Tra colonialismo digitale e valutazionismo. Conversazione con Tullio De Mauro

Pubblichiamo un’intervista a Tullio De Mauro, insigne linguista ed esperto dell’istruzione italiana, a margine della conferenza da lui tenuta a Siena il 13 maggio 2014 su “Vecchio e nuovo nel Nuovo vocabolario di base della lingua italiana”.

Marco AmbraProfessor De Mauro, la casa editirice Parson in collaborazione con l’istituto di ricerche The Economist Intelligence Unit ha pubblicato poche settimane fa la sintesi per il 2014 della Learning curve, un indicatore complesso del livello di efficacia dei sistemi d’istruzione di 40 paesi (tra i quali l’Italia). Tra i fattori di miglioramento per l’istruzione, l’indicatore annovera una serie di competenze del “futuro”, per il XXI secolo, fra le quali figura la digital literacy, ovvero il livello di alfabetizzazione digitale. Purtroppo nelle scuole italiane assistiamo spesso a un fenomeno di “colonizzazione” dello spazio didattico da parte delle tecnologie digitali. Lo sviluppo della digital literacy comporta l’introduzione nello spazio-tempo della classe, e della didattica,  di strumenti iperconnessi alla rete, aperti al marketing e alla lingua dei social network. In alcuni casi, specie con gli adolescenti, il linguaggio e le forme di comunicazione impoverite acquisite attraverso un certo uso dei social network, insieme alle informazioni prive di fonte copia-e-incollate da blog e siti d’approfondimento utilizzate per “ricerche”,  finiscono per assumere un ruolo centrale anche nell’uso che i ragazzi e le ragazze fanno in classe delle tecnologie digitali, mettendo in secondo piano la finalità educativa dell’accesso alla rete. Perché, secondo lei, la scuola italiana si affaccia alla digital literacy sollevando questa contraddizione?

Tullio De Mauro:  La scuola italiana è mediamente molto indietro dal punto di vista dell’accesso rapido alla rete essendo largamente priva, negli edifici, della banda larga e della possibilità quindi di accesso rapido alla rete. Il processo di informatizzazione e con ciò di accessibilità alla rete degli edifici scolastici è stato molto più lento di quello che ha interessato gli edifici di altri settori della Pubblica Amministrazione. Io credo che questo sia stato un danno perché, con la capacità di guida da parte degli  insegnanti, la possibilità di accedere alla rete potenzia l’apprendimento.

Quanto invece agli effetti contraddittori della digital literacy bisogna partire dal linguaggio. Il linguaggio porta con sé le possibilità di un uso conformistico, anche senza rete. E la rete come potenzia le possibilità di differenziare e rendere originale per maggiore densità di riferimenti il nostro parlare e il nostro scrivere, così porta con se naturalmente i suoi standard, o meglio degli standard omologanti, che possono giocare nella direzione opposta. Questo dipende molto dall’uso che sappiamo farne. Quindi il problema mi pare che si sposti largamente sulla qualità dei nostri insegnanti, sulla loro disponibilità a interagire con il patrimonio di cultura che c’è nella rete.

E temo che però siamo un po’ in una condizione problematica perché il nostro corpo insegnante è invecchiato anagraficamente, è stato selezionato e s’è formato in modo accidentale, è stato tormentato dal precariato, e questo vale anche per chi oggi è stato assunto a tempo indeterminato. Molti passano i migliori anni in una condizione di precarietà senza la possibilità di sviluppare un vero progetto didattico a lungo termine. Inoltre la formazione degli insegnanti è stata – per colpa delle Università, non degli insegnanti – povera di attenzione a quelle che chiamiamo “competenze trasversali”, che dovrebbero essere prioritarie in tutte le materie che si insegnano, nell’apprendimento, in tutte queste cose messe insieme. Rispetto a questo piano l’Italia non è messa bene, anzi siamo messi maluccio. Ce lo dicono le esperienze internazionali, tante oramai, rilevate con una qualche sistematicità. Quest’anno dovrebbe uscire un rapporto complessivo dell’OCSE proprio sulle competenze informatiche degli insegnanti, l’inserimento e i reclutati, che sottolinea come l’introduzione delle competenze informatiche abbia un effetto divaricante: se gli insegnanti sono ben preparati l’effetto è ottimo, se non sono preparati abbiamo dei casi clamorosi di peggioramento del rendimento degli alunni.

Marco Ambra: Nella sua rubrica su Internazionale ha scritto che «capire cos’è la scuola per un paese è più complicato che badare solo a dollari e test».  Come la mettiamo con la “cultura della valutazione oggettiva”  introdotta nella scuola e nell’Università italiane dalle pratiche dell’ ANVUR e dell’INVALSI? Non le pare che abbia preso piede un approccio che si dichiara oltre-ideologico ma che invece nasconde una visione dell’apprendimento iper-ideologica e che potremmo definire “valutazionismo”?

Tullio De Mauro: La cultura della valutazione ha preso piede in modo un po’ confuso, nell’ANVUR, nei gruppi dirigenti, in alcuni settori degli economisti che si occupano dell’INVALSI e di scuola. Però in complesso la nostra tradizione culturale non capisce e non condivide la valutazione oggettiva nello stile. Se si sviluppasse bene un processo di acquisizione della capacità di valutazione oggettiva da parte degli insegnanti, in dialogo con veri esperti dell’INVALSI, le cose forse migliorerebbero. Sarebbe necessaria una crescita delle competenze a livello dirigente e quindi anche una crescita della consapevolezza dei limiti di ogni valutazione oggettiva rispetto alla realtà del processo educativo che è più complicato. Cosa che i veri grandi esperti sanno bene.

E sarebbe necessario, accanto a questa crescita di competenza del livello dirigente,  uno sviluppo di dialogo con le scuole, di una sperimentazione che accolga l’esperienza delle scuole, che renda familiari questi strumenti alla generalità degli insegnati, che imparino a adoperarli loro senza subirli, senza averne paura.  Naturalmente tutto questo è possibile sole se diventa chiaro che la valutazione è un indicatore non l’indicatore di che cosa succede nelle scuole. I risultati della valutazione devono far capire il sistema d’istruzione dal punto di vista nazionale, non devono essere strumentalizzati per  punire o premiare l’insegnante tal dei tali. Invece se si afferma il sospetto che l’obiettivo sia questo, premiare o punire il singolo insegnante, troveremo delle resistenze a far acquisire una sperimentazione della valutazione.

Marco Ambra:  La sensazione che emerge dalle analisi che abbiamo ospitato su il lavoro culturale è che i meccanismi con cui l’ANVUR o l’INVALSI hanno organizzato in questi anni il Sistema Nazionale di Valutazione siano improntati alla logica del travaso di pratiche e conoscenze dall’alto (gli uffici tecnici degli istituti di valutazione)  verso il basso (la scuola) propria del dispotismo illuminato. Ad esempio i  Piani di Miglioramento dell’Offerta Scolastica tarati sui risultati dei test INVALSI, somministrati ai ragazzi da insegnanti ed “esperti” della valutazione, vengono stilati sulla base di criteri (quelli dei punteggi relativi ai test standard) che vengono a loro volta elaborati apriori rispetto alla pratica multiforme della valutazione in classe…

Tullio De Mauro:  Ahimé sottoscrivo pienamente questo punto di vista. Per quanto mi riguarda mi sono rifiutato di aggregarmi all’INVALSI senza la possibilità anzitutto di un discorso autocritico e in secondo luogo senza l’apertura di un discorso generale con gli insegnanti, rispetto alle opportunità e alle possibilità della valutazione. In cui credo, se fatta bene. Se rimane cioè uno strumento.

 

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