Intervista di Bernardo Parrella a Geert Lovink
Geert Lovink, fondatore dell’Institute for Network Cultures, sarà uno dei relatori del convegno internazionale Interactive Imagination, che si terrà dal 6 all’8 giugno all’Istituto Svizzero di Roma. Il suo ultimo libro è “L’abisso dei social media” (Egea/Bocconi 2016) in cui affronta le più importanti questioni legate alla cultura digitale contemporanea, partendo dalle architetture dei social media e dai modelli imprenditoriali ed economici ad esse legati.
Un libro più che mai attuale, in particolare alla luce delle recenti controversie in merito alla gestione di Facebook delle “trending news” e degli studi sul controllo della sfera pubblica nell’era degli algoritmi. Lovink auspica e incoraggia l’avvio di un “rinascimento cooperativo” online – impegnato a creare reti organizzate e autonome, capaci di operare al di fuori dell’economia basata sui “mi piace”. La struttura di rete riguarda non soltanto la comunicazione, bensì l’intera società, e rimane quindi lo strumento primario per l’aggregazione e lo sviluppo di potenzialità per il cambiamento.
Questi temi verranno affrontati da Lovink nel suo intervento al convegno, previsto nella terza sessione “Digitized Imagination” (martedì 7 giugno). Eccone un’anticipazione in quest’intervista a cura di Bernardo Parrella (traduttore de L’abisso dei social media).
Bernardo Parrella: La recente controversia sulle Trending News è l’ennesimo, grosso problema che ha investito Facebook: ciò porterà qualche calo di popolarità, credibilità e utenti, oppure a breve si tornerà alla “normalità”? Ha ancora senso pensare a piattaforme “alternative”?
Geert Lovink: Fin dal 2011 il nostro Institute of Network Cultures di Amsterdam coordina una rete di ricercatori, programmatori, designer e attivisti chiamata “Unlike Us”, impegnati nella ricerca di “alternative nei social media”. L’iniziativa ha avuto i suoi alti e bassi, per così dire. Eppure, la cosa divertente è che si rifiuta di scomparire. Oggi l’annessa mailing list di discussione conta un migliaio di iscritti, e non manca certo il dibattito su questi ultimi eventi. Sotto quest’aspetto, c’è anzi parecchio movimento in giro. Va infatti ricordato anche il fallito progetto di internet.org in India, il tentativo di aggirare la “neutralità della rete” e offrire a centinaia di milioni di indiani nient’altro che un limitato accesso a Facebook. Tutte cose inevitabili quando esistono monopoli di queste dimensioni, mentre l’attuale clima socio-politico non può né portare alla chiusura di simili servizi (per via della dipendenza di massa creatasi nei loro confronti) né è in grado di produrre delle alternative.
In tutta onestà, nel 2011 ero molto più ottimista sulla scomparsa di Facebook, analogamente a quanto già accaduto per Bebo, Myspace, StudiVZ e Hyves. Oggi ciò è impossibile, perché la piattaforma ha conquistato (o rinchiuso) troppa gente. Il capitalismo delle piattaforme è qui per restarci. Meglio abituarci a confrontare la fase successiva del consolidamento di mercato – e la relativa noia. Basta con le disgregazioni. È impossibile “disrupt” la Silicon Valley, questo è il messaggio, e i politici europei hanno imparato ad adattarsi a questa nuova realtà. È opinabile che politici populisti come Wilders [fondatore del Partito per la Libertà olandese], Erdogan [Presidente della Turchia] e Orbán [Primo Ministro ungherese] vorranno fare qualcosa a riguardo. Di sicuro i burocrati di Bruxelles non si muoveranno, a meno che non vengano costretti – da noi tutti. Diamoci da fare. È ora di organizzare una, due, cento “feste d’addio a Facebook“. È importante fare gesti simili e non in maniera individuale. Coloro affetti da dipendenza da social media dovrebbero aggregarsi. L’attesa per un’alternativa si è rivelata vana.
B.P.: Interattività cooperativa: a che punto siamo? È forse questa la strada per evitare l’ideologia dei social media e pratiche diffuse come il “click-tivismo”?
G.L.: È troppo presto per dirlo. Questo è un ulteriore esempio di un ambito in cui non mancano certo le alternative, anzi esistono da decenni, se non da secoli. Le cooperative di lavoratori autogestite sono qualcosa d’antico, giusto? Qui il problema non è di natura legale: gli strumenti necessari ci sono tutti. La questione riguarda la connessione tecnica. Finora le pratiche collaborative hanno operato su un livello completamente diverso. Qui il punto riguarda la scalabilità. Se rifiutiamo questa logica, e noi la rifiutiamo, arriveranno altri ad implementarle. Come poter resistere alla logica della start-up e continuare a fare cose interessanti, fondare delle cooperative o lanciare strutture basate sul peer-to-peer, con nuove forme di pagamento per la gente che ci lavora, e trovare forme alternative di finanziamento? Abbiamo quest’obbligo storico di creare posti di lavoro. Se non lo facciamo noi, l’Europa è persa e la guerra imminente. È una questione davvero seria. L’occupazione non si materializza da sola, né potranno essere altri a crearla. Dobbiamo smetterla con l’opzione di default del “tutto gratis”, per trasformare la rivoluzione digitale in un’economia veramente decentralizzata capace di garantire benefici a tutti.
B.P.: Quali allora i possibili modelli indipendenti per le transazioni e l’economia digitale? Quali gli esperimenti in corso nel progetto MoneyLab dell’Institute for Network Cultures? Altre iniziative concrete?
G.L.: Sì, abbiamo tanti esperimenti in ballo, e siamo alquanto ottimisti. È davvero un peccato lasciare nelle mani di liberisti vagamente di destra la definizione dei pilastri fondamentali delle future architetture della finanza. Dobbiamo farci avanti e assumere un ruolo molto esplicito. Dal bitcoin e dalla tecnologia blockchain alle diversificazioni economiche o quant’altro, dobbiamo essere certi che come risultato finale avremo strutture decentralizzate, nelle mani dei commons, opposte ai centri-dati, alle grandi banche e ai monopoli. Questa è un’opportunità unica di impostare protocolli finanziari capaci di redistribuire il valore, di operare consapevolmente contro le attuali policy neo-liberiste standard che riescono soltanto a creare altre disuguaglianze e altri monopoli (non mercati, come dichiara l’ideologia ufficiale).
Lo slogan del MoneyLab #3 (Amsterdam, 1-2 dicembre 2016) è “Fallire meglio”. Non pretendiamo certo di conoscere tutte le risposte, ma l’urgenza è palpabile, e non farà che aumentare. C’è bisogno di modelli di reddito basati su internet e su principi peer-to-peer, con pochi o nessun intermediario, che operino in maniera trasparente, se possibile come servizi di utilità pubblica. Non credo che la risposta stia nella nazionalizzazione dei servizi essenziali, ma non è mai detto. Una cosa è certa: gli attuali modelli avvantaggiano soltanto pochi individui e dobbiamo sabotare questi principi a ogni livello, cominciando da Facebook e Google, e proseguendo con Uber e AirBnb.
Dobbiamo anche essere consapevoli che la stessa logica viene implementata in settori meno ovvi, come quelli della logistica e delle infrastrutture, dell’agricoltura e della salute pubblica. Dobbiamo svegliarci e renderci conto che gli operatori (anti)social sono andati ben oltre la sfera mediatica. Ciò significa che dobbiamo smetterla di fissarci sulla questione dei social media per osservare piuttosto il contesto più ampio, dove tutto finirà per essere “disgregato”. È ora di opporsi ai “disrupter” e un primo, importante passo è entrare in sciopero, collettivamente, e cancellare tutti quei profili social. Addio app!