Come il capitalismo dei social prosciuga il desiderio e desertifica l’esperienza creativa.
In molti hanno visto e discusso The social dilemma, il documentario Netflix che racconta le conseguenze drammatiche sul piano relazionale e percettivo della sfera pubblica e privata plasmata dai social network. C’è un aspetto che il documentario non tratta ed è però altrettanto interessante: come l’algoritmo del “social capitalism” (chiamiamolo così per facilitarci la vita) abbia il potere di sterilizzare il valore dell’esperienza creativa e il suo assorbimento da parte di un pubblico.
Cosa c’entra la profilazione dell’utente social da parte delle piattaforme di condivisione, la pressione al consumismo d’impulso, la polarizzazione emotiva dei flame sulle bacheche, con la creazione di manufatti artistici o artigianali e con il tipo di relazione che il destinatario sviluppa con essi? Molto. Proviamo a fare tre esempi per chiarire il nesso sotteso alle dinamiche messe in campo nella realtà ibrida tra vissuto fisico e virtuale che ormai tutti abitiamo.
L’inaugurazione del murale per Gigi Proietti nel popolare quartiere romano del Tufello, arrivata a meno di una settimana dal suo funerale. Non stiamo parlando di un gesto spontaneo di un writer particolarmente affezionato all’attore ma di un’opera commissionata dal municipio di appartenenza dell’edificio (dove Proietti visse la sua infanzia) sulla cui facciata è stato dipinto il ritratto. Non è l’unica operazione celebrativa del popolare attore: pochi giorni dopo la sua morte un suo ritratto viene disegnato da un writer sulla saracinesca del teatro Brancaccio, diretto da Proietti per diversi anni, un altro murale viene terminato al Trullo, altro quartiere periferico della Capitale, un altro è in fase di autorizzazione e raccolta fondi a Torpignattara. Sempre al Tufello, le autorità municipali hanno posto una targa a ricordo di Proietti, mentre il comune durante le esequie gli ha formalizzato l’intitolazione del teatro Golden Globe, di cui era direttore artistico. Sempre su Lavoro Culturale avevo riflettuto sul rischio della “muralizzazione” delle periferie come “trompe l’oleil del cambiamento”. In altre parole, se da una parte il fiorire di grandi murales nei quartieri della cintura romana era un’occasione importante di ricodificare tramite l’occhio dello straniero la percezione di se stessi, libera o quantomeno non delimitata da stigmi antichi, dall’altra, il sempre crescente protagonismo delle istituzioni nel commissionare opere di street art rappresentava il germe di una politica comunitaria che sempre di più nasconde il segno sotto il tappeto del simbolo. Sotto ai bellissimi murales di Torpignattara, San Basilio, del Trullo e di Tor Bella Monaca, il disagio sociale e l’isolamento culturale e persino geografico continuavano pressoché immutati la loro routine. A colpire l’attenzione oggi, è invece la velocità con cui queste operazioni culturali vengono pensate, messe in atto, e digerite. La capitolazione nei confronti del frame imposto dai social è totale. Se un fatto crea una commozione comune, o come si dice ora un sentiment, bisogna metterlo a frutto istantaneamente, prima che l’interesse (o l’hype) svanisca per sempre, e con esso la monetizzazione, letterale o metaforica. Che la politica si fosse acciambellata ai piedi dei social, era chiaro da un pezzo. Che anche la politica culturale si muova ormai come il consumismo d’impulso che ha fatto grandi Amazon, Facebook e Google, lasciandoci lo stesso vuoto, è una profonda tragedia.
Il capitalismo social ha cambiato fin nel midollo anche la produzione musicale, a partire dalla fruizione. Esistono precedenti di nuovi supporti in grado di cambiare paradigmi (con le audiocassette fiorisce il mixtape, inteso come compilation di brani da ascoltare come colonna sonora dei propri spostamenti, il digitale disintegra l’importanza dell’album, e così via), ma l’impatto sulla produzione che hanno le piattaforme di streaming come Spotify è davvero massiccio. Lo spiega bene in una riflessione a più puntate Cristiano Godano, leader dei Marlen Kuntz, su Rolling Stone, ma provo a riassumere qui semplificando: l’industria musicale attuale ha sbilanciato totalmente le entrate dalla vendita dei supporti materiali (sebbene i vinili abbiano visto un’inaspettata rinascita nell’ultimo decennio) a quelle legate agli streaming. Piattaforme come Spotify o Youtube favoriscono l’ascolto ripetuto e ossessivo degli adolescenti, la velocità e la facilità di passaggio da un brano all’altro, automatizzata e incanalata dall’algoritmo, servono a moltiplicare gli streaming. Non a caso, da quando è esplosa Spotify anche nel nostro paese, la classifica di album e singoli più venduti (calcolata dalla Fimi su una media ponderata tra acquisti e ascolti su piattaforme premium) si è tarata come non mai negli ultimi decenni su artisti seguiti da adolescenti e pre-adolescenti. Secondo le classifiche diramate il 1° dicembre dalla piattaforma musicale, l’artista più ascoltato nel 2020 è Tha Supreme, seguito da Sfera Ebbasta e da Marracash. Tutti e tre vengono dal mondo del rap, e i primi due in particolare hanno un pubblico con età media bassa (Tha supreme stesso è addirittura nato nel 2001). Se, concerti a parte, i soldi li fanno gli streaming, con annesse sponsorizzazioni di marchi di moda su Instagram e Tik tok, gli artisti puntano su produzioni più rotonde, accattivanti, “piane” potremmo dire, e linguaggi di facile presa per un ascoltatore di 12-13 anni, e vengono premiati dall’algoritmo che li mette in coda nell’ascolto casuale della piattaforma. A sua volta, in un circolo vizioso, Spotify spinge sempre di più questo tipo di produzione che porta una permanenza maggiore del consumatore dentro il “recinto”. Cosa sta comportando questa dinamica? Che i musicisti che fanno una musica più complessa e meno immediata vengono espulsi dal mercato. E più non riescono a camparci, meno sono spinti a provare quella musica. Facciamo un esempio per paradosso: se Lazza, nome d’arte del trapper Jacopo Lazzarini, che ha studiato pianoforte al conservatorio, avesse proposto musica “colta” invece che pezzi trap, oggi probabilmente avrebbe bisogno di fare un altro lavoro per vivere. Il capitalismo social spinge la produzione musicale a un appiattimento verso generi e artisti che si adattano meglio all’ascolto compulsivo, distratto e bulimico di musica dei millennials.
Il terzo esempio parte dalla polemica relativa al primo, e speriamo unico, black friday in tempo di pandemia. Preoccupati per l’incertezza delle condizioni restrittive e per la perdurante crisi economica, i grandi gruppi di e-commerce hanno puntato su un’anticipazione degli sconti, una sorta di black friday prolungato, per tentare di tirare fuori dalle tasche dei consumatori quanti più soldi possibili prima possibile. Difficile non notare, in questo senso, l’attivismo di Amazon con spot pre-natalizi già dai primi giorni di novembre. Da più parti sono stati levati gli scudi contro il gigante dello shopping online che ha divorato pezzi importanti di fatturato dai settori di economia tradizionale con cui compete. “Comprate dalle botteghe sotto casa, puntate sui produttori locali, sui prodotti artigianali”. I difensori del liberismo hanno accusato: perché i produttori locali non imparano una volta per tutte a costruire siti di e-shop consumer-friendly, così come fa Amazon, che permette di comprare le alici di Cetara, l’aceto balsamico di Modena Dop, e gli orecchini di perla con vetro di Murano senza alzarsi dalla poltrona?
Ci ho riflettuto e mi sono ricordato della sensazione di grande frustrazione provata quando ho provato ad acquistare del cioccolato di Modica dal sito della Casa Don Puglisi, una cooperativa della cittadina del ragusano che associa ad attività a fini sociali una pasticceria superba, con – a mio sindacabile giudizio – il migliore cioccolato tradizionale di Modica. Il sito è costruito come una vetrina digitale in pieno stile anni ’90. Comprare è quasi impossibile, devi mandare una mail, senza poter consultare un elenco chiaro. Ho comprato dunque da un’altra pasticceria storica che invece è presente su Amazon. Le barrette che mi sono state consegnate a casa erano buone, ma mancava qualcosa. Cosa? Ho affinato la sensazione quando, di ritorno da Modica, un’amica mi ha portato una barretta dalla Casa Don Puglisi. Più buona, eppure…
Eppure mancava l’esperienza. L’entrare nella bottega ai piedi del centro antico di Modica, la chiacchiera con la signora dal sorriso sereno che ti fa assaggiare i tipici dolci ripieni di carne e cacao (proprio così), aggirarsi tra gli espositori con decine di varianti della stessa tavoletta di cioccolato. Sempre in Sicilia, a Castelbuono, sulle Madonie, ha sede la pasticceria della famiglia Fiasconaro. Producono un panettone diventato famosissimo a livello nazionale e internazionale. Dolce & Gabbana hanno collaborato a una confezione speciale lo scorso inverno, le boutique di alimentari più quotate di Roma e Milano lo vendono, e naturalmente si trova anche su Amazon. Eppure, mi chiedo, riuscirei ad apprezzarlo allo stesso modo, quasi a provare affetto verso questo prodotto di pasticceria siciliana, se non lo avessi scoperto oltre quindici anni fa, proprio a Castelbuono, durante un assaggio volante in pieno agosto, nel bel mezzo del meraviglioso festival musicale Ipsygrock, che convogliava nel piccolo comune montanaro migliaia di ragazzi da tutta Italia?
E ancora: durante il viaggio della vita, a 31 anni, un mese in solitaria per l’Argentina, dalle Ande fino alla terra del Fuego, scoprii il dulce de leche. Grossomodo è crema mou, che gli argentini spalmano sulle fette di pane a colazione. Ricordo l’ostello di Buenos Aires, la sensazione di piacere allegro nel mangiarlo la prima volta e quella che mi ha accompagnato ad ogni colazione in terra di tango. Prima di imbarcarmi sull’aereo del ritorno, ne ho ficcato due grossi barattoli in valigia. Eppure, il sapore del dulce de leche consumato nel mio cucinino di via Caianello, periferia Est di Roma, non era lo stesso. A stento finii le scorte, così come per quelle di yerba mate, che con tanta partecipazione mi scambiavo in viaggio con perfetti sconosciuti. Anche la marca più conosciuta di yerba mate, Rosamonte, si trova in vendita su Amazon.
L’algoritmo, in questo caso delle piattaforme di e-shopping (che però ti vengono a bussare direttamente su Facebook o Instagram), ti promette la felicità dell’esperienza in pochi click, in poche ore, direttamente a casa tua, tutte le volte che vuoi. Mente, ma l’obbiettivo del resto non è mantenere una promessa. Il punto è placare l’impulso poco dopo l’acquisto. L’importante è non permettere che l’impulso si trasformi in desiderio. La base del consumismo nevrotico dettato dai social è la sensazione costante di inappagamento, a cui segue a stretto giro la promessa di una risposta migliore e definitiva, in una sempre più fiaccante coazione a ripetere. La conseguenza – forse secondaria per il capitalismo social, ma di certo non per l’essere umano e per le comunità che abita– è che la concretizzazione che arriva prima del tempo dell’immaginazione, e ancora peggio del desiderio, estingue l’istinto vitale e, in un certo senso, rappresenta l’eclissi dell’atto di creazione stesso.