È da poco uscito Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, a cura di Federico Zappino, Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini (Mimesis 2014).
Come si legge in quarta di copertina, «Viviamo oggi in tempi politicamente interessanti: tempi in cui vecchie parole d’ordine, significanti di appartenenze precise, vengono rimbalzate da un campo all’altro, svuotate di senso e di significato, appiattite su una dimensione astorica e acritica, in nome del mito della fine delle ideologie, oppure strumentalizzate ai fini della ragione neoliberale. In questo scenario, Genealogie del presente intende riaprire lo spazio di un pensiero critico in grado di svelare la profondità semantica e ideologica delle parole del discorso politico, bucando la superficie della retorica ufficiale ed esasperando le sue aporie. Diciotto interpreti acuti del presente, uniti in un comune percorso di ricerca che si snoda lungo un lessico di diciotto voci […], la cui analisi critica appare fondamentale per una comprensione delle poste in gioco della nostra epoca». Del “Preludio” dei tre curatori offriamo, oggi, un breve estratto.
Pare che un’antica maledizione cinese – richiamata di recente con indubbia suggestione nel titolo di un libro di Slavoj Žižek e, ancora prima, in quello dell’autobiografia di Eric Hobsbawm – auguri ai propri nemici di «vivere in tempi interessanti». Cosa sono i tempi interessanti? Tempi caotici, mutevoli, sfuggenti. Tempi di depressione, di crisi, di povertà – tempi in cui gli antichi dei sono fuggiti e quelli nuovi ancora tardano a fare il loro ingresso; in cui i punti d’appoggio consueti sfuggono alla presa e tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. Un’immagine potente. Un’immagine, soprattutto, che sembra rappresentare alla perfezione il passaggio storico che stiamo attraversando. Ma attenzione a lasciarsene irretire. Ogni rappresentazione, per essere veramente tale, richiede di essere contestualizzata in un determinato regime di senso, un preciso ordine del discorso che le conferisca intelligibilità e verosimiglianza. In altri termini: si badi a non trasformare un effetto di potere in una condizione oggettiva, in un orizzonte destinale. Anche il disordine e lo spaesamento, per quanto possa sembrare paradossale, devono essere decostruiti.
Nell’ultimo mezzo secolo abbiamo assistito a mutamenti epocali nella costituzione materiale della realtà istituzionale, economica e sociale: su tutti, la crisi della mediazione e della rappresentanza; l’affermarsi del paradigma postfordista e di politiche neoliberali (e neoliberiste); infine, la progressiva erosione del progetto egualitario, che pur non essendone l’unico fattore, inevitabilmente confluisce nella progressiva erosione del progetto storico della sinistra. Mutamenti che hanno indubbiamente indotto un forte disorientamento tanto nella teoria quanto nelle pratiche politiche. Cionondimeno, non saremo così sprovveduti da ritenere che tutta l’entropia del nostro mondo abbia cause, per così dire, “naturali”. Ciò a cui assistiamo, piuttosto, è la creazione artificiale di un surplus di confusione come instrumentum regni, attraverso cui governo della crisi e governo del linguaggio sembrano coincidere: un accecamento indotto al fine di spostare l’attenzione e la sensibilità politica sul terreno di conflitti immaginari, consentendo il mobilitarsi, di volta in volta, e secondo geometrie variabili, di popoli e fronti antagonistici diversi.
I “tempi interessanti” sono costitutivamente ambigui. Sono maledizione, e al contempo augurio. La maledizione ci espone al rischio costante della falsa coscienza, del trompe-l’oeil dell’ideologia, tanto più ingannevole nel momento in cui la forma oggi dominante dell’ideologia è quella che sancisce la fine di tutte le ideologie, celandosi dietro alla tecnica e alla presunta oggettività dei saperi economici. L’augurio ci invita invece a non sottovalutare il potenziale di rinnovamento che pure abita i tempi interessanti, la loro ostilità alla sclerosi delle ortodossie e alla fissità delle tradizioni etico-politiche: un kairós, che è soprattutto occasione per dotarsi di altre categorie di analisi, per liberarsi di quelle rese inservibili, per ricalibrare quelle fuori asse, per ri-significare quelle de-significate.
Genealogie del presente vuole allora assumere una postura diversa sul contemporaneo. Una postura che tenti innanzitutto di portare un contributo all’esigenza, in questo momento particolarmente diffusa, di strumenti di comprensione che siano al contempo strumenti di lotta.
Il desiderio che ha animato questo lavoro, fin dalle prime battute, era che ciascuno dei percorsi che avremmo proposto potesse contribuire a cartografare, o a esplorare, una piega del linguaggio che informa le nostre esistenze. A mano a mano che il lavoro procedeva ci pareva sempre più chiaro che le singole voci concorressero nell’insieme a un’impresa di nomadismo intellettuale, a un tentativo collettivo via via più limpido di sottrarsi, per quanto possibile, a ogni territorializzazione dogmatica, inteso come presupposto per un pensiero del presente. Un sottrarsi che, per certi versi, sembra richiamarsi a ciò che Hannah Arendt definisce «pensare senza ringhiera»: un modo di pensare, cioè, il cui potenziale trasformativo espone a veri e propri «pericoli» e che, paradossalmente, «non fa chissà che bene alla società», dal momento che «non crea valori, non scopre una volta per tutte cosa è “il bene”, e non conferma ma semmai dissolve le regole consolidate di comportamento»[1]. Un modo di pensare la cui «rilevanza politica», scrive ancora Arendt parafrasando W. B. Yeats, «balza in primo piano solo nei rari momenti della storia in cui le cose si perdono, il centro non tiene più | la pura anarchia si scatena nel mondo»[2].
[…]
Un pensiero della contingenza non può riporre alcuna fede nel presunto “senso delle parole”, quel senso – celebrato e fossilizzato a un tempo – mediante il quale i tentativi di governo del linguaggio liquidano ogni forma di politica a venire. Genealogie del presente, di conseguenza, si propone di spostare l’accento dalla dimensione semantica delle parole a quella performativa[3]; ciascuna delle singole voci tenta infatti di circoscrivere e seguire le tracce, sedimentatesi nella lingua comune, dei cambiamenti e delle metamorfosi, ma anche delle ambigue risignificazioni, degli svuotamenti e delle forzature a cui è stato sottoposto il linguaggio politico, così come, di conseguenza, il “politico” tout court.
Al fine di denunciare la rimozione subìta da alcune parole – rimozione che si verifica ogniqualvolta si privilegia un loro presunto senso “obiettivo” rispetto al loro compito “operativo” –, e affinché il pensare senza ringhiera potesse accogliere le aporie del linguaggio, abbiamo scelto di svolgere un lavoro di genealogia; lavoro del resto diametralmente opposto a quello di quanti pretendono di svelare il senso “autentico”, “vero” delle parole, finendo irrimediabilmente col consegnarle a una ipostatizzazione ideologica o, in maniera speculare, nell’ancorarle a un’utopica origine.
A questa “origine” di cui va in cerca da sempre la filosofia, Michel Foucault, volgendo lo sguardo a Nietzsche, propone di contrapporre due altri termini che meglio delineano le coordinate del lavoro genealogico: «provenienza» (Herkunft) ed «emergenza» (Entstehung). Il primo termine individua, dietro l’apparente unità e fissità dei concetti, il proliferare degli avvenimenti attraverso cui essi sono andati formandosi: chi fa genealogia, di conseguenza, non si pone l’obiettivo di risalire alla radice di un tempo colto nella sua presunta continuità, o per mostrare come quel che era originariamente si sia mantenuto inalterato sotto la coltre dell’oblio, magari truccando le carte della storia, imponendo «a tutte le traversie del percorso una forma disegnata sin dall’inizio»[4]. Chi fa genealogia, al contrario, mira a reperire gli scarti, le frizioni, le deviazioni da quella linea retta che si pretenderebbe di tracciare a partire dall’origine; mira a «scoprire che alla radice di quel che conosciamo e di quel che siamo – non c’è la verità e l’essere, ma l’esteriorità dell’accidente»[5]. Fare una genealogia del lessico politico contemporaneo significa mostrare come i concetti attorno a cui si articola, spesso presentati alla stregua di verità naturali e indubitabili, si siano in realtà formati a partire da strategie discorsive molteplici, traiettorie di pensiero di epoche diverse, rappresentazioni persuasive o falsamente universali; significa anche dar conto delle opposizioni, delle tensioni, delle rotture e delle inversioni che i loro significati, prima di diventare egemoni, hanno dovuto vincere e superare; significa infine comprendere come essi non vadano a comporre una figura monolitica, solida e coerente, bensì «un insieme di faglie, di crepe, di strati eterogenei che la rendono instabile»[6]. Ecco perché la genealogia «non fonda, al contrario: inquieta quel che si percepiva immobile, frammenta quel che si pensava unito; mostra l’eterogeneità di quel che s’immaginava conforme a se stesso»[7].
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Avvalendosi di una certa retorica della necessità di un determinato lessico, del suo uso come del suo senso più proprio, il governo del linguaggio inscena un’operazione di trasparizione delle parole: obliterandone il significante, così gravido di stratificazioni opache, travagliato dai continui abusi e dalle peripezie della storia, le parole vengono rese trasparenti, conformi a se stesse e al loro utilizzo, e in tal modo funzionali a un preciso orizzonte di senso. A un preciso rapporto di potere.
Questa usura, tuttavia, in apparenza scriteriata o irragionevole, pare piuttosto perfettamente funzionale alla logica propria della società dello spettacolo. Così come in essa le immagini appaiono svuotate di qualsiasi intensità, ridotte a mere comparse il cui rapido avvicendamento non lascia spazio a una storia o a un uso[8], similmente il discorso politico odierno pare intenzionato ad avvalersi della proliferazione di determinati concetti, carichi di una precisa tradizione e di un altrettanto preciso orizzonte, ma che una volta convocati restano come muti, vittime di un processo di esaustione che ne preclude qualsiasi carica critica. Consegnate in tal modo a questa forma neutralizzata di circolazione, impossibilitate a recare quanto ancora in loro resta inascoltato o incompiuto, tali parole sembrano così colpite da quella che Bernard Noël definisce (inventandosi per l’occasione un neologismo) «sensura». Accanto alla pratica consolidata della censura, infatti, l’epoca a noi contemporanea avrebbe assistito secondo Noël all’emergere di un’altra, inaudita, forma di privazione: una privazione che lungi dal reprimere l’uso di una data parola, ne produce al contrario una forma di dicibilità che si esplica nell’erosione della sua ricchezza di senso. Una privazione che, formalmente, non contraddice alla costituzionale libertà di parola: «poter dire tutto», infatti, è «una delle più sottili astuzie della SENSURA»[9].
Una genealogia del lessico politico contemporaneo, di conseguenza, non può che prendere le mosse da istanze che a questo processo sono del tutto antitetiche: il suo compito – ma ve n’è più d’uno – è anzitutto quello di riconoscere nello stesso lessico politico uno degli strumenti privilegiati della retorica della dominazione, e dunque il terreno su cui è possibile attivare delle resistenze. Si tratta, in altre parole, di porsi all’interno di questo spazio di circolazione discorsiva per recuperare ciò che deborda dalla pronuncia ufficiale e ordinata, rintracciando così in quell’apparente armonia con cui le parole sembrano risuonare, le saldature dei montaggi che le sorreggono, così come i brusii prodotti dalla loro costruzione. Un simile lavoro genealogico renderà forse possibile aprire le parole – il loro uso, la loro disseminazione – anche al di là di se stesse […].
Il gesto di interrogazione che qui proponiamo non deve essere confuso con una immissione nell’ordine del discorso di parole d’ordine “alternative” che, a fronte della crescente opacità del mondo, mirino a offrire una qualche leggibilità ad eventi altrimenti consegnati alla catastrofe. Tendenza, questa, ben esemplificata invece da quella fiducia, spinta fino al parossismo, che spesso permea la circolazione di parole dal sapore mitologico, e che condiziona lo stesso orizzonte di attesa con cui ogni nuovo discorso è ascoltato e accolto, come se non si trattasse più di condividere o comunicare, bensì di rispondere a un’ineludibile richiesta di orientamento e guida [Sacrificio, Costituzione, Trasparenza, Legalità].
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A fortiori, lo stesso effetto viene prodotto da quei termini che, investiti di una certa carica emotiva, si pongono come efficaci catalizzatori di consenso: basti pensare ai tentativi di riunire un corpo sociale frammentato attraverso l’utilizzo sistematico di parole che hanno lo scopo di erigere un totem a cui legare gli attaccamenti appassionati dei singoli, stendendo un velo di apparente omogeneità su una realtà che è invece attraversata da molteplici conflitti e rapporti di potere [Responsabilità, Governabilità, Eccellenza, Bene comune].
A questo occultamento fa al contempo da contraltare una produzione discorsiva così parodica del conflitto sociale da veicolarne un’immagine spesso pervasa da un vistoso alone di irrealtà. Una parodia, è utile sottolinearlo, che non ha qui nulla di ironicamente sovversivo. Il sottotesto parodico della narrazione del conflitto sembra semmai funzionale a una duplice logica: da un lato, quella dell’offuscamento delle tensioni che effettivamente squarciano, in maniera sotterranea, le strutture e le relazioni sociali – tensioni che, non appena affiorano in superficie, vengono prontamente stigmatizzate, sia con la forza dei media sia con quella dell’ordine. Dall’altro lato, la logica risponde a una lenta, ma progressiva, demonizzazione del conflitto tout court. Benché la lotta di classe non si sia affatto estinta ma si sia semmai riterritorializzata, ciò a cui si assiste è al contrario la forclusione dal discorso pubblico di qualunque traccia di questo fardello […]. Al suo posto, ecco acquisire un incommensurabile valore le dicotomie “conflittuali” casta/società, partito/movimento, palazzo/popolo, vecchi/giovani ecc. E il modo attraverso cui si procede al disciplinamento di questi conflitti consiste proprio nell’immissione di specifiche parole d’ordine, la cui densità semantica viene del tutto subordinata alla duplice logica offuscamento/demonizzazione [Società, Popolo, Movimento].
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Questa operazione, infine, funziona anche in direzione opposta. Accanto alla creazione di falsa conflittualità attorno a significanti vuoti artatamente messi in circolazione nel discorso pubblico, il governo del linguaggio lavora anche attraverso la neutralizzazione e il depotenziamento di concetti che, se non accuratamente disciplinati, rischiano di rivelarsi potenzialmente esplosivi [Democrazia, Destra / Sinistra, Eguaglianza, Povertà, Precarietà, Crisi, Futuro]. Affinché il dispositivo di pacificazione e amministrazione controllata del conflitto possa risultare efficace, si rende cioè necessario cancellare le tracce dei possibili usi linguistici che minacciano di eccedere e far saltare quel meccanismo; possibilità già storicamente realizzate o ancora solo potenziali, ma comunque alternative all’ordine socio-simbolico vigente. Ogni profondità semantica deve essere appiattita a superficie retorica.
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INDICE
Preludio
di Lorenzo Coccoli, Marco Tabacchini e Federico Zappino
Bene comune. E beni comuni: le ragioni di una contrapposizione
di Maria Rosaria Marella
Costituzione. Crisi della mediazione e nuovi processi costituenti
di Adalgiso Amendola
Crisi. Del giudizio dei viventi
di Federico Zappino
Democrazia. Crisi e ricerca di altri modi di essere democratici
di Laura Bazzicalupo
Destra / Sinistra. Ragioni di una persistenza
di Francesco Remotti
Eccellenza. Selezione, distinzione, differenza
di Federica Giardini
Eguaglianza. Farla e disfarla
di Gianfrancesco Zanetti
Governabilità. Della resistenza irriducibile del governato
di Sandro Chignola
Legalità. Oltre il cretinismo e il romanticismo
di Ugo Mattei e Michele Spanò (consultabile gratuitamente su EuroNomade)
Movimento. Riscattare l’insalvabile
di Marco Tabacchini
Popolo. Destituzione e filosofia
di Pierandrea Amato
Povertà. Appunti per una politica dei poveri
di Lorenzo Coccoli
Precarietà. Della cattura biopolitica delle vite (e della loro potenza)
di Cristina Morini
Responsabilità. Perché darsi in-pegno
di Bruna Giacomini
Sacrificio. Sulla matrice religiosa della relazione tra debito e credito
di Marianna Esposito
Società. Potere, dominio, ordine
di Maurizio Ricciardi
Trasparenza. Una tirannia della luce
di Valeria Pinto
Futuro. (e)scatologia del tempo della crisi
di Lorenzo Bernini
Genealogie del presente è anche su Facebook
Leggi la recensione di Alessandra Pigliaru, Il lessico della trasformazione, apparsa su il manifesto (28 maggio 2014)
Leggi la recensione di Francesco Biagi, apparsa su Scienza e pace. Rivista del centro interdisciplinare Scienze per la pace – Università di Pisa (14 giugno 2014)
Leggi la recensione di Anna Simone, apparsa su alfabeta2 (28 giugno 2014)
Leggi la recensione di Paolo Caloni, Dentro la retorica del dominio, apparsa su La Balena Bianca (20 luglio 2014)
Leggi la recensione di Maria Rossi, apparsa su Femminismo e materialismo (10 settembre 2014)
Leggi la recensione di Marco Liberatore, Parole sciupate, significati contesi, apparsa su Doppiozero (30 ottobre 2014)
Leggi la recensione di Elia Verzegnassi, apparsa su Nazione Indiana (19 novembre 2014)
Note
[1] H. Arendt, Il pensiero e le considerazioni morali (1971), ora in Ead., Responsabilità e giudizio, a cura di J. Kohn, Einaudi, Torino 2010, p. 162. L’espressione «pensare senza ringhiera», tuttavia, è reperibile solo in Ead., Quaderni e diari 1950-1973, a cura di U. Ludz e I. Nordmann, Neri Pozza, Vicenza 2007: «Ho una metafora che non ho mai pubblicato, ma conservato per me stessa, la chiamo pensare senza ringhiera. In tedesco Denken ohne Geländer. Si va su e giù per le scale, si è sempre trattenuti dalla ringhiera, così non si può cadere. Ma noi abbiamo perduto la ringhiera, questo mi sono detta».
[2] Arendt, Il pensiero e le considerazioni morali, cit., p. 162.
[3] Similmente, Georges Bataille ebbe a sostenere che il progetto di un «dizionario» prende le mosse nel momento preciso in cui non si dà più il senso, ma i «compiti delle parole», alludendo alla specifica posta in gioco che presiede a ogni enunciazione (G. Bataille, Informe [1929], in Id., Documents, a cura di S. Finzi, Dedalo, Bari 1974, p. 165).
[4] M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 35.
[5] Ivi, p. 36.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] Come mette bene in risalto Susan Sontag (in Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003), «vi sono casi in cui la ripetuta esposizione a ciò che sciocca, rattrista o atterrisce non logora una reazione profonda. L’assuefazione non è automatica, perché le immagini (portatili, inseribili) obbediscono a regole diverse da quelle a cui è soggetta la vita reale» (p. 80); questa sua considerazione è funzionale all’analisi di «due idee molto diffuse»: «la prima idea sostiene che l’attenzione del pubblico sia manovrata dai media – e dunque, in maniera preponderante, dalle immagini. Se ci sono fotografi, una guerra diventa “reale”»; la seconda idea «sostiene che in un mondo saturo, anzi ipersaturo, di immagini, diminuisce l’impatto di quelle che dovrebbero avere importanza: diventiamo insensibili. Alla fine, tali immagini non fanno che renderci meno capaci di partecipare, di avvertire il pungolo della coscienza» (p. 99).
[9] B. Noël, Le sens, la sensure (1985), in Id., L’outrage aux mots, P.O.L., Paris 2011, p. 163, trad. nostra.