Alla Ricerca della Rivolta: La macchina mitologica del 68

Lo studio della letteratura come navigazione incerta.

Stringo forte tra le mani il cappello afghano che mi ha regalato un vecchio amico. Davanti a un’aula magna piena di altri dottorandi della mia Università racconto di quando ­­­­­­– in treno o per strada – ogni volta che incrocio dei migranti afghani o pakistani questi mi fermano, chiedono la ragione di quel cappello posato sul mio capo e mi sorridono. Mi sorridono perché vedono su di me, così lontano da loro, qualcosa che a loro è così vicino. Concludo: «Ecco, fare ricerca per me significa questo: portarsi appresso ciò che più sentiamo come nostro, ma che ci permetta di entrare in contatto con le persone più diverse da noi».

In quel momento, messo alla prova da un corso di public speaking rivolto ai dottorandi dell’ateneo, volevo solo prendermi gioco – non senza una consistente dose di spocchia, lo ammetto – di quello storytelling da marketing sentimentale che il relatore sembrava imporci come modello unico di comunicazione scientifica. Ma, quasi due anni dopo, mi rendo conto che, probabilmente, a quello che dissi in quell’occasione ci credo davvero.

Non mi interessa vendere la mia idea come fosse una startup o convincere qualcuno, ho pensato. Eppure, quando si comincia a fare ricerca, e, come nel mio caso, ricerca nel campo della letteratura, non si può eludere il confronto con l’Altro, con l’esterno. E in ciò risiede una delle difficoltà: come si fa a descrivere una ricerca letteraria? Come spiegare cosa significa fare ricerca in letteratura? Ma, soprattutto, come far capire l’apporto originale della propria ricerca a questo Altro? Chiunque legga un libro infatti, di solito, al termine della lettura compie un processo – per quanto inconscio, per quanto impressionistico e dilettantesco – di personale interpretazione del testo. Le scienze dure hanno i dati e i complicati e costosi macchinari per procurarseli, a garantire il carattere scientifico e perfino esclusivo di questa attività: se io posso permettermi l’attrezzatura materiale, io posso raccogliere i dati; ergo, io faccio ricerca, sono autorizzato a farla e a ritenermi un ricercatore. Che cos’ha chi studia letteratura?

Andiamo con ordine. Le difficoltà di definizione di questo decisivo quid per chi fa ricerca nel campo della letteratura iniziano sin dalla stesura del progetto di ricerca, che prevede l’identificazione di un oggetto. Prenderei a prestito alcune parole molto perspicue di Giorgio Agamben:

A differenza del termine “ricerca”, che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto.1

Si tratta però di una fase cruciale: circoscrivere l’oggetto di una ricerca letteraria è tutt’altro che scontato, e può capitare di intraprendere la ricerca di un oggetto che non esiste; di continuare a girare in tondo, per l’appunto.

Sono iscritto al Dottorato di Scienze Linguistiche e Letterarie presso le Università di Udine e Trieste, e dal novembre 2015 porto avanti una ricerca di letteratura italiana sulle narrazioni delle rivolte del decennio lungo 1968-1980. Questo significa che, per il mio progetto, ho ipotizzato l’esistenza di un cospicuo corpus di testi che trattassero narrativamente le rivolte degli anni Settanta in una determinata maniera. La mia idea era individuare la ricorrenza di macrotematiche antropologiche (la festa, il sacrificio…) nelle strutture narrative di quella che concepivo come una mitologia. In quasi due anni di ricerca, di circumnavigazione all’inseguimento di questi testi e di circoscrizione di un orizzonte, ho trovato poco di tutto ciò. In fondo a questo girare e rigirare in tondo non ho trovato un corpus, bensì un’assenza: il trattamento letterario di quella materia storica come lo intendevo io non esisteva, o quantomeno era marginale. Leggendo poi i risultati di un’altra ricerca non così dissimile dalla mia, mi sono reso conto che questa assenza era inoltre già stata osservata e problematizzata. In uno studio sulla letteratura e gli anni di piombo, Gabriele Vitello ricorda infatti che «sull’appuntamento mancato tra gli scrittori e gli anni Settanta si sono interrogati in molti, spesso mettendo in evidenza la contraddizione tra l’assenza di un romanzo sugli anni di piombo e il carattere di per sé romanesque degli eventi riconducibili a quel periodo».2

Cercavo un oggetto, la conferma di un’ipotesi, ma ho trovato un vuoto. Se dovessi dare un nome a questo errore di valutazione facile a sfociare nel delirio di megalomania, mi sentirei di definirlo complesso del demiurgo: costruire un progetto schematicamente perfetto, simmetrico, perfino interdisciplinare, e poi aspettarsi che la realtà vi si adegui pazientemente. Non funziona così: attese, schemi e simmetrie servono a interpretare la realtà, non a costringerla, a condizionarla o a plasmarla. Ciò non toglie che questo girare in tondo, girare a vuoto – questo fare ricerca – possa costituire, come nel mio caso, una fase necessaria e ineludibile dello studio.

Ho detto più volte “la realtà”; ma che cos’è, “la realtà”, nella ricerca letteraria? La risposta è molto semplice: il testo. Se nelle scienze dure, come dicevo, esistono i dati e i macchinari per procurarseli che garantiscono la qualità scientifica, l’incontrovertibilità della ricerca e del discorso che ne scaturisce, nella letteratura esiste il testo. Per quanto possa sembrare banale, è pericoloso non tenere sempre a mente che il testo è la garanzia di scientificità di ogni ricerca letteraria: qualsiasi studio che manchi di essere saldamente ancorato ai testi di cui si occupa (al netto di tutte le eventuali problematiche filologiche dei singoli casi) rischia di continuare a girare in tondo, alla deriva; e sarà facilmente confutabile, tacciabile di fatuo impressionismo – o peggio, di faziosa arbitrarietà. Il testo è il campo di chi fa ricerca in letteratura.

Se viene a mancare la concretezza tangibile di testi che trattino le rivolte del 1968 e del 1977 come “mitologia in nuce”, dunque, un progetto che si basi su questa ipotesi sembra perdere le gambe e sbriciolarsi lentamente. A meno che, operando un’inversione di rotta, la riflessione non prenda le mosse proprio da questa assenza, domandandosene le ragioni.

Lo stesso Vitello notava d’altronde che «viene quasi spontaneo confrontare gli esiti deludenti della letteratura sul terrorismo con la grandezza di molti romanzi sulla Resistenza». 3 Per chi si occupa non di terrorismo, ma di rivolta, la riflessione su questa assenza può essere allora tanto più interessante, soprattutto se si ragiona a partire dal non abbastanza celebre adagio della lettera di Pasolini all’allora presidente del Consiglio Giovanni Leone, per cui «la Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano».4 La constatazione di questa assenza modifica anche la scatola degli attrezzi con cui interpretare i testi: non si parlerà allora più di mitologia del ’68, ma di una macchina mitologica, utilizzando il modello descritto dal mitologo torinese Furio Jesi, convinti, secondo il suo avvertimento, «che la macchina mitologica sia di fatto vuota (o piena soltanto di sé, che è lo stesso), e che il mito […] sia unicamente un vuoto cui la macchina mitologica rimanda»5. L’assenza di una narrazione epica o mitologica delle rivolte degli anni Settanta conduce dunque a esplorare altre rotte che permettano di comprendere questa assenza: il linguaggio sessantottino come materiale di composizione delle opere e come diaframma interposto tra l’autore che scrive e la sua esperienza della rivolta, gli effetti del linguaggio rivoluzionario sui corpi – vivi e morti – dei rivoltosi, e così via.

Così, da un equivoco, nasce l’inversione di rotta; da qui parte un’altra circumnavigazione nel mare dei testi, una nuova ricerca. Così, utilizzando ancora la terminologia di Agamben, con la definizione del suo oggetto la ricerca diventa studio. Vediamo bene che in quest’ottica il contatto con l’Altro di cui parlavo inizialmente assume un ruolo cruciale. E nel momento in cui la ricerca si apre verso l’esterno, giunge fatidica l’incomprensione, lo straniamento, la domanda: «a che serve tutto ciò?»

Potremmo allora rifugiarci ancora una volta nelle parole di Agamben, rivendicando il nostro lavoro come studio e non come ricerca; per cui, appurato che «mentre la ricerca ha sempre di mira una utilità concreta, non si può dire lo stesso dello studio, che […] può difficilmente rivendicare un’utilità immediata», dobbiamo concludere che «in una società dominata dall’utilità, proprio le cose inutili diventano un bene da salvaguardare».6 Ma a chi formula la domanda, questa potrebbe sembrare un’elusione; e allora preferirei rispondere adottando il concetto di opera letteraria come sintomo espresso da Daniele Giglioli:

Un sintomo è un’istanza di verità, […] è l’emersione dolorosa di un contenuto inconscio, rimosso, imbarazzante, vergognoso, inaccettabile, di una verità che rischia di sfigurarci, di un’immagine di noi che non possiamo tollerare: il nostro vero desiderio, e il conflitto con le esigenze dell’adattamento che ne costituisce l’etica.7

Perché “le opere”, dice sempre Giglioli, «sono nel mondo, vengono dal mondo, e producono effetti nel mondo».8

In fin dei conti, dunque, non si tratta di convincere, non si tratta di un prodotto da vendere: si tratta di esercitare e mettere in circolo una critica che sappia decostruire e, opportunamente, ricostruire ­ dei manufatti culturali. Setacciandoli (in greco antico κρίνειν, da cui la parola κριτική, critica) e trattenendo quanto di essi può dirci qualcosa di noi stessi e del mondo in cui viviamo. Ma tenendoli ben stretti tra le mani per costruire un ponte verso altri mondi.

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Note

  1. Giorgio Agamben, Studenti, 15 maggio 2017, consultato il 18 settembre 2017.
  2. Gabriele Vitello, L’album di famiglia: gli anni di piombo nella narrativa italiana, Transeuropa, Massa, 2013, p.34.
  3. Ibidem.
  4. Pier Paolo Pasolini, “Lettera al presidente del Consiglio”, «Tempo», 21 settembre 1968, anno 30, e raccolta in Id., Il caos, L’Unità/Editori Riuniti, Roma, 1981, pp.39-43, p.41.
  5. Furio Jesi, “Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud”, in Id. Il tempo della festa, Nottetempo, Roma, 2013, pp.51-52.
  6. Giorgio Agamben, op. cit.
  7. Daniele Giglioli, Senza trauma, Quodlibet, Macerata, 2011, p.103.
  8. Ivi, p.102.
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