Dieci anni da piazza Tahrir

Che cos’è oggi una rivoluzione?

Piazza Tahrir, Cairo, 8 febbraio 2011 (fonte: Wikimedia Commons).

Gli eventi di piazza Tahrir, dieci anni fa, ci hanno insegnato che le rivoluzioni popolari sono possibili in questo secolo. Esse anzi condividono con quelle passate un tratto distintivo: in gioco, per iniziativa di un larghissimo numero di persone, sono nuovamente la società e il potere, i loro sensi e il loro scopo, i loro attributi e le loro ambiguità. Forse anche per questo, nonostante gli auspici di molti, un ruolo importante, benché non esclusivo, è stato associato nei processi messi in moto da quella sollevazione alla minaccia o all’uso della violenza. Nella rappresentazione plastica di un circolo vizioso, la spirale di repressione poliziesca scoppiata in Egitto dieci anni fa è stata bloccata dall’intervento dell’esercito. I carri armati nelle strade hanno esibito, per l’ennesima volta nella storia, chi e come si arrogava il potere di decidere.

La sovranità armata accolse una delle molte rivendicazioni popolari, l’allontanamento dalla presidenza di Hosni Mubarak, avviando una transizione verso le elezioni. Non per questo la sovranità passò nelle mani del popolo. I risultati elettorali, favorevoli alle formazioni islamiste, non piacquero ai militari che si arrogarono il diritto di intervenire nuovamente nel 2013, stavolta per spodestare la classe dirigente eletta, contestata nuovamente dalla piazza. La violenza si è allora dispiegata con stragi di manifestanti islamisti, migliaia di arresti verso ogni tipo di opposizione, torture e centinaia di esecuzioni tra militanti nuovamente definiti “terroristi”.

Per comprendere quegli sviluppi dobbiamo inserirli nel contesto più ampio delle primavere. In Siria l’esercito avrebbe trovato, negli anni successivi alla Tahrir egiziana, una moltitudine di forze armate decise a contrastarlo. Non dipese da una volontà dei siriani sostanzialmente diversa da quella degli egiziani, ma dal contesto internazionale. La defezione di un certo numero di soldati in Siria non basta a spiegare dieci anni di guerra civile. Lo stesso vale per la Libia. Il legame tra armi e potere, o tra violenza e rivoluzione, è oggi diverso da quello di epoche passate. Non si tratta semplicemente del ricorso allo scontro fisico là dove non esista consenso intorno alle gerarchie esistenti. Accadde con la rivoluzione francese, divenuta poi una sorta di paradigma nell’inconscio collettivo. La rivolta urbana non può però da tempo possedere un decisivo significato militare. Impugnare forconi e assaltare armerie muta certo il contesto politico, ma lascia intatti i rapporti di sovranità.

Che cosa è cambiato? La tecnologia – ivi compresa quella delle armi – si è enormemente sviluppata, sbilanciando il rapporto tra poteri costituenti e potere costituito, poiché quest’ultimo è il custode organizzato di essa. Le condizioni di possibilità di una mobilitazione rivoluzionaria sono per questo gradualmente mutate. Già la rivoluzione russa non sarebbe stata possibile senza lo sfaldamento organizzativo e politico dell’esercito; ma le defezioni militari siriane e libiche del 2011 non sono che una reminiscenza parziale e simbolica di questo dato. I disertori che oggi portano con sé mitra e lanciarazzi mutano a loro volta il contesto politico, ma non minacciano un volume tecnologico divenuto quantitativamente e qualitativamente irraggiungibile: quantità e qualità che si dispiegano in dispositivi militari, sanitari e dell’informazione, sottratti alla condivisione di chi li produce e perciò inaccessibili al popolo.

Carro armato in fiamme, Cairo, 2011 (fonte: Wikimedia Commons).

Un tentativo contemporaneo di rivoluzione può equilibrare allora i rapporti di forza se ha accesso a una fonte di rifornimento tecnologico alternativa. Tale fonte, se esiste, non può che essere un altro stato o un insieme di altri stati. Di qui il dramma delle rivoluzioni del nostro tempo. L’assenza di questo parziale riequilibrio esterno ha determinato l’evoluzione amara della rivoluzione egiziana. La sua presenza, in Siria o in Libia, ha mostrato quanto terribile possa essere lo stallo che può generare. Anche la rivoluzione francese e quella russa, si dirà, dovettero scendere ben presto sul terreno della guerra. In modo diverso: il confronto oggi non è con sante alleanze coordinate per reprimere un’eccezione, ma con imprese internazionali ibride e ambigue impegnate ad avversare come a sostenere diverse rivoluzioni o la stessa, spesso su scivolosi doppi binari. Per questo ogni regime contestato si rifugia nell’ideologia della sovranità e dello stato-nazione.

Il 2011 ha decretato un nuovo livello di pervasività e complessità di questi fenomeni. Ogni fazione delle primavere ha intessuto rapporti sistematici con fonti di potere regionali e globali, sul piano finanziario, militare, spettacolare. Una rivoluzione può essere ammirata quanto si vuole ma, se è disarmata o tecnologicamente isolata, faticherà a difendersi. Le espressioni di ammirazione per le sollevazioni straniere meritano una considerazione sospettosa fino a quando non fanno seguito a sostegni concreti; tanto più se questi ultimi sono in realtà diretti ai regimi che le reprimono. L’Egitto, come l’Arabia Saudita o la Turchia, ha beneficiato in tutti questi anni di armi e tecnologie del controllo italiane ed europee.

Questa internazionalizzazione statalizzata delle sollevazioni sociali o della loro repressione sembra relegare un’internazionale dei popoli o degli oppressi nel regno dei sogni o delle pure speranze. Questo non giustifica, tuttavia, atteggiamenti di sufficienza, o addirittura di ostilità, verso milioni di persone che, dal sacrificio di Muhammad Bouazizi ad oggi – dall’Iraq al Sudan, dal Kurdistan al Marocco – hanno agito in prima persona a rischio della libertà e della vita. Non esiste un pulpito da cui revocare legittimità alle pretese di dignità degli esseri umani. L’obiettivo di un’analisi cruda e realistica deve anzi essere quello di promuovere una ricollocazione critica dell’idea rivoluzionaria nel nostro tempo.

I nostri sentimenti verso gli altri esseri umani sono ciò che di più prezioso v’è nel mondo di oggi. Essi non devono arretrare di fronte a letture pseudo-scientifiche che riducono il valore dei desideri popolari alle politiche estere di stati che li avversano o li sostengono. Tanto le sinistre più arretrate quanto le destre più estreme hanno accusato le mobilitazioni di massa di questi anni, non solo nel mondo arabo, di essere puntualmente “messinscene”, “false flag”, schierandosi sistematicamente dalla parte dei rispettivi governi. Queste teorie del complotto, spesso ricalcate su quelle degli stessi regimi, insistono sull’ingresso degli oppositori nei rapporti politici internazionali.

La risposta non è che non sia vero, ma che non esiste soluzione politica, riformista o rivoluzionaria, che possa chiamarsi fuori dal pianeta realmente esistente, ignorando la necessità di rapporti con soggetti in grado di mutare almeno in parte i rapporti di forza. Gli strumenti per raggiungere una soluzione sono limitati e, per la condizione stessa di essere al mondo, inseriti in relazioni che la contestazione stessa individua come problema. È una contraddizione insita nell’azione politica rivolta al cambiamento,  in qualsiasi caso. La rivolta perfetta esiste solo nelle annoiate ed esigenti fantasie del privilegio. Chiunque sia impegnato in una resistenza per la vita o per la morte comprende perché oggi milioni di egiziani sentano una prigione stagliarsi lungo l’intero corso del Nilo, invisibile perché incarnata nelle relazioni dei loro tiranni.

In marcia verso Tahrir (fonte: Wikimedia Commons).

Tanto più in un contesto così complesso e ambiguo è irrinunciabile che le proposte organizzate che emergono dai movimenti producano criteri etici indipendenti dai poteri costituiti, ostili o coinvolti. Tali criteri non cambiano il mondo o i contesti di partenza, ma orientano le azioni, impedendo a quei contesti di fagocitare il senso e la direzione delle lotte fino all’incubo del tradimento della memoria dei caduti. Onorare Tahrir significa anzitutto chiedersi: da che parte? Verso dove? Lo schema dello scontro verticale, del basso contro l’alto, non è sufficiente. Le rivoluzioni vincono se in alto creano contraddizioni – nelle istituzioni nazionali e internazionali – ma le contrapposizioni orizzontali, valoriali, che lacerano le rivoluzioni in basso e nel loro stesso ventre non sono meno fondamentali. Parteggiare per una rivoluzione, termine in fondo generico, è sempre parteggiare nella rivoluzione: per l’affermazione di un orizzonte, quindi anche contro una o più parti della rivoluzione stessa.

In questi dieci anni si è lottato per valori inconciliabili, spesso fino ad uccidersi. Repubblica pluralista o monarchia teocratica, accentramento o democrazia, femminismo o patriarcato, dogma o libertà di pensiero. Non basta continuare a schierarsi dalla parte “del popolo”, “dei civili”. Occorre scegliere quale programma, quali valori, quale autentica e concreta presa di partito vogliamo intraprendere dentro o nei confronti di società complesse, che non meritano di essere guardate distrattamente, come amalgami sfocati su un teleobiettivo. Per questo dobbiamo smettere di osservarci, parlarci invece e conoscerci al di là dei confini.

Tahrir non sarebbe esistita senza una giovane sinistra secolare frammentata, che ha aperto quello spazio. Divenuto immensa potenzialità politica, vi si è insediata una potente destra più unita (i Fratelli musulmani e altri fondamentalisti), capace di attrarre consenso perché dotata di un pensiero coerente, di un programma chiaro e capacità organizzative e diplomatiche (anche internazionali) sedimentate nel tempo. Questa è l’eredità pesante di Tahrir: quale rivoluzione? Poiché l’idea espressa da questa parola non si identifica con una piazza, né con un movimento o col popolo. È un processo segnato dalla divisione e dalla discordia, in cui la conquista del futuro è anche capacità di invadere gli spazi da cui il passato continuerebbe ad attaccarci alle spalle.

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