Missaggi mediterranei

Esce oggi per Tamu Edizioni una nuova edizione rivista e ampliata di “Mediterraneo Blues: musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi” di Iain Chambers. Eccone un breve capitolo.

Mediterraneo blues Chambers
Foto di Claudio Vesco

Lasciando Londra o Parigi o Milano, e viaggiando a sud e a est, non si incorre in una sola cultura o un solo suono. Piuttosto, una pluralità si dispiega: dalle espressioni classiche nelle tradizioni turche, arabe e andaluse alla varietà di voci etniche (gnawa, berbero, curdo, rom), assieme ad una varietà di suoni metropolitani che toccano, remixano e deragliano le sonorità locali con l’heavy metal, l’hip-hop e il rap. 1 Dal canto e dall’orchestrazione corali della corte ottomana agli itinerari sperimentali dei grandi suonatori contemporanei dell’oud, quali Munir Bashir, Anouar Brahem, Rabih Abou-Khalih e Naseer Shamma, o alle deviazioni elettroniche (ancora con l’oud) del duo nordafricano DuOud, o spostandosi dalla cruda poesia folk dell’Anatolia di Âşik Veysel ai versi militanti del gruppo hip-hop palestinese Dam e il rap libanese di El Rass, vi è una polivalenza musicale in cui tradizioni e luoghi diversi, e la loro sopravvivenza ed espansione nel mondo contemporaneo, rimangono in gioco.2

Questa profusione di suoni e variazioni è inoltre accompagnata da un’espansione culturale e storica che tradisce i confini nazionali odierni: le musiche curde nella Turchia orientale, nell’Iraq settentrionale e in Iran; la cultura berbera attraverso tutto il Maghreb; le melodie rom e turche nei Balcani; le memorie della schiavitù e dell’Africa nera nella musica gnawa. Che l’Occidente sia presente in diversa misura nella mescolanza musicale è innegabile: dalla musica pop contemporanea egiziana, libanese, israeliana e turca ai gruppi heavy metal di Teheran, Cairo e Casablanca, assieme all’ubiquità del rap e dell’hip-hop dalla sponda atlantica al Corno d’Africa e oltre. Si tratta pur sempre di un Occidente, e di una modernità ad esso associata, distillati in una potenzialità locale – un Occidente che canta di un tempo e di un luogo specifici.

Ciò che è importato e imposto culturalmente non può sfuggire a questa modulazione e mutazione: i suoni dei Led Zeppelin a Beirut, dell’hip-hop nella striscia di Gaza, dei Pink Floyd a Fez, di Michael Jackson ad Algeri, riflettono una risonanza culturale e un’economia affettiva variegate rispetto a quella che si incontra a Los Angeles, Londra o Berlino. Vi sono contemporaneamente connessioni e complicazioni; un supplemento insospettato conduce verso la stessa musica che continua a vivere altrove: essa ne viene trasformata e, a sua volta, diviene un potere e una pratica trasformativi. Posti a confronto con la rigidità del potere istituzionale, i suoni delle sottoculture, la ribellione giovanile e la devianza metropolitana non sono una peculiarità solamente della cultura urbana occidentale. I suoni del subalterno, sia locali sia trasmessi da altri luoghi, offrono un continuo contrappunto all’orchestrazione rigida della vita quotidiana: la musica, qualunque sia la sua genealogia, sfugge a questa gabbia per esplorare un mondo ancora da venire. Attingendo al passato e alle memorie condensate nei suoi suoni, nelle sue strutture e nella sua esecuzione, l’atto musicale propone un «adesso» storico, una forza vibrante che designa un futuro possibile che non è né semplicemente il prolungamento del presente né suo prigioniero.

Ascoltare un ritmo creato sulla base dell’impulso regolare di una linea telefonica pubblica (il gruppo Aks’ser) che serve ad annunciare una comunicazione transnazionale, connettendo Beirut al quartiere di Barbès a Parigi, o anche a Tangeri o a Torino – in arabo, francese, inglese – significa indirizzare e ritmare il Mediterraneo con modernità alternative. U-Cef con Marrakech Raggamuffins e Sonic Moor traccia connessioni musicali e culturali – in questo caso da Rabat a Londra e a Notting Hill – che producono un ambiente metropolitano nel quale le località distinte sono sprovincializzate e creano linee di transito inedite. I mezzi stessi di produzione e riproduzione sono cambiati considerevolmente, divenendo nell’insieme più mobili, più leggeri sia fisicamente sia economicamente. Le possibilità digitali di software installati su laptop, come per esempio Garageband™ di Apple, forniscono le stesse qualità acustiche e gli stessi risultati che pochi anni fa sarebbero costati migliaia di dollari o di euro per l’affitto di sale di registrazione.

La relativa distribuzione tramite siti web è destinata ad ampliare questa fluidità. Qui, dove le radici culturali, storiche e musicali battono rotte di una modernità plurale, intersecando la tradizione «etnica» con il futurismo urbano (nel caso di U-Cef quella della musica locale marocchina halal con le esperienze sonore di New York e Londra), i suoni che ne risultano creano nuove coordinate. Queste delineano non soltanto paesaggi sonori immediati, ma estendono anche i paesaggi culturali e le loro possibilità emergenti. La musica diviene una questione materiale più vasta, un potere sonoro capace di evocare intensità di sentimento e del divenire che vanno oltre le comuni limitazioni della musica intesa come un passatempo o una forma di intrattenimento notturno. Un londinese dall’Algeria, Abdel Ali Slimani, con i suoi album Mraya ed Espoir, conferma la potenzialità di questi sentieri inaspettati, tracciati nel suono e valorizzati nel miscuglio caotico della metropoli.

Una volta che le nostre orecchie si sintonizzano su tali possibilità, le traiettorie musicali divengono infinite. Nei loro transiti e attraversamenti continui, spostandosi tra «origini» e aree metropolitane che si moltiplicano, queste musiche tessono una tela. Come la loro controparte digitale su internet, alla quale sono legati visceralmente, esse creano, sostengono e allargano le «comunità». Producono un network partecipativo in cui il lavoro culturale propone continuamente orizzonti di senso nuovi e una storia futura che risponde a connessioni e coordinate impreviste.

È significativo che tali suoni non siano suoni subalterni che si limitano semplicemente a ripetere la colonna sonora metropolitana dell’occidente riproducendola con un beat differente, un timbro diverso, un accento inedito. Ciò che qui emerge è la sottile risistemazione del capitale culturale quando gli assiomi familiari, inevitabilmente legati alla presunta invariabilità di località e tradizione, sono resi instabili dal movimento culturale del transito mondiale. Ciò vale non soltanto per le tradizioni altrui del cosiddetto mondo non-occidentale e non-moderno, ma anche e sempre più per le tradizioni dell’Occidente stesso. Il potere che si assume i diritti di «tradurre» il resto del mondo nei propri bisogni e desideri è esso stesso tradotto. Resa mobile e trasformata, la tradizione occidentale e la sua applicazione, apparentemente universale, del concetto di modernità, è sempre più contaminata con l’altrove. La tecnologia contemporanea rende la storia del suono come indizio perturbante della trasformazione di una tradizione. Se i suoni viaggiano con scarso riguardo per il luogo e i confini, essi inaugurano un’ulteriore prospettiva critica. Nonostante le ovvie e spesso violente asimmetrie di potere, il mutamento di una tradizione, di tutte le tradizioni e non soltanto quelle di culture e mondi subalterni, instaura una serie di dinamiche destinate a contestare qualunque ricorso alla stasi culturale (e politica). Un senso di appartenenza, un’enfasi sull’identità (anche se «strutturalmente» necessaria al fine di essere «riconosciuta»: ciò che Gayatri Spivak ha definito «essenzialismo strategico») ora può essere soltanto annoverato come un caravanserraglio lungo il sentiero che i suoni tracciano come un continuo snodarsi incerto.

Mediterraneo blues Chambers
Foto di Claudio Vesco

Non soltanto tradizione e traduzione sono a stretto contatto, esse regolano le traiettorie dell’una e dell’altra nell’incredibile arrangiamento di stili musicali nei missaggi contemporanei del Mediterraneo. Così come Umm Kalthum è stata una cantante metropolitana che ha trasformato la tradizione in uno strumento di transito, così la voce terrosa, «alla radice», della cantante raï Cheikha Rimitti è remixata da Chab Rassi in uno studio algerino, o accompagnata dai riff della chitarra sofisticata di Robert Fripp. Altrove, gli strumenti tradizionali sono elettrificati, mixati con l’aggiunta di effetti eco, batterie elettroniche e piste multiple. Vi sono poi assonanze tra il rebetiko di Apostolos Hadzichristos e dell’anatolico Âşik Veysel e i ritmi di resistenza nati dalle collaborazioni di Sheikh Imam e del poeta Ahmed Fouad Negm in Egitto, l’hip-hop contemporaneo musulmano e l’heavy metal. Vi è il raï come musica ribelle, non tanto nel proprio paese di origine, l’Algeria, in cui ha costantemente subito la censura e il controllo del governo, quanto nella diaspora araba, particolarmente in Francia tra i beurs nelle banlieue, che cercano un loro percorso attraverso le complessità sincretiche dell’essere in Francia e in Europa, ma non esclusivamente della Francia e dell‘Europa. Successivamente assorbiti in seno alle sovversioni soniche delle più aggressive tonalità deterritorializzanti del rap, questi suoni e sentimenti diffondono momenti di dissonanza negli arrangiamenti culturali egemonici.

La musica come geografia sensuale e affettiva sonda uno spazio, configura il tempo, iscrive un luogo, una vita. Propone un nomos alquanto distinto dai referenti abituali della dimora terrestre. Per questa ragione, è generalmente considerata ineffabile, oltre il senso e la ragione, semplicemente diversa. Se, al contrario scegliamo di considerare la sua qualità ineffabile non soltanto come fuga sensuale, ma anche come sfida critica, allora potremo cominciare a suggerire un ri-orientamento di ciò che sta per comprensione culturale e significato storico. Prestando ascolto e reagendo alla voce di Demetrio Stratos, per esempio, che attinge alle sue radici egiziane, greche e italiane, diamo ascolto al viaggio del suono – oltre le parole, nel respiro del corpo – nel traffico culturale del Mediterraneo. Negli anni ’70, prima della sua morte prematura, Stratos ha condotto ricerche sulla voce che trasmette sé stessa. La voce non è metafora di un messaggio; la voce è piuttosto un’immagine nel suono, un transito nel tempo, un corpo nel canto, in volo. Come ha suggerito Daniel Charles, la rappresentazione è abolita per essere sostituita dall’«allegoria dell’illeggibilità». 3 Oltre la stabilità perseguita dal soggetto che cerca un significato, un messaggio, sussiste una fluidità che evade i parametri linguistici e rifiuta lo status di oggetto.

Nelle sonorità dei linguaggi musicali transnazionali del Mediterraneo giunge al nostro orecchio un «Mediterraneo» inusitato – che sia nelle microtonalità dell’oud, o nella canzone napoletana, o nella voce della nota cantante di rebetiko Roza Eskenazi, o negli arrangiamenti elettronici quando il dub giamaicano prende il largo sulle coste del Bosforo (nell’hip-hop turco nell’album Kingztanbul di Makale) o nel golfo di Napoli, o quando l’heavy metal subentra nel missaggio musicale e culturale arabo-ebraico con la band israeliana Orphaned Land, o nel caso del noto trio palestinese Dam, che rappa in ebraico e arabo sulle aberranti condizioni quotidiane nei Territori Occupati. Non soltanto questa è un’altra mappa possibile, un diverso assetto di uno spazio fin troppo familiare, inoltre essa scandisce un tempo molto diverso. «Il progresso», e la sua presunta linearità, è qui mescolato con (e complicato da) altri tempi che sono parte della modernità e tuttavia irriducibili a una versione singola o unilaterale.

I lunghi vocalizzi improvvisati di Umm Kalthum trasmessi dalla radio egiziana non erano semplicemente l’estensione massmediatica di una tradizione musicale araba, essi erano contemporaneamente parte integrante della trasformazione di quella tradizione nella sintassi mobile della metropoli moderna. Non soltanto le forme popolari classiche sono state esplorate e sintetizzate nella performance canora e musicale, ma anche le opere di noti poeti contemporanei, quali Ahmad Shawqi e Ahmad Rami, sono state offerte nella musica di Kalthum alle classi popolari illetterate. Come il jazz, con le sue connessioni storiche con i canti di lavoro, gli spiritual, la musica gospel e soprattutto il blues, le musiche arabe moderne sono parte di un continente mobile del suono. Se gran parte di quel continente non giunge alle orecchie dell’ascoltatore occidentale, tuttavia esso esiste e persiste. Né inclusive né autonome, le musiche del mondo arabo contemporaneo (dove il termine generico «arabo», in quanto «altro» orientale stereotipato, sta per identità molteplici: berbero, curdo, turco, ebreo, armeno e greco, così come arabo) non sono né statiche né uniformi. La musica rock proveniente dal terreno pietroso e desertico del Sahara – per esempio con il gruppo tuareg Tinariwen nel loro album Amassakoul – non è puramente il segno di un tempo occidentale e della sua mercificazione del globo che tenta di autorizzare il resto del mondo; essa è anche la sonorità, al contempo specifica e fluida, della disseminazione storica di una differenza e di una dissonanza.

Mediterraneo blues Chambers

 

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Note

  1. Come si può sentire nel film di Fatih Akin Crossing the Bridge: The Sound of Istanbul (2005)
  2. Per un sopralluogo aggiornato della musica pop nel mondo arabo-mediterraneo si può consultare Fischione, 2020
  3. Charles, 2003, p. 25
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