di Wu Ming 1
da “Giap”
Nell’ottobre del 1978 Michel Foucault (d’ora in avanti MF) visita un Iran già scosso dai moti di piazza contro lo Scià, moti che il regime reprime nel sangue, con l’unico risultato di rafforzare la determinazione popolare. La cacciata di Reza Pahlavi [foto a destra] è ormai imminente, tutti sentono che una rivoluzione è dietro l’angolo, ma nessuno sa dire di quale rivoluzione si tratti. In quest’autunno, le parole d’ordine sono poche, chiare, focalizzate. Tutte le correnti politiche e le classi sociali fanno convergere gli sforzi in un’unica, pressante richiesta: «Via lo Scià!» C’è già chi parla di un “governo islamico”, ma l’ayatollah Khomeini è ancora in esilio a Parigi, l’evento rivoluzionario ha tante anime ed è ancora “in fusione”. MF si entusiasma per l’energia che circola, scrive diverse corrispondenze per il “Corriere della sera”, ha intuizioni folgoranti ma è anche vittima di “sviste”.
“Sviste” in parte intenzionali: MF si dichiara incapace di «scrivere la storia del futuro», non si pone il problema di quale regime nascerà dall’evento rivoluzionario. Quel che gli preme è analizzare quest’ultimo come frattura storica, rottura di un ordine, fine di un assetto politico e di un modello sociale. MF interpreta quel che vede come un prolungato «sciopero contro la politica», con il rifiuto di ogni compromesso, di ogni schema tradizionale di negoziato. Dove c’è un solo e unico scopo dichiarato urbi et orbi con chiarezza cristallina, non può esserci mediazione. A fronte della temporanea unanimità del corpo sociale nel volere la cacciata del tiranno, MF si interroga su cosa sia la volontà collettiva e quale importanza vi abbia la dimensione di una spiritualità politica, dimensione che l’occidente ha perso da tempo. È possibile tornare a porsi il problema di un rapporto tra il politico e lo spirituale? Nel chiederselo, il filosofo mette le mani avanti:
«Sento già degli europei ridere; ma io, che so ben poco dell’Iran, so che hanno torto.»
Tornato in Francia, MF continua a seguire gli avvenimenti. Finalmente lo Scià va in esilio, ma da quel momento l’evento rivoluzionario inizia a “rapprendersi”, la componente teocratica ne assume la direzione e la molteplicità inizia a lasciare posto all’Uno, comincia a farsi regime. L’unanimità della singola richiesta cambia di segno quando viene dirottata in plebiscito: nell’aprile del ’79 un referendum ratifica per l’Iran l’assetto di “repubblica islamica”. La componente teocratica già perseguita le altre anime della rivoluzione, la “fusione” di ieri lascia il posto a una glaciazione.
Benché incalzato pubblicamente da diversi soggetti (femministe, attivisti per i diritti umani, esuli della sinistra iraniana), per un po’ di tempo MF non sposta l’accento, si rifiuta di porsi il nuovo-vecchio problema di un Terrore che è già Termidoro. Sono altri gli aspetti su cui gli preme riflettere, in primis quello dell’Islam come portatore di un nuovo rapporto (rivoluzionario, ça va sans dire) tra spiritualità e politica. Così, quando prenderà le distanze dalla nuova repressione, molti giudicheranno il suo intervento tardivo e timido.
Dalla primavera del ’79 alla sua morte nell’84, MF non si occuperà più dell’Iran. Il periodo del suo entusiasmo per la rivoluzione iraniana è il più famigerato nella sua biografia, e ha attirato molte critiche. Eppure, se guardiamo ai molti gauchistes che riposero speranza in quell’evento, spesso inserendolo a forza in griglie concettuali pre-esistenti (marxiste-leniniste, anti-imperialiste), gli “abbagli” di MF sembrano poca cosa.
Nei suoi articoli (anche questo andrebbe rimarcato: sono articoli scritti a caldo, non saggi ponderati), MF legge la rivoluzione iraniana nella sua singolarità, indagando il suo essere diverso da ogni evento rivoluzionario conosciuto. Proprio per questo, non è davvero di Iran che vorrei parlare in questa sede: non ci sono mai stato, non sono competente in tema di Islam sciita, non mi sono mai occupato di cose persiane. Mi interessa questa storia perché c’è un potenziale «Iran» ovunque, nel senso che ogni evento che possa dirsi tale è singolare. I falsi eventi e gli pseudo-eventi mediatici vengono presentati come unici (“senza precedenti” è una delle formule più abusate e inflazionate della nostra epoca) ma si somigliano tutti tra loro, mentre i veri eventi sono accomunati dal fatto di somigliarsi poco.
Forse non dirò nulla di radicalmente nuovo. Diversi commentatori e studiosi hanno affrontato i problemi sollevati dal modo in cui MF seguì quegli eventi. Solo che la letteratura secondaria su MF è un ginepraio, non tutti hanno modo o voglia di accedervi. Inoltre – con poche eccezioni degne di nota – è alquanto noiosa. Il contrario dell’effetto che producono gli scritti di MF, come in diversi hanno fatto notare. Può dunque essere utile un momento di sintesi operato da un “profano” (un autore di romanzi d’avventura!) fuori dai soliti contesti. Solo alla fine trarrò una conclusione che esula dall’ambito degli “studi foucaultiani”.
Negli ultimi anni si sono amplificate a scopo polemico le “sviste” di MF a scapito di quel che riuscì a vedere molto prima di altri. La sua “débacle” iraniana è stata presentata come emblema della bancarotta dell’intellettuale impegnato / interventista, della leggerezza con cui gli intellettuali di sinistra degli anni Settanta scherzarono col fuoco anti-occidentale e terzomondista.
Nella versione più destrorsa di quest’approccio, si arriva a vere e proprie calunnie.
Qualche anno fa “Il Giornale” scrisse che MF «non esitò a riconoscere in Khomeini le stigmate di un profeta della libertà», affermazione falsa, poiché MF si limitò ad analizzare la figura di Khomeini come «punto d’incontro della volontà collettiva» e a interrogarsi sulle ragioni di tale centralità.
Di recente, la rivista USA Reason, organo di propaganda ultraliberista, ha scritto che MF «visitò due volte il paese sotto gli Ayatollah». Altra falsità, dato che Foucault non tornò mai in Iran dopo la rivoluzione.
Un’altra fandonia ricorrente è che Foucault si sia incontrato con Khomeini, circostanza mai avvenuta. MF vide l’Ayatollah solo da lontano e non scambiò mai una sola parola con lui.
Sull’altro versante, quello della critica postmoderna e post-coloniale, di MF viene denunciato un approccio eurocentrico e paradossalmente “orientalista”. Sarebbe stato questo approccio a produrre la sua “cecità” di fronte agli abusi.
Procediamo con ordine.
MF non rientra nella categoria degli intellettuali di sinistra se non in modo molto sghembo: il suo essere “di sinistra” somiglia poco all’essere di sinistra di chiunque altro, come il suo “impegno” è molto diverso da quello di Sartre, nonostante le cause sostenute siano in gran parte le stesse. Perciò MF non rientra nel novero dei “cattivi maestri”; non rientra nel novero dei maestri tout court, perché non vuole essere maestro di nessuno, non mette su cenacoli, non si circonda di adepti come Lacan. Anzi, in più occasioni ammette di sentirsi solo. La solitudine è in fondo un effetto collaterale del suo approccio filosofico: vale la pena conoscere solo se questo implica «la messa in crisi di colui che conosce», e il pensiero critico deve innanzitutto criticare se stesso. MF si rifiuta costantemente di dare qualsivoglia “linea” e contesta la pretesa da parte degli intellettuali di assumere una “posizione profetica”:
«è vero che un certo numero di persone […] non riescono a trovare nei miei libri dei consigli o delle prescrizioni che permettano loro di sapere “che fare”. Ma appunto il mio progetto è proprio fare in modo che essi “non sappiano più che fare”: lavorare affinché gli atti, i gesti, i discorsi che fino a quel momento parevano loro ovvi diventino problematici, rischiosi, difficili…» (da una tavola rotonda sulla prigione, maggio 1978, pochi mesi prima del viaggio in Iran).
Se si può parlare di un “eurocentrismo” di MF, ciò ha a che fare coi suoi campi di interesse, non coi “valori”. La ricerca di MF è “eurocentrica” in senso letterale, perché mantiene un focus sulla storia europea. Più di questo non si può proprio dire. Non c’è libro o intervento in cui MF non rifiuti – con foga persino eccessiva – tutti gli “universali antropologici”. Nei confronti di questi ultimi rivendica «uno scetticismo sistematico». Non che per lui sia impossibile trovare invarianti trans-storici e trans-culturali, e che ritenga doveroso precludersi l’approdo a un universale, ma ciò deve avvenire solo in ultima istanza: «Non si deve ammettere nulla di quest’ordine che non sia rigorosamente indispensabile.». A MF interessa la specificità di ogni pratica, di ogni discorso, di ogni evento. Il suo metodo affronta la storia come una successione di cesure, di svolte improvvise non sempre visibili. Bisogna ritrovare queste svolte sotto le apparenti continuità.
Quest’approccio è ben presente nei suoi articoli sull’Iran: la sua costante preoccupazione è far capire a cosa non somigli quell’evento, cos’abbia di singolare, rispetto a cosa rappresenti una rottura. MF vuole rintracciare le linee di un “discorso” specifico, quello della rivoluzione iraniana nella sua fase iniziale. Per questo è molto guardingo nei confronti delle “grandi parole” con la maiuscola reverenziale: a essere importanti non sono l’Oriente o la Modernità, e a ben vedere nemmeno la Rivoluzione (MF usa la parola con un evidente circospezione, circondandola di distinguo), nemmeno l’Evento. Questo è al tempo stesso il punto di forza… e il limite del pensiero foucaultiano. Ci tornerò sopra tra non molto.
Torniamo ai reportages di MF da Teheran e altre città iraniane: non saranno poche le intuizioni a rivelarsi valide negli anni a seguire. Ho già accennato al rapporto tra spiritualità e politica, tema che nel XXI secolo tornerà all’ordine del giorno.
Uno dei passaggi più «controintuitivi» e azzeccati è quello in cui MF descrive le pretese dello Scià di “modernizzare” il Paese come unico, vero arcaismo nella vita pubblica dell’Iran. Una modernizzazione intesa come importazione acritica di un modello, che da un lato insegue e scimmiotta l’occidente, dall’altro cerca – ma solo blandamente – un “adattamento”, una “localizzazione” falsa tramite l’import di kitsch orientalistico da un altrove già «modernizzato»:
«…a decine si allineavano sulle bancarelle incredibili macchine per cucire, enormi e decorate, come se ne possono vedere nelle réclame dei giornali del XIX secolo; istoriate di disegni a forma di edera, di piante rampicanti e di fiori sboccianti, esse imitavano in modo grossolano vecchie miniature persiane. Questi occidentalismi fuori uso, marcati del segno di un Oriente desueto, portavano tutti la dicitura: made in Corea del Sud.»
MF vede anche profilarsi un nuovo ruolo dell’Islam radicale a livello planetario. Qui, come sempre, è attento a non generalizzare: non parla dell’Islam come di un unico blocco, ma cerca le singolarità. Ad esempio, ci tiene a precisare che sta parlando dell’Islam sciita, poi rimarca che nel clero sciita ci sono differenze di vedute.
MF esprime l’idea che ci sarà uno sviluppo rivoluzionario dentro l’Islam:
«[Da oggi] ogni Stato musulmano può essere rivoluzionario [in realtà l’originale francese diceva “révolutionné”, N.d.R.] dall’interno, cominciando dalle sue tradizioni secolari.»
Nel leggere questa frase vanno tenute presente due cose: MF non intende «rivoluzionario» [«rivoluzionato»] nel senso della lotta di classe, ma nel senso di un evento che produce una frattura storica; inoltre, questo “dentro” è relativo. Nella globalizzazione è impossibile individuare con nettezza i confini perché siamo tutti eredi di diverse tradizioni. Ogni tradizione (in senso stretto, la pratica del consegnare a chi viene dopo) è multilineare e ha tante origini. Si può parlare di “interno” di una tradizione solo se la premessa è che i confini sono aperti. Perciò, quando MF dice: «cominciando dalle sue tradizioni secolari», l’accento va su cominciando. È una partenza, non un approdo. Nemmeno in questo caso MF pensa a una continuità dei processi: lo sviluppo rivoluzionario in seno all’Islam incontrerà altri reagenti. In quest’ottica, MF si chiede se l’Islam radicale si approprierà della causa palestinese:
«Cosa accadrebbe se questa causa ricevesse il dinamismo di un movimento islamico, ben più forte di un riferimento marxista-leninista o maoista?»
Mancano ben nove anni alla fondazione di Hamas.
***
Teheran, giugno 2009. Un trentennio esatto dopo la proclamazione della repubblica islamica, divampano le proteste contro i brogli elettorali a favore del presidente Ahmadinejad. Scende in strada un movimento in gran parte giovanile (a parte l’alto clero, in Iran pressoché tutto è in gran parte giovanile). È il cosiddetto “Movimento Verde”. In Occidente – almeno inizialmente – è descritto come filo-occidentale, liberale etc., mentre quegli attivisti urlano dai tetti di Teheran “Dio è grande”, sostengono Mir-Hossein Mousavi (già primo ministro nel periodo 1981-89) e si richiamano alla rivoluzione del ’79 nel suo momento “in fusione”, quando l’ingresso della spiritualità nella politica (e viceversa) apriva nuove possibilità anziché chiuderle. A proposito di “altri reagenti”, quegli attivisti usano la rete e i social network, ricorrono agli strumenti forniti loro dalla «rivoluzione» digitale, e lo fanno a modo loro, “agendoli” con le loro pratiche. In un articolo dell’8 settembre 1978, MF descrive metaforicamente il rapporto tra il movimento e i predicatori del clero sciita:
«Questi uomini di religione sono come lastre sensibili sulle quali si incidono le collere e le aspirazioni della comunità. Volessero andare contro corrente, perderebbero questo potere che si basa essenzialmente sul gioco della parola e dell’ascolto.»
È quello che succede trent’anni dopo. Il Movimento verde, rifiutando un ruolo subordinato nel gioco della parola e dell’ascolto, mette in crisi il clero, che infatti entra in una fase di nuove divisioni e conflitti interni. Osservatori vicini al movimento accusano la “guida suprema” Ali Khamenei di cercare il suo consenso «nelle caserme anziché nelle moschee». Messo in crisi il gioco della parola, non resta che la repressione.
***
Veniamo a quello che secondo me è il vero limite dell’approccio foucaultiano. Teso com’è a cercare le discontinuità, le fratture, le singolarità, i discorsi specifici, MF non si accorge di un invariante che si ripresenta in ultima istanza. Ignora i segnali del riproporsi, sotto le discontinuità, di “vecchi” problemi che possiamo senza remore definire universali.
Sì, tutti i veri eventi hanno in comune il fatto di somigliarsi poco. Ma la termodinamica ci insegna che a una dissipazione di energia corrisponde una trasformazione irreversibile, che porta un sistema verso lo stato uniforme e indifferenziato che chiamiamo “equilibrio termodinamico”. Quando un evento rivoluzionario perde energia, si riducono anche le sue specificità. Inizia a perdersi ciò che lo distingueva da tutto il resto, che lo aveva staccato dallo sfondo. L’evento rivoluzionario iraniano è diverso dagli altri, ma quando le energie calano inizia a incontrare gli stessi problemi di tutti gli eventi rivoluzionari, in un passaggio acceleratissimo dalle lotte interne al Terrore al Termidoro. Ancora una volta il ripiegamento è sul terreno dell’uguaglianza, e le donne rivoluzionarie sono le prime sacrificate. In Francia, nell’autunno del 1793, la Convenzione giacobina scioglie tutte le associazioni rivoluzionarie femminili. In Iran, la restrizione della libertà femminile è una delle prime preoccupazioni dell’appena insediato regime khomeinista. Nella primavera del ’79, nel giro di poche settimane, una gragnuola di leggi discriminatorie si abbatte sulle donne. A Teheran, l’8 marzo, militanti di Hezbollah attaccano il grande corteo di donne che contesta il giro di vite. Le manifestanti gridano: “No alla dittatura!” e “Abbiamo fatto la rivoluzione per essere libere!”. Gli aggressori rispondono con pietre e bastoni.
È l’entropia dell’evento rivoluzionario a rivelare la famosa “ultima istanza” in cui è giustificato il ricorso all’universale, e quest’universale è l’idea di uguaglianza. Quella che – con un’iperbole che a Foucault non sarebbe piaciuta – Alain Badiou chiama “Idea Eterna”. Lo scacco di una rivoluzione si misura sempre nel suo cozzare contro quest’idea, nel suo non essere all’altezza di questo universale. Universale che, benché più volte incompreso, resta comprensibile a chiunque, perché comprensibili a chiunque sono le implicazioni del motto: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Se, pur con tutto lo sporcarsi le mani e le scelte gravose, una rivoluzione non mostra di puntare all’inveramento di questo motto, allora non è più niente, torna ad essere falso evento.
La vicenda di Foucault in Iran ha dunque molto da dirci: dimostra che un approccio anche fecondo e ricco di intuizioni non toccherà davvero il reale se non affronta il problema dell’universale. Che per me è come dire: il problema del comunismo.
Oggi l’universale viene rifiutato anche in ultima istanza, anche quando il ricorso ad esso è inevitabile. L’inizialmente giusto discorso delle “differenze” e delle “singolarità” si è trasformato in incontrollata proliferazione di nuove identità (nazionali, etniche, politiche, sottoculturali, sessuali). Sembra interdetta la ricerca di un “nocciolo” di esperienza comune all’intera specie umana, e di idee di eguaglianza e giustizia che valgano per tutti. Anche a sinistra, ogni universalismo è considerato a priori totalitario, come se il pericolo fosse ancora questo anziché la perniciosa cultura del tenere-lo-sguardo-basso e dell’ognuno-al-posto-suo. Perché è questo il significato di “tolleranza”, soprattutto oggi: sopportare l’altro purché non invada il mio spazio. Quello del tollerante è un “vade retro” più gentile di quello dell’intollerante, ma è comunque un vade retro. Ognuno rimanga nella sua nicchia, con un po’ di “discorso dei diritti” a far sì (chissà ancora per quanto) che la tensione non degeneri in guerra aperta, identità-contro-identità.
Bisogna tornare a porsi il problema dell’universale, senza per questo scordarsi della singolarità.
Concludo con le parole di un filosofo che nella sua vicenda biografica non fu all’altezza dell’idea di uguaglianza (ed è il minimo che si possa dire) ma ci ha regalato un’immagine molto bella. Nella sua Lettera sull’umanismo, Martin Heidegger parla della spinta al «naufragio», dell’uscire dalla propria vicenda per emergere «nell’impensato», in un mondo al quale è stata restituita la dimensione di «mistero primigenio». Dimensione che è compito del filosofo evocare.
L’universale è oggi l’impensato in cui bisogna riemergere, l’uguaglianza è il mistero che va evocato. Forti anche della lezione di “buoni maestri” (di maestri riluttanti) come Michel Foucault.
Bibliografia
- J. Afary & K. Anderson, Foucault and the Iranian Revolution: Gender and the Seductions of Islamism, University of Chicago Press, 2005
- A. Badiou, L’hypothèse communiste, Nouvelles Editions Lignes, Paris 2009
- D. Eribon, Michel Foucault, Leonardo, Milano 1991
- M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, Medusa, Milano 2001
- M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Mimesis, Milano 1994
- M. Foucault, Taccuino persiano, Guerini e associati, Milano 1998
- M. Lilla, Il genio avventato. Heidegger, Schmitt, Benjamin Kojève, Foucault, Derrida e i tiranni moderni, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010
- J. Miller, La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano 1994
- P. Veyne, Foucault. Il pensiero e l’uomo, Garzanti, Milano 2010