforia è quella di tre antropologi – due uomini e una donna, due sposati fra loro (Nell e Fen) e l’altro solo (Ian Bankson) – che s’incontrano durante le rispettive ricerche su gruppi sociali della Papua Nuova Guinea. Le “tribù” di cui racconta il romanzo sono inventate, così come tante altre cose del testo, ma la storia s’ispira direttamente al periodo che Margaret Mead (nel romanzo Nell), Reo Fortune (Fen) e Gregory Bateson (Bankson) trascorsero realmente insieme nel 1933, lungo il fiume Sepik. Al tempo, a essere tristemente sposati erano Mead e Fortune, poi, dopo alcuni anni, a convolare a nozze sarebbero stati Margaret Mead e Gregory Bateson. Ma il romanzo immagina destini diversi, com’è del resto dovere dei romanzi, tanto nei confronti dei loro personaggi quanto dei loro lettori.

In ogni caso, il triangolo amoroso appena accennato non appare l’interesse prioritario di Euforia, come non lo sono nemmeno le vicende e la quotidianità dei villaggi dove fanno ricerca quegli antropologi. L’accenno dei tratti culturali di quelle popolazioni sono solo le sponde dove far rimbalzare le vicende di quei tre personaggi e, soprattutto, delle loro diverse forme di solitudine. «Le sue analisi ci parlano più di lui o di quel popolo?».

Pur essendo la storia di tre antropologi, Euforia ha ben poco a che fare con l’antropologia e i suoi contenuti. «Non sarebbe bello fare un mestiere che non sia un grosso nodo invisibile da sciogliere?», si chiede a un certo punto Nell/Margaret Mead. Leggere Euforia e cercare informazioni e riflessioni serie (com’è stato fatto) sul rapporto fra natura e cultura  o su altre cose del genere appare uno sforzo ben poco utile. E non è neanche il caso di soffermarsi troppo sulle nefandezze degli antropologi nelle società che vanno a studiare, perché la storia dell’antropologia ne è piena: basti pensare ai controversi diari di Bronislaw Malinowski o a L’Africa fantasma di Michel Leiris (in ripubblicazione da Quodlibet).

L’euforia del titolo è quella che, dice Nell, si prova dopo due mesi di ricerca sul campo, quando cioè si ha la sensazione di cominciare a capire quello che si sta studiando e a mettere insieme i pezzi del puzzle. Ma chiunque abbia una seppur minima esperienza di ricerca etnografica o l’abbia letta o studiata sa bene che è del tutto illusorio pensare che, dopo soli due mesi, quell’euforia abbia un qualche reale fondamento. Ed è così anche per l’euforia dei rapporti umani e sentimentali di questo romanzo, e dei rapporti umani e sentimentali anche là fuori da quest’ultimo, qua da noi o là da loro, qui da me o lì da te, lungo il fiume Sepik o lungo il fiume Tevere. E non serve a niente andare a nascondersi nell’ultima isola in fondo all’Oceania, nella propria camera o con la testa sotto il proprio cuscino.

A fare i grandi antropologi si corre un rischio mortale: quello di avvicinarsi troppo al nocciolo incandescente dell’umano e di ustionarsi. L’antropologia è la scienza degli universi di senso, e ad andare di universo di senso in universo di senso, sempre più in profondità, quello che potrebbe presentarsi – e lo fa sempre, pare – all’antropologo di turno è il disfacimento di quel senso, o l’impossibilità stessa della sua esistenza, l’illusione, il raggiro, l’insensatezza del desiderio di consolazione: e così, il suicidio o il tentativo di suicidio diventano la prova di quell’esplorazione, il timbro sul passaporto, la credenziale del pellegrino. Già, ogni grande antropologo dovrebbe avere nel proprio curriculum un tentativo di suicidio. Lily King fa a Bankson la grazia di questo particolare biografico, e da lì il romanzo acquista una profondità che un “banale” triangolo amoroso da solo non avrebbe certo saputo incarnare. Fallire un tentativo di suicidio, fallire una relazione, fallire una vita: l’antropologia è anche una scienza delle analogie.

Il personaggio di Bateson/Bankson dà bene corpo a tutto ciò, ed è il principale merito di Euforia. Ancora dal finale di Tristi tropici: «In quanto antropologo, io non sono dunque più il solo a soffrire di una contraddizione che è comune all’umanità intera e che porta in sé la sua ragione. La contraddizione sussiste soltanto quando isolo gli estremi: a che serve agire se il pensiero che guida l’azione conduce alla scoperta dell’assenza di senso?». Tutta questa solitudine, tutta questa assenza di senso: «L’io non è soltanto odioso: esso non ha posto fra un “noi” e un “nulla”». I tropici sono ovunque, e sono ovunque tristi.

È pur vero che, in queste condizioni, il nulla – quello che Bankson deve aver origliato quando ha cominciato a immergersi nelle acque del fiume Sepik con le tasche piene di sassi – non è una forma di nichilismo, ma probabilmente l’unico modo – l’unica possibile ipotesi scientifica – per poter davvero rendere conto di quell’insieme di ordine e disordine costitutivo della natura umana: l’unico punto di equilibrio fra la creazione e la distruzione. Tutto sta a capire se noi singoli possiamo davvero riuscire ad accontentarci di essere parte di un sistema che per esistere si crea e si distrugge, si crea e si distrugge, si crea e si distrugge, se poi noi siamo qui a non riuscire a ricreare noi stessi, noi irrilevanti singoli, e noi irrilevanti coppie di singoli, dopo la distruzione. Viene da dirsi: va bene, come vuoi, faccio parte della condizione umana e la perpetuo, d’accordo, ma io? Io che fine faccio? A me chi pensa? «Eppure, io esisto» aggiunse Lévi-Strauss. «Eppure, io posso sempre smettere di esistere», potremmo controbattere, con le tasche già piene di sassi. Ma, canticchia Bankson in Euforia, e io in coro con lui, sottovoce: «Mi coricherò a sanguinare per un po’, continuai la ballata fra me e me. Poi mi alzerò e lotterò di nuovo insieme a te».

 

 

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