Saperi che (r)esistono

I saperi ecologici locali per resistere alla crisi climatica e ambientale

Pubblichiamo oggi la prima puntata di Intemperie, serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino

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Madrid, ottobre 2010 – foto di Hitesh Sawlani

Saperi tradizionali, conoscenze locali, saperi autoctoni o nativi, indigenous knowledge, saperi popolari, sono solo alcune delle etichette utilizzate per circoscrivere l’insieme di conoscenze sviluppatesi all’interno di una determinata comunità, legata a un territorio specifico, e che per varie ragioni necessitano una distinzione rispetto al sapere scientifico ufficiale.

La crisi climatica e ambientale attuale opera ormai da anni un ridisegnamento delle traiettorie del nostro tempo: essa trafigge il nostro presente, rendendo difficile l’esercizio di immaginare un futuro, e imponendo all’homo modernus un paradossale dialogo con ciò che è stato definito come passato. Nel corso della storia proprio il tempo è stato uno degli elementi utilizzati per alimentare la separazione tra una forma di sapere legittima e forme “altre” di conoscere il mondo (saperi tradizionali come saperi del passato); a questo si sono aggiunti altri fattori come la scala di azione (saperi locali strettamente legati ad un territorio e inapplicabili altrove), l’etnia (saperi indigeni come saperi degli indigeni, lontani dal mondo occidentale), il potere (saperi popolari, del volgo, come subalterni rispetto a quelli autorevoli ed egemonici). Porre distanza è stata una delle principali strategie tese a screditare tali forme di sapere, “altre” sia rispetto all’Occidente, sia rispetto alle forme di conoscenza egemoniche interne all’Occidente stesso. La pretesa di universalità delle categorie e delle conoscenze occidentali non ha però semplicemente operato una delegittimazione dei saperi altrui; in molti casi i genocidi perpetrati dalla macchina coloniale sono stati accompagnati da quelli che De Sousa Santos (2017) ha definito con il termine epistemicidi: delle vere e proprie strategie di soppressione delle forme di sapere marginali, diverse e subalterne agli occhi della modernità occidentale. 

La ricerca antropologica non ha mai smesso di interrogare i margini, pensati come punti di vista privilegiati per osservare i fenomeni sociali e culturali, e dove gli effetti delle trasformazioni globali si manifestano con maggior intensità. Per lungo tempo è stata l’indifferenza l’atteggiamento principalmente adottato dai saperi ufficiali e dalla sfera politica nei confronti della cultura radicalmente “altra” delle genti escluse dalla Storia, in particolare delle genti del Sud per quanto riguarda il contesto italiano, come i “cafoni” abruzzesi di Ignazio Silone o i contadini lucani di Carlo Levi, marginalizzati dalle vicende storiche, economiche e sociali, e sulla cui cultura apparsa lontana, “altra” rispetto a quella dominante, si è concentrata l’antropologia di Ernesto De Martino. I popoli indigeni, le società rurali, le comunità di pescatori, di pastori itineranti e di contadine hanno in comune una secolare esclusione dalle posizioni di potere nel corso della storia, che ha imposto loro “un’attitudine permanente di resistenza di fronte agli effetti della dominazione prodotta da coloro che possiedono e applicano la conoscenza scientifica” (Toledo V. M., Barrera-Bassols N., 2008: 106, trad. mia).

L’invito gramsciano a riconoscere la consistenza e la serietà del folklore, inteso come “sapere del popolo” in perenne relazione di subordinazione rispetto al sapere egemonico 1, sembra essere stato colto indirettamente dall’etnoecologia di tradizione mesoamericana, scienza che più di altre si è occupata di studiare i saperi ecologici locali come forma complessa di adattamento e trasformazione dell’habitat, frutto del processo di co-evoluzione tra natura e cultura  (Reyes-García, Martí Sanz, 2007).

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Salamón, Lèon, agosto 2015. Foto di Ahoztar Larrea

Carattere peculiare dell’etnoecologia è lo studio interdisciplinare della correlazione tra corpus (sistema di conoscenze ambientali), praxis (azioni pratiche sull’ambiente) e kosmos (sistema di credenze e rappresentazioni simboliche legate all’ambiente). Se all’interno del sapere scientifico ufficiale si può distinguere una valorizzazione del corpus delle conoscenze, pensato come separato da aspetti pratici e simbolici, e un distanziamento rispetto a ciò che viene analizzato, all’interno dei saperi ecologici locali si percepisce una interazione irriducibile tra le varie dimensioni: questi ultimi sono da leggersi come saperi della complessità, nel senso attribuitogli da Morin (2001), tesi a non suddividere il reale in blocchi analizzabili in maniera distinta come accade nelle scienze ufficiali, ma che al contrario sottolineano le interazioni, le relazioni e le interdipendenze di cui si compone il mondo.

Interrogare le forme di sapere marginali e, come osserva Angioni, “rimeditare su Gramsci studioso del folklore, oggi, non significa la solita evasione alla ricerca delle buone cose del buon tempo antico”, luogo di un rapporto armonioso e romantico con la natura, ma al contrario significa studiare una forma di conoscenza conscia delle difficoltà e dei benefici che comporta l’azione non sull’ambiente, ma nell’ambiente, oltre a distinguere “le condizioni strutturali e soggettive dell’emarginazione e della subordination” (Angioni, 2000: 9).

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Peña Espigüete, Castilla y León, luglio 2018 – foto di Álvaro Mansilla Villalpando

Nel 2019 ho avuto modo di svolgere una ricerca di campo in Spagna, nella provincia di Guadalajara, in Castilla-La Mancha, dove la transumanza è percepita come un fenomeno significativo sia dal punto di vista culturale che ecologico. Durante la ricerca ho potuto osservare come ai processi di esclusione prodotti dalla modernità, che minacciano la continuità dell’attività, si affiancano progetti nati dal basso dalla cooperazione tra pastori, volontari e ricercatori, che hanno come obiettivo quello di valorizzare tale pratica, ritenuta una risorsa indispensabile per far fronte alla crisi climatica2.

Un simile interesse si lega a una nuova attenzione nei confronti degli innumerevoli benefici offerti dal saper-fare transumante, strettamente legati al mantenimento e allo sviluppo degli ecosistemi. Fra questi emergono tutti quei servizi di regolazione e prevenzione, quali la pulizia del sottobosco e la creazione di tagliafuochi naturali che prevengono il rischio di incendi. L’allevamento estensivo agisce anche rispetto alla conservazione della fauna e della flora autoctone e il miglioramento della fertilità del suolo, a cui si aggiunge il trasporto e la dispersione di semi di numerose specie vegetali anche endemiche e in pericolo di estinzione, che garantisce una maggiore connettività ecologica dei vari ecosistemi, oltre al mantenimento e all’arricchimento della biodiversità. Si evidenzia  inoltre il lavoro legato alla conservazione dei pascoli, ecosistemi chiave per la lotta alla crisi climatica poiché rappresentano la metà delle terre emerse del pianeta e soprattutto agiscono da mitigatori dell’effetto serra grazie alla loro capacità di accumulare enormi quantità di anidride carbonica, che viene fissata in maniera efficace nel sottosuolo (Garzón, 2012).

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Peña Espigüete, Castilla y León, luglio 2018 – foto di Álvaro Mansilla Villalpando

L’attività transumante e i benefici che ne derivano si legano alla tacita azione intellettuale delle donne e degli uomini che si dedicano a tale occupazione, i cui saperi, per dirla con Van Aken (2020), sono “campati per aria”, immersi nell’ambiente e nell’atmosfera, e interessano le discipline più disparate, fra cui la veterinaria, la meteorologia e la botanica: tutte conoscenze apprese attraverso la pratica, mai slegata da dimensioni simboliche ed etico-valoriali (corpuskosmospraxis).

Un sapere-fare che all’interno del suo continuo processo di adattamento conosce da tempo un drastico mutamento nelle modalità di azione: per esempio, a partire dal diciannovesimo secolo si è passati dallo spostamento a piedi, al trasporto degli animali sui treni e successivamente sui camion; quest’ultima è la modalità più diffusa. Un cambiamento essenziale per reggere la competizione che il mercato impone, ma che limita i benefici ecologici della transumanza ai pascoli di arrivo, poiché viene a mancare il lavoro di connessione degli ecosistemi e di mantenimento della biodiversità dato dalla migrazione stagionale tradizionale.

Questo processo di adattamento si può leggere come una forma di resistenza alle nuove forme di esclusione, rintracciabili nelle politiche regionali, nazionali ed europee, nelle logiche competitive e marginalizzanti del sistema capitalistico, nei conflitti con altri attori sociali per l’accesso alle risorse naturali e nella crisi climatico-ambientale: tutti fattori che minacciano la scomparsa della transumanza, ma che non sono accettati passivamente. Al contrario essi stimolano anche nuove forme di rivendicazione, come l’annuale passaggio delle greggi nel centro di Madrid in occasione della Fiesta Nacional de la Trashumancia, evento tutt’altro che goliardico, ma che al contrario rappresenta un atto politico per dare visibilità alla transumanza, ai pastori e al mondo rurale, e per rivendicare il diritto al passaggio sulle antiche vie del bestiame, la cui fruizione è oggi compromessa dalla sempre maggiore cementificazione. Anche la questione di genere si situa all’interno delle rivendicazioni che interessano il mondo transumante. Un chiaro esempio è quello delle Ramaderes de Catalunya, una rete di donne che si dedicano all’allevamento estensivo, rompendo gli stereotipi di genere legati all’attività pastorale.

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Madrid, ottobre 2017 – foto di Álvaro Mansilla Villalpando

L’idea più diffusa all’interno del dibattito pubblico occidentale è che la soluzione alla crisi climatica e ambientale arriverà dal mondo della tecnologia e dell’innovazione, in grado di guidarci oltre l’era dei combustibili fossili e di accompagnarci verso una transizione ecologica: in altre parole il sistema capitalistico intende offrire una soluzione per la crisi che continua ad esacerbare. Allo sguardo di chi scrive, filtrato dalle lenti antropologiche, la crisi ambientale invita invece a volgersi altrove: l’opportunità che si presenta è quella di sviluppare un dialogo efficace tra saperi scientifici ufficiali e saperi ecologici locali, slegato dalle dimensioni di dominazione e subordinazione che hanno guidato la relazione fra le due formazioni fino ai giorni nostri3. Un nuovo rapporto che deve necessariamente partire dall’ascolto di saperi che si fondano su logiche distanti da quelle che alimentano la crisi ambientale, fortemente radicati nei territori e vicine alle reali necessità delle comunità locali. Nel Capitalocene, termine con cui Moore (2017) si riferisce all’era attuale in cui il sistema economico capitalistico si fa regime ecologico, subordinando la natura umana e non-umana alle necessità di produzione e di accumulazione di ricchezza anche attraverso la collaborazione del sapere scientifico ufficiale, l’urgenza diviene quella di ascoltare e di dar voce al saper-fare locale per non soccombere alle asfissianti pressioni del tempo cui siamo chiamati a resistere; compito sempre più difficile, anche per coloro che sulla resistenza hanno costruito l’essenza della la propria Storia.

Bibliografia

Angioni G., 2000, Utilizzare i saperi locali, in “La Ricerca Folklorica” , 41, Antropologia dell’ambiente, pp. 7-13.

De Sousa Santos B., 2017, Justicia entre Saberes. Epistemologías del Sur contra el epistemicidio, Ediciones Morata, Madrid.

Garzón J., 2012, Importancia de la trashumancia en España para conservar la diversidad biológica en Europa y mitigar el cambio climático, Asociación Trashumancia y Naturaleza.

Gramsci A., 1977, Quaderni del carcere, vol. I, Q. 2, p. 90.

Moore J. W., 2017, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, Verona.

Morin E., 2001, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano.

Reyes-García V., Martí Sanz N., 2007, Etnoecología: punto de encuentro entre naturaleza y cultura, Ecosistemas, 16, 3, pp. 46-55.
Toledo V. M., Barrera-Bassols N., 2008, La memoria biocultural. La importancia ecológica de las sabidurìas tradicionales, Icaria editorial, Barcelona.
Van Aken M., 2020, Campati per aria, Elèuthera, Milano.

 

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Note

  1. “Il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una cosa tutt’al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria e da prendere sul serio”, (Gramsci A., 1977: 90).
  2. Un esempio in questo senso è l’associazione “Trashumancia y Naturaleza” che si batte per evitare la scomparsa della transumanza, un evento tragico per gli ecosistemi iberici ed europei.
  3. Per un esempio di dialogo tra saperi scientifici e saperi legati alla transumanza si rimanda al progetto Ealat, sviluppato nel contesto artico.

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