Di re, di battaglie e di elefanti: su Mathias Énard

Una panoramica sullo scrittore francese Mathias Énard: “Zona”, “Via dei ladri”, “Parlami di re, di battaglie e di elefanti” (in aggiunta, qui la recensione di “Boussole“, uscito nel 2015).

Immaginiamo una delle barche che, molto probabilmente anche in questo esatto momento, stanno cercando di attraversare il Mediteranneo. Una di quelle imbarcazioni piene di migranti. Immaginiamo uno di loro. Concentriamoci su di lui e seguiamolo con lo sguardo. Facciamolo però con la consapevolezza delle molte possibilità che quella persona ha di non farcela e di affogare da un momento all’altro. Immaginiamo che succeda proprio questo, ovvero che una delle tante cose che possono andare storte vada storta: la persona che stavamo immaginando e seguendo soccombe. Non ce l’ha fatta, ma questo non ci costringe a distogliere subito lo sguardo da lui. Il suo corpo si gonfia, si deforma, e a deciderne i movimenti sono soprattutto le correnti, quelle stesse che, a un certo punto, dopo un errare inerte fra le onde, la faranno finire fra le mani di un pescatore o magari di un militare del programma Triton. Questi la estrarrà dall’acqua e la depositerà accanto ad altri morti. A quel punto, il corpo potrebbe arrivare alle cure di Lahkdar, un ragazzino marocchino che, pagato trecento euro in nero e con alloggio sul posto, svolgerà un lavoro di «manutenzione, carico, scarico, composizione della salma, ecc.». Lahkdar si occuperà di ricomporre la salma e di darle una sepoltura minimamente dignitosa. Il suo datore di lavoro guadagna dal governo sessanta euro per ogni salma: «Nel caso di alcuni di loro, non eravamo neppure sicuri che fossero musulmani; era una supposizione, e forse li spedivamo dal Dio sbagliato, verso un Paradiso nel quale una volta di più sarebbero stati clandestini».

Anche Lahkdar ha attraversato il Mediterraneo, dal Marocco, ma è stato fortunato e lo ha potuto fare a bordo di una nave mercantile dal destino rocambolesco, dopo aver vissuto la Primavera araba e prima di avere avuto a che fare con gli Indignados di Barcellona, dove si è ritrovato a vivere.

Un piccolo particolare: Lahkdar è “solo” il protagonista di un romanzo. Si tratta di Via dei ladri, di Mathias Énard (2012 in Francia, 2014 in Italia), tradotto da Yasmina Melahouah. È dei libri di Mathias Énard, scrittore francese nato nel 1972, che qui si parla, e del perché la sua letteratura è uno strumento dei più efficaci per aiutarci a compiere un’operazione che, soprattutto in queste settimane e al di là di ogni ovvietà, s’impone ancora una volta come fondamentale, fondante: il reciproco riconoscimento come esseri umani.

Forse possiamo immaginare davvero la morte solo vedendo il nostro cadavere in quello degli altri, giovani come me, marocchini come me, candidati all’esilio come me. La sera scrivevo poesie per tutti quegli scomparsi, poesie segrete che poi infilavo nelle bare, poche righe che sarebbero sparite con loro, un omaggio, una ritha’; gli davo dei nomi, cercavo di immaginarli vivi, di indovinare la loro vita, le loro speranze, i loro ultimi istanti. A volte li vedevo in sogno. Non ho mai dimenticato le loro facce.

I romanzi di Mathias Énard sanno farci toccare emotivamente con mano cosa significa essere cittadini europei e mediterranei, cosa significa fare parte di questa comunità e aderire alle retoriche che le soggiacciono. In Via dei ladri ci accompagna, attraverso la biografia del giovane protagonista marocchino, fra alcuni dei movimenti politici più importanti degli ultimi anni, quelli della Primavera araba, degli Indignados spagnoli e degli estremismi religiosi, raccontando l’intreccio tra un’amicizia dal finale shakespeariano e la banalità del terrorismo. Lo fa attribuendo al suo protagonista un impulso a difendere la società, un istinto o una volontà che i recenti fatti di Parigi hanno problematicamente rimesso al centro dei pensieri di molti di noi.

Ma ciò che dà alla letteratura di Énard una potenza politica peculiare è una sorta di pragmatismo che ci riporta alla realtà del discorso storico europeista e che entra nelle fognature psicologiche dell’attrazione che l’Europa e i paesi mediterranei hanno storicamente avuto per la violenza e l’autodistruzione. C’è poi che quella di Mathias Énard è una letteratura che, spesso, tira in ballo l’Italia in una maniera specifica e interessante: basti pensare al viaggio in treno Milano-Roma raccontato in Zona o al segmento di vita, tanto vera quanto immaginata, di Michelangelo Buonarroti di cui si parla in Parlami di re, di battaglie e di elefanti, o a quanto ci riguardano i corpi annegati nel Mediterraneo di Via dei ladri. Il tutto mentre si percepisce costante la vibrazione che Lahkdar descrive così:

osservo la serie di cataclismi come chi, in un rifugio considerato sicuro, sente vibrare il pavimento, tremare le pareti, e si domanda per quanto tempo ancora potrà conservare la propria vita: fuori tutto sembra essere soltanto oscurità.

Anche il libro precedente a Via dei ladri era fatto di una riflessione sulla dimensione mediterranea della nostra storia, con uno scarto di seicento anni. Parlami di re, di battaglie e di elefanti (2010, 2013 in Italia) immagina e racconta quel che sarebbe successo se un certo episodio storico avesse preso una piega diversa da quella che prese: nel 1506, Michelangelo fu invitato a Costantinopoli dal Sultano Bayazid per progettare «un ponte politico», come lo definisce il protagonista stesso, che attraversasse il Bosforo. Nella realtà, Michelangelo non ci andò; nel libro sì. Seguiamo Michelangelo nella sontuosa Costantinopoli, spiamo le sue abitudini creative, la sua quotidianità professionale e gli intrighi di corte in cui si ritrova presto, tanto a Roma quanto lì in Oriente.

Énard tiene i piedi in due staffe, quella dei documenti michelangioleschi originali e quella degli scenari ipotetici e immaginati (come, sempre per Michelangelo, aveva fatto anche Filippo Tuena nel notevole La grande ombra), dandoci con questo piccolo romanzo qualche elemento in più, d’intimità narrativa e di vera e propria geografia storica, per guardare con diffidenza alla retorica dell’Europa come entità storica separata da ciò che la circonda. Alla luce di tutto questo, questa frase che Énard fa pronunciare a Michelangelo sembra riferirsi non solo a questioni di creazione estetica, ma anche al pensiero della storia d’Europa e del Mediterraneo: «La bellezza viene dall’abbandono del rifugio delle forme antiche per l’incertezza del presente».

Mathias Énard ha raccontato di aver concepito la storia di Parlami di re, di battaglie e di elefanti, in occasione di alcune fortuite scoperte nella biblioteca di Villa Medici, dove, nel 2005-2006, andava a «schiarirsi le idee» per quello che stava facendo in quel periodo; si trovava lì in residenza per lavorare a un romanzo, un’opera delle più sconvolgenti degli ultimi decenni letterari: Zona.

Non smette di piovere a Milano ho perso l’aereo avevo davanti a me millecinquecento chilometri di treno me ne restano cinquecento, stamattina le Alpi brillavano come coltelli, tremavo dallo sfinimento seduto al mio posto senza poter chiudere occhio come un drogato tutto indolenzito, ho parlato tra me a voce alta sul treno, o a voce bassa, mi sento vecchissimo vorrei che il convoglio continuasse che andasse fino a Istanbul o Siracusa andasse fino in fondo almeno lui.

Era un passaggio dalla prima pagina di Zona, opera capitale di Mathias Énard, nella preziosa traduzione di Yasmina Melahoua. È l’inizio del viaggio in treno da Milano a Roma che Francis Mirković, croato divenuto francese, sta per affrontare. Francis ha con sé una valigia piena di documenti, liste scottanti di nomi di vittime e carnefici dell’Olocausto e di altri drammi di storia recente, che ha potuto raccogliere da una ex S.S. e nel corso della sua carriera. Sta andando in Vaticano a vendere quei documenti. Sarà il suo ultimo atto prima di abbandonare il suo lavoro di spia per il governo francese e ritirarsi definitivamente a vita privata. La sua attività, nella zona mediterranea che va da Barcellona a Beirut, gli ha dato modo di raccogliere informazioni segrete e terribili sugli ultimi cinquant’anni di storia europea e mediterranea, e con il viaggio raccontato da Zona tenta di ricavare da quell’archivio personale abbastanza soldi da poter cambiare nome e sparire per sempre. Prima di trasferirsi in Francia, Francis Mirković ha combattuto la guerra civile in Jugoslavia. Non si è risparmiato – né da testimone né da artefice – nessuna delle atrocità di quella guerra che ci hanno combattuto dietro casa. Mirković ha combattuto prima per l’indipendenza della Croazia, poi dell’Erzegovina e poi per una Bosnia croata, cavalcando i nazionalismi di quegli anni e di quei luoghi. E dice di essere stato – di essere? – un «debole antisemita» e un «cattivo fascista».

Il suo viaggio in treno è lungo circa 500 chilometri, come circa 500 sono le pagine di questo libro. Mentre attraversa l’Italia da nord a sud, fra le campagne buie e le periferie urbane, Mirković, alterato da anfetamine e alcol, ripensa al suo passato, e a come il suo percorso biografico si sia intrecciato con la violenza che ha segnato e che continua a segnare la storia della “Zona”. Il suo è un viaggio che smette presto di essere personale e diventa l’affresco della tragica scena del ventesimo secolo europeo e mediterraneo. La narrazione si muove fra le crepe della serenità e coscienza pulita che si è data l’Europa per la sua costruzione identitaria recente, come se davvero avessimo qualche valida ragione per pensare che la seduzione della violenza che ne ha segnato la storia sia un impulso definitivamente estinto.

Il titolo del libro, “Zona”, si rifà a una poesia di Apollinaire in cui si parla della fine del mondo; il richiamo diretto arriva alla seconda pagina del libro, quando, alla stazione di Milano, il protagonista incontra un signore con un cappello da folletto e una campanella della mano sinistra che gli grida in italiano «amico un’ultima stretta di mano prima della fine del mondo». Anche Francis Mirković considera il suo più un viaggio verso la fine del mondo che verso la fine della sua carriera, e il romanzo si poggia anche sull’inscindibilità delle due cose.

La poesia di Apollinaire è scritta senza punteggiatura, e anche per il romanzo di Énard quello della punteggiatura è un dato stilistico importante: il libro si presenta come un’unica frase di 500 pagine, eccetto per alcuni brevi inserti di un romanzo nel romanzo, in cui un fittizio scrittore libanese racconta la vicenda della guerrigliera palestinese Intissar. La lettura non viene particolarmente complicata da questa scelta stilistica, non inedita ma comunque radicale, perché l’occhio si abitua presto al meccanismo sintattico; a sorprendere è la funzionalità dello uno stile propulsivo, anfetaminico come il protagonista, dalla claustrofobia resa felice dal respiro lirico di molti passaggi. Il flusso narrativo riesce a modellarsi sull’andamento del treno, sullo stato psichico alterato del protagonista e dei suoi ricordi di spia. E non solo: lo sviluppo sintattico delle (della) frasi riesce a restituire quella relativizzazione dei confini temporali della storia europea e mediterranea che il protagonista attraversa, insieme a tutti noi. In questa nebbia storico-narrativa (che ricorda per certi versi quella del Claudio Magris di Danubio, oltre al Michel Butor de La modificazione), e in cui i momenti di più pregiato lirismo riequilibrano qualche fase di stanca nella lettura, la soggettività di Mirković si dissolve, rafforzando la dimensione epica del romanzo.

Ricalcando i ventiquattro canti dell’Iliade, eventi della storia recente e antica si trovano l’uno a fianco dell’altro: miti e fatti storici, dalle saghe greche alla Gaza di oggi, dal genocidio armeno alla guerra civile spagnola e alle guerre jugoslave, e il tutto è accomunato dal buio percorso biografico del protagonista. Zona è infatti da leggere come una tragedia greca, salvo poi rendersi conto di esserne tutti attori incastrati claustrofobicamente sul palco, fra il coro e gli dèi manipolatori, spettatori di noi stessi. Torna in mente quando Walter Benjamin scriveva che l’umanità è talmente distaccata da se stessa da poter permettersi di assistere al proprio disfacimento con un godimento estetico di primo ordine.

nulla ritorna di ciò che è stato distrutto, nulla rinasce, né gli uomini scomparsi, né le biblioteche bruciate, né i fari inghiottiti dal mare, né le specie estinte, nonostante i musei le commemorazioni le statue i libri i discorsi di buona volontà, delle cose perdute rimane solo un vago ricordo, un’ombra che plana su Alessandria doloroso fantasma percorso dai brividi, e forse è meglio così, tanto meglio, bisogna saper dimenticare, lasciare gli uomini gli animali le cose andarsene.

Oltre ai tre appena descritti, tutti pubblicati da Rizzoli, in italiano è disponibile un altro libro di Énard, tradotto per Nutrimenti da Alice Volpi: Breviario per aspiranti terroristi(2007), illustrato da Pierre Marquès (con cui Énard ha firmato altri due piccoli libri illustrati). La storia è quella di Virgilio, servitore di un bizzarro maestro di terrorismo che cerca d’insegnargli l’etica e la pratica del perfetto attentatore. Il sarcasmo del testo è la nota dominante, ma, nelle settimane delle vicende parigine e danesi, la luce su quel sarcasmo è certamente diversa: c’è più chiaroscuro.

Ci sono poi i libri di Mathias Énard non tradotti in italiano. Dargli uno sguardo ci dà qualche elemento in più per scorgere il percorso che lo ha portato fino alle sue opere “panmediterranee” e “paneuropee”, che sembrano quasi un’invocazione a una letteratura senza confini statali. Del 2011 è L’alcool et la nostalgie, frutto di un viaggio transiberiano in treno e di un racconto radiofonico, in cui si ritrovano alcuni degli elementi di Zona: il protagonista, Mathias, va in Russia per accompagnare la salma dell’amico Vladimir nel suo viaggio ferroviario verso il villaggio siberiano dov’è nato. Come in Zona, il viaggio in treno è il momento del ricordo: il suono ritmato dei binari sembra essere il motore della scrittura di Énard. Del 2005 invece è Remonter l’Orénoque (Risalire l’Orinoco). Ne è anche stato tratto un poco fedele adattamento cinematografico (À coeur ouvert, di Marion Laine, con Juliette Binoche). C’è di mezzo un triangolo amoroso, come in L’alcool et la nostalgie. Sicura di portare in grembo un bambino, Joana parte per un viaggio in barca lungo il fiume Orinoco, in Venezuela, per tentare di ritrovare se stessa. Il viaggio stavolta non è ferroviario, ma fluviale: è come se, in ogni caso, per rimescolare o rimettere in ordine i ricordi e prendere decisioni per il proprio futuro fosse necessario che il paesaggio fuori faccia a gara di velocità con i nostri pensieri. Infine, pur senza viaggi di mezzo, la forza della letteratura di Mathias Énard era già emersa nitida nel suo romanzo d’esordio, La perfection du tir (La perfezione del tiro), del 2003. È la storia di un cecchino impegnato in una guerra in uno Stato non specificato, probabilmente nei Balcani, o forse il Libano, dove l’autore ha trascorso un periodo di volontariato con la Croce Rossa quand’era un giovane studente di storia.

Il libro racconta in prima persona la quotidianità e la perversa professionalità di un tiratore scelto, la cui vita verrà scombussolata dalla quindicenne Myrna. Il cecchino esprime così la sua particolare forma di riconoscimento dell’umanità delle sue vittime, perché di riconoscimento dell’umanità pur sempre si tratta:

La maggior parte di quelli che ho ucciso hanno vissuto solamente per i tre secondi in cui li guardavo. Sono dei fantasmi, dei personaggi, delle maschere che non sanno vedere niente. Li faccio vivere guardandoli, li animo uccidendoli. È una contraddizione, qualcosa che anch’io non colgo del tutto. Ma andrò fino in fondo.

Énard ha anche tradotto due libri dal persiano e dall’arabo libanese al francese, e ha insegnato arabo all’università di Barcellona, dove ha vissuto, così come a Berlino e in tanti altri luoghi della barbarie e della bellezza di questi secoli maledetti, maledetti come tutti i secoli di cui si abbia notizia. In definitiva, attraverso i suoi romanzi, Mathias Énard ci appare qualcuno di ben piazzato per insegnarci a dirci, quando di questi tempi ci capita di guardarci attorno e accorgerci spaventati di quello che succede, quello che si dice il giovane protagonista di Via dei ladri, il suo ultimo libro: «da buon animale, sentivo la tempesta imminente, intorno a me, dentro di me, ma la dimenticavo per meglio tentare di oltrepassare il vuoto.»

Post-scriptum: nel 2015 Mathias Énard ha pubblicato Boussole, che peraltro si è aggiudicato il premio Goncourt. Eccone la recensione, in aggiunta a questo speciale in due puntate.

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