Conversazione con Martina Parenti e Massimo D’Anolfi.
In occasione di Filmmaker, abbiamo incontrato i registi Martina Parenti e Massimo D’Anolfi. Guerra e Pace, Il loro ultimo lavoro presentato nella sezione Orizzonti della 77esima edizione della Mostra internazionale di Venezia, è stato film d’apertura del festival milanese appena concluso.
SIMONA ARILLOTTA: Ho visto il vostro ultimo film Guerra e Pace diverse volte: in occasione dell’ultimo festival di Venezia, dove il film è stato presentato nella sezione Orizzonti, e di nuovo grazie a Filmmaker, dove Guerra e Pace era film d’apertura del festival. Tra le molte qualità di questo film vi è quella per cui ogni visione non è mai uguale alla precedente. Come per il sistema delle scatole cinesi, ogni volta emerge qualcosa di nuovo tanto da rendere impossibile un’interpretazione vincolante, univoca. È come se il film interrogasse costantemente chi sta guardando. Vorrei allora partire proprio da questa centralità che assume lo sguardo all’interno del vostro film: non solo di chi guarda adesso – noi spettatori – ma anche quello veicolato dal materiale d’archivio che voi utilizzate e, infine, il vostro sguardo, che nuovamente guarda e si propone come tramite.
MASSIMO D’ANOLFI: Questa potrebbe, di fatto, essere già una sintesi della direzione in cui lavoriamo. Già da Spira Mirabilis (2016), ma ancora prima con Il castello (2011), la figura geometrica che rappresenta il nostro lavoro è certamente il triangolo, nel senso di un continuo dialogo tra chi i film li realizza, chi guarda e chi è contenuto nel film. Questo meccanismo chiaramente richiede che chi guarda il film si lasci interrogare a partire dalle immagini, e non tutti hanno voglia di stare al gioco di una visione che richiede partecipazione, che implica uno scambio continuo e in cui c’è il rischio di perdersi. In particolare, in Guerra e Pace questa struttura a scatole cinesi diventa radicale e funzionale al film stesso. I quattro capitoli sono stati realizzati a partire da luoghi che intrattengono un rapporto peculiare con la guerra stessa: l’Istituto LUCE e la Cineteca Nazionale, in cui la guerra è contenuta nelle immagini d’archivio; la Farnesina, dove i monitor trasmettono costantemente le immagini che arrivano da zone di guerra – ma non solo – e in cui la visione avviene quasi in diretta; l’ECPAD, la scuola che prepara alle guerre del futuro e in cui si insegna il “mestiere delle immagini” di guerra; infine c’è il futuro “già scritto” custodito negli archivi della cineteca di Losanna – nel caso del nostro film, l’archivio interrogato è quello della Croce Rossa Internazionale.
S.A.: L’archivio assume, dunque, un’importanza centrale all’interno del vostro film. Come avete già detto in altre interviste, in Guerra e Pace l’archivio diventa “dispositivo”. E tuttavia, l’archivio implica sempre una cesura, regola ciò che deve essere conservato e cosa invece rimane fuori. A prescindere dal momento critico in cui ci troviamo, in cui gli archivi sono inaccessibile per ragioni di sicurezza, l’archivio comporta sempre una visione parziale.
MARTINA PARENTI: Tutto il nostro film è un omaggio agli archivi, è una riflessione sul gesto dell’archiviare, ovvero l’importanza che quella cosa venga vista, depositata in un luogo preciso perché ritenuta preziosa, e che abbia dei riferimenti affinché poi possa essere ritrovata. Oggi ci troviamo nel paradosso per cui siamo immersi in un flusso di immagini continue, sempre più spesso realizzate da chi la guerra la subisce e che ci arrivano contemporaneamente agli eventi – e questo è evidente soprattutto nel secondo capitolo di Guerra e Pace, in cui al Ministero degli Esteri si assiste ad una visione continua di filmati e immagini provenienti da zone di guerra o di attentati e caricate quasi in diretta su Twitter, YouTube o Telegram – ma che rischiano di perdersi nei grandi server che non hanno un sistema di archiviazione adeguato tale da rendere questi materiali nuovamente visibili.
MASSIMO D’ANOLFI: Tutto il materiale girato che, una volta caricato sulle diverse piattaforme, si trasforma in big data, comporta una sorta di auto-archiviazione alla quale ognuno di noi contribuisce – noi salviamo e, quando facciamo il nostro upload, mettiamo un tag cosicché altri utenti poi possano cercarlo. Tuttavia il rischio di falsificazione è sempre in agguato, e questo diventa ancora più problematico se si tratta di immagini di guerra. Faccio un esempio: se io carico il video di un attentato e dico che è successo in Siria, però in realtà quella cosa è accaduta in Iraq, chi vedrà quel video su YouTube avrà le competenze per capire l’errore? Non credo. Ci troviamo di fronte a un nuovo regime di rappresentazione della guerra, ma il problema di questa produzione incontrollata di immagini è che, spesso, si crea grande confusione. Con Guerra e Pace abbiamo provato a dare un senso a delle immagini che altrimenti sarebbero rimaste delle schegge impazzite nell’entropia della rete. Perché la domanda retorica che ci siamo posti è stata: perché continuare ad archiviare se non sappiamo che cosa vi è contenuto e non diamo valore a quegli archivi? Noi abbiamo provato a dare una risposta – parziale, certo – facendo questo film. Chiaramente questo lavoro può indicare una strada, ma il tentativo che abbiamo fatto è stato quello non solo di ridare un valore alle immagini, ma di archiviarle nuovamente all’interno del nostro film.
S.A.: Guerra e Pace è formato da quattro tempi – passato remoto, passato prossimo, presente e futuro – che corrispondo anche ai quattro capitoli di cui è composto il film, e che conferiscono alla sua struttura la forma del film-saggio, un film libro che quasi possiamo sfogliare. Da cosa è dipesa la scelta di questa “impalcatura”?
MARTINA PARENTI: Il titolo ci ha certamente indirizzato sulla costruzione e sul montaggio, perché credo che fare un film sul valore delle immagini comporti inevitabilmente una scansione “libresca”; ad ogni modo, il film comincia con delle riflessioni teoriche sullo statuto delle immagini e poi via via assume una sua peculiare “musicalità” – a proposito di quattro tempi, appunto – un ritmo diverso e particolare.
MASSIMO D’ANOLFI: Se per Spira Mirabilis la forma era quella di un poema visivo, in Guerra e Pace il modello era quello dato da riferimenti come Kapuscinkski, per esempio. La nostra produttrice, Paola Malanga di Rai Cinema, ci teneva che questo film fosse limpido e sorprendente, e di fatto ogni capitolo è spiazzante rispetto a quello precedente: c’è una modalità di messa in scena diversa, ogni parte ha un linguaggio visivo differente.
S.A.: La questione della temporalità è certamente una questione centrale: possiamo parlare della temporalità delle immagini non solo come tempo lineare, dal passato al futuro, ma anche di una temporalità più complessa, stratificata, una temporalità che deve essere costantemente rimessa in gioco, cosa che voi fate attraverso il vostro lavoro.
MASSIMO D’ANOLFI: Quando io e Martina abbiamo pensato questo film, avevamo ben chiaro che il film doveva attorcigliarsi, ri-piegarsi su se stesso. L’ idea che il tempo non potesse essere maneggiato come lineare era il punto di partenza delle nostre riflessioni; non a caso, il titolo dell’ultimo capitolo è Il futuro. Dove tutto è già scritto. Gli archivi rappresentano il filo di Arianna – anche perché in termini di quantità sono forse meno di un terzo della totalità del film – che ci portano dalla guerra italo-turca nel 1910-11, ci fanno fare un salto nella contemporaneità e alla fine invece ritorniamo un’altra volta indietro.
S.A.: Il terzo capitolo, quello sull’ECPAD, è certamente il più spiazzante. E lo è già a partire dal titolo stesso: Il mestiere delle immagini. I militari vengono non solo allenati, addestrati a filmare e fotografare i combattimenti, ma a costruire le immagini a partire da elementi figurati, formali del passato che transitano e ritornano fino ad oggi. C’è un momento in questo capitolo in cui il professore mostra agli studenti La resa di Breda di Velasquez per spiegare come rappresentare la guerra senza tuttavia mostrarla. Mi sembra sia un punto centrale: come costruire un’immagine di guerra a partire dalla pace…
MARTINA PARENTI: A partire dalla prima guerra mondiale, tutti i corpi degli eserciti europei avevano un reparto dedicato alla produzione di immagini foto e cinematografiche, che però nel tempo sono stati dismessi. Il Ministero della Difesa francese invece continua ad avere un dipartimento di comunicazione e produzione audiovisiva (ECPAD) che affonda le sue radici nel 1915 – quando cioè è stato creata – e il cui archivio è appunto conservato in questa scuola militare a Fort d’Ivry-sur Seine. Averlo scoperto è stata per noi una sorpresa, tanto da spingerci a recarci lì e filmare. È chiaro, pur non trovandoci all’interno di una scuola prestigiosa, l’analisi delle immagini è profondamente ancorata agli studi di cultura visuale e teoria delle immagini legati alla tradizione francese. Ad ogni modo ciò che ci ha colpito è questa loro morale pratica, non solo nella costruzione delle immagini, ma anche una “morale dell’archivio”: posso filmare, cosa è lecito mostrare, cosa devo conservare?
S.A.: Rispetto a queste domande, il professore consegna agli studenti una risposta parziale, e forse non potrebbe essere diversamente. Giro allora a voi la domanda: qual è la posizione da assumere davanti al dolore degli altri – per citare Susan Sontag – qual è il limite non solo del filmare, appunto, ma anche del mostrare: in Guerra e Pace voi utilizzate anche delle immagini molto forti: fin dove, allora, è possibile spingersi?
MARTINA PARENTI e MASSIMO D’ANOLFI: C’è una specie di assuefazione all’atrocità delle immagini, e di fronte a questa deriva pericolosa porsi la domanda è fondamentale. Noi nel nostro film ci siamo interrogati non solo su cosa fosse giusto mostrare, ma anche su cosa fosse necessario mostrare – pur nella violenza stessa delle immagini – e come dargli il giusto valore. C’è una frase della Sontag che ci ha guidato: possedere il mondo sotto forma di immagini significa riscoprirne costantemente l’irrealtà e la lontananza dal reale. Questa è stata la nostra chiave: le immagini non sono la realtà, e non ci sono formule matematiche che ti indicano dov’è il limite e che ti garantiscono qual è il punto di non ritorno. Non c’è una regola aurea che vale per ogni film, la domanda va fatta di volta in volta e ogni volta ci si interroga; ci vogliono delle analisi nuove, che ogni volta devono tenere conto di nuovi e diversi criteri.
S.A.: C’è, insomma, un costante ri-posizionamento dello sguardo di volta in volta…
MASSIMO D’ANOLFI: Esatto. Quando noi filmiamo delle persone che in qualche modo ci regalano un pezzetto della loro vita – perché nel caso del documentario, di quello si tratta – il patto silenzioso tra noi due è quello di dare loro, sempre, dignità. Ne Il castello c’è un ragazzo che viene trovato con degli ovuli di cocaina in pancia, e il nostro modello per filmarlo era Pickpocket di Bresson. È vero, quel ragazzo stava commettendo un reato, ma le persone non sono il loro reato: nel momento in cui quella persona, a nostro avviso, manteneva intatta la sua dignità di essere umano, abbiamo deciso di tenere quella scena nel nostro film. La stessa cosa per Milietta, la donna che viveva all’interno dell’aeroporto: ne abbiamo filmato la quotidianità – cucinare, farsi la tinta – cercando di non essere mai irrispettosi nei confronti della sua intimità. E tuttavia, quando si parla di rispetto si ha a che fare con qualcosa di molto generico e ugualmente sfuggevole: può accadere che molte delle immagini che vengono prodotte siano state fatte nel rispetto di chi veniva filmato, ma se il film non è la realtà, allora le persone diventano personaggi e il rischio è quello di ridurre quelle vite a un ruolo. L’immagine ti inchioda.
S.A.: Sempre nel terzo capitolo, voi seguite alcuni soldati che a loro volta riprendono i colleghi mentre si allenano alla guerra: sembra di ritrovarsi quasi all’interno di un enorme videogioco!
MARTINA PARENTI: I villages de combat sono una specie di “parco gioco” della guerra, costruiti sul modello dei combattimenti ai quali i soldati devono prepararsi – c’era il villaggio kosovaro, in “stile” afghano, siriano, ecc.; quello in cui ci siamo ritrovati noi era il modello della guerra di città, ed è incredibile osservare come ognuno di loro si esercita come se davvero fosse in un teatro… un posto davvero assurdo!
S.A.: L’ultima parte del film è girata, invece, all’interno della cineteca di Losanna che conserva l’archivio della Croce Rossa Internazionale. Il punto di vista del CICR è molto interessante all’interno di questo film: sono immagini di guerra realizzate da una organizzazione umanitaria che ha delle regole diverse da quelle dell’ECPAD, o dai film di Comerio, ma sono altrettanto problematiche perché queste immagini sono vettori di un punto di vista preciso, essenzialmente quello occidentale, e si fa portatore di un linguaggio visivo, quello umanitario, che è soprattutto “retorica”. Mi sembra che oggi, con urgenza, siamo chiamati a interrogarci su questo tipo di sguardo.
MARTINA PARENTI E MASSIMO D’ANOLFI: Facciamo un passo indietro. Materia Oscura (2013) è realizzato anche da immagini dell’archivio interno al poligono: immagini di propaganda, immagini più propriamente scientifiche, in cui le riprese video venivano utilizzate per tracciare le traiettorie dei missili; c’erano poi un altro tipo di immagini, attraverso cui vengono documentate alcune azioni militari come raccogliere le armi in giro per l’Italia, sotterrarle a Salto di Quirra e farle brillare. Del resto, lo dice bene McNamara: anche le azioni meno nobili vanno lasciate agli archivi; e quando l’intervistatrice puntualizzava che quelle cose erano state realizzate da lui, il presidente rispondeva che tra, cinquant’anni, gli studiosi devono poter sapere. Mentre realizzavamo Guerra e Pace abbiamo avuto la sensazione che l’archivio del CICR potesse essere funzionale al fine della nostra riflessione perché documenta ancora un altro approccio alla guerra. In più, la cosa interessante era che la Croce Rossa è una struttura sovranazionale. Per il nostro film abbiamo utilizzato alcuni materiali – riabilitazioni, ospedali, scambio di prigionieri – tralasciando altro al limite del guardabile, come le operazioni chirurgiche. È chiaro, c’è poi la documentazione realizzata per le campagne di raccolta fondi, così come è possibile imbattersi in riprese amatoriali realizzate da dottori che però avevano la passione della fotografia o del cinema. Ciò che a noi, però, interessava è questa estrema possibilità di movimento, questa eterogeneità di materiali che coprono più di un secolo di guerre. Le due ultime testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah che noi utilizziamo nel capitolo finale, per esempio, sono estrapolate da Traces, un film del 1987 commissionato dal CICR e realizzato con materiale presente nel loro archivio. Un documentario bellissimo, che potrebbe competere in qualsiasi festival di cinema. Paradossalmente, molte cose realizzate oggi sono meno interessanti: hanno un’impostazione da pubblicità, da social, sono molto brevi con molte didascalie o effetti. È come se si assistesse a una specie di decadenza del senso del filmare, una involuzione tocca tutti gli aspetti: qualità, composizione, consapevolezza.
S.A.: Mi collego alla testimonianza che avete scelto come immagine di chiusura e che avete appena menzionato. Quando l’uomo chiede cosa accadrà quando anche l’ultimo dei testimoni non ci sarà più, è come se il rapporto tra immagini cinematografiche e memoria, che fino a quel mondo rimane quasi sottotraccia, esplodesse.
MARTINA PARENTI E MASSIMO D’ANOLFI: Erano anni che ci facevamo quelle domande, e quando abbiamo incontrato questa testimonianza è stato davvero come un’esplosione. Quando lui dice «se soltanto noi usassimo ciò che abbiamo, la direzione da prendere sarebbe chiara», ecco: per noi non poteva che essere il finale per il film. C’è un piccolo aneddoto che vogliamo condividere. Durante la nostra fase di ricerca, mentre facevamo un sopralluogo all’Istituto LUCE c’era un IT che si occupava di archiviare via RTO: non uno specialista del mondo del cinema, quindi, ma l’addetto che faceva in modo che l’archivio in pellicola venisse custodito, conservato e tramandato ai posteri attraverso il sistema di archiviazione dati RTO. Ragionando sul futuro e su cosa resterà del valore delle immagini ci disse, tra il serio e l’ironico, che noi non possiamo sapere se, magari tra 500 anni, a qualcuno finirà tra le mani una sequenza di Apocalypse Now e invece di un film di Coppola penserà che quella era realmente la guerra in Vietnam. La sua era una provocazione ma, inconsapevolmente o meno, aveva centrato il punto: le immagini possono diventare vuote. Le immagini sono di per sé cieche, possono affascinare, certo, ma senza qualcuno che le sappia leggere, che le sappia contestualizzare attraverso un lavoro interdisciplinare, le immagini possono anche non significare niente, non avere nessun valore. Peggio: possono diventare uno strumento di manipolazione. Eppure, noi continuiamo a voler un gran bene alle immagini…
S.A.: Vorrei chiudere questo nostro incontro tornando al capitolo primo, alla guerra italo-turca del 1911, e quindi, riavvolgendo a mia volta il tempo del film, vorrei tornare allo sguardo del bambino che guarda in macchina: è uno sguardo che interpella, che ci guarda o, meglio, in questo preciso momento storico, soprattutto ci ri-guarda.
MASSIMO D’ANOLFI: È ciò che di fatto dice l’archivista che commenta quella sequenza: quelle immagini sono la nostra coscienza, quel bambino ci interroga. A distanza di oltre 100 anni la Libia, frutto di un’impresa scellerata del governo italiano, è un paese in guerra da cui la gente scappa e trova la morte in mare. Sì, quelle immagini ci ri-guardano e noi siamo chiamati a guardarle.