A seguito dell’intervento di Fabio Levi sul progetto Adopt Srebrenica, vincitore del premio Alexander Langer 2015, stringiamo il fuoco dell’analisi sulle commemorazioni del genocidio di Srebrenica a vent’anni dai fatti.
Oggi, presso l’ex compound delle Nazioni Unite di Potočari, si commemorano le più di 8000 vittime uccise dall’esercito serbo-bosniaco del generale Ratko Mladić a seguito della caduta dell’enclave musulmana di Srebrenica, l’11 luglio 1995.
Dopo un assedio lungo tre anni e mezzo, ed una popolazione civile passata da 13 a 40mila persone — per la maggior parte sfollati vittime delle operazioni di pulizia etnica condotta dall’esercito serbo-bosniaco in Bosnia dell’est —, l’11 luglio del 1995 la safe area ONU di Srebrenica cadde in meno di tre giorni d’attacco da parte delle forze serbo-bosniache. Impaurita dalle conseguenze della conquista serba, gran parte della popolazione cercò immediatamente rifugio sotto la bandiera delle Nazioni Unite nell’ex fabbrica di batterie di Potočari, compound e quartier generale dei caschi blu olandesi.
Contemporaneamente, una colonna di circa 15.000 uomini iniziò la fuga attraverso i boschi circostanti, cercando di raggiungere Tuzla ed i territori controllati dalle forze governative bosniache.
La marcia verso la salvezza si rivelò per molti l’inizio di un nuovo incubo: la colonna venne ripetutamente attaccata dalle forze serbe con mezzi pesanti, bombardamenti ed una serie d’imboscate nelle quali persero la vita migliaia di individui. Molti altri vennero catturati e trasferiti in centri di detenzione temporanei lungo la valle della Drina: lì torturati ed uccisi.
Contemporaneamente, il 12 luglio le forze serbe entrarono a Potočari: il generale Mladić, accompagnato da giornalisti e cameramen, si fece riprendere mentre tranquillizzava la folla di civili:
Non abbiate paura, – ripeteva Mladić davanti alle telecamere. – State calmi, calmi. […] Vi trasporteremo a Kladanj. Di lì potrete passare nel territorio controllato dalle forze di Alija [Izebegovic]. Non abbandonatevi al panico. Che le donne e i bambini vadano per primi. State attenti che nessuno dei bambini si perda. Non abbiate paura. Nessuno vi farà del male.
A partire dal pomeriggio, decine di mezzi di trasporto, tra furgoni e camion, arrivarono a Srebrenica, e di fronte agli occhi del Generale olandese Karrermas diedero il via all’evacuazione forzata di donne, anziani e bambini.
Tutti gli uomini rimasti furono individuati, divisi dalle proprie famiglie e trasportati via verso centri dove potessero essere “identificati”: in realtà quasi la totalità venne uccisa e sepolta sommariamente in fosse comuni.
Con la fine del conflitto alle porte, le autorità serbo-bosniache hanno poi provveduto a dislocarne i corpi, scavando e riaprendo nuovamente le fosse con ruspe e macchinari pesanti al seguito, prelevando in modo casuale cadaveri e/o parti di questi, per poi caricarli su altri camion e spostarli in nuove fosse comuni.
Un’opera di depistaggio che oltre a testimoniare la presenza di un progetto politico sistematico, ha reso l’identificazione delle vittime un processo strutturalmente incompleto che ha visto l’impegno in prima fila di madri e figlie delle vittime.
Fin dalle prime settimane dal loro arrivo nel campo profughi di Tuzla, la ricerca dei dispersi si è tradotta per la comunità delle vittime in forme di attivismo socio-politico tese al riconoscimento dell’entità della tragedia vissuta. Un’imponente battaglia sociale che ha messo accanto ad obiettivi e necessità primarie — l’ottenimento di informazioni dei propri cari e la sopravvivenza in condizioni di displacement —, la ricerca di responsabilità politiche da parte degli attori coinvolti nel tragico epilogo dell’enclave bosniaco-musulmana. Fossero questi le istituzioni srpske, il governo olandese, o la classe politica bosniaca stessa .
Il processo di memorializzazione del massacro di Srebrenica, in altre parole, è stato caratterizzato da un’attività testimoniale che ha coinvolto le donne di Srebrenica nelle loro individualità ed ha contribuito ad accrescere la consapevolezza di un capitale simbolico collettivo sul quale poter fare affidamento nel rivendicare il proprio status di vittima e rifugiato.
Nell’analizzare i venti anni trascorsi di quella che è diventata la rete di associazioni di familiari e vittime, generalmente conosciute come le Madri di Srebrenica, è centrale comprendere come l’elaborazione del lutto da parte della comunità delle vittime abbia trovato nell’azione collettiva la chiave d’accesso per raggiungere livelli di riconoscimento di una realtà che la politica srpska ha prima tentato di occultare e oggi, a vari livelli, continua a negare.
Molti sono i piani di significato che si intrecciano attorno alle commemorazioni del genocidio di Srebrenica. Ne esiste un primo, legato all’importanza pratico/simbolica che queste hanno per i parenti delle vittime: l’11 di luglio è il giorno dove le vittime identificate durante l’anno vengono seppellite [136 solo quest’anno] attraverso un rito collettivo, presso il cimitero monumentale di Potočari, sorto nel 2003 di fronte all’ex-compound ONU.
La forza simbolica di tale avvenimento è comprensibile sotto due aspetti: da un lato, se le istituzioni serbo-bosniache avevano cercato nell’annichilimento del corpo della vittima l’ultimo passaggio del loro piano genocida, riportare i resti delle vittime identificate “dove tutto ebbe inizio” si costituisce chiaramente come rivendicazione di una storia e di una memoria tutt’oggi volontariamente negata da parte dei carnefici.
Dall’altro lato, la presenza di un cimitero collettivo dove la comunità musulmana di Bosnia può pregare le proprie vittime è stata in passato giustamente letta nei termini di àncora simbolica : se il trattato di Dayton ha messo fine al conflitto legittimando la campagna di ethnic cleansing condotta dalle forze serbo-bosniache, e le politiche abitative srpske hanno poi ripopolato l’area favorendo il trasferimento della popolazione serba rimasta sfollata anch’essa dagli anni di guerra, risulta chiaro come la possibilità conquistata dalle madri di Srebrenica di poter ricordare i propri mariti e figli in quei luoghi è funzionale ad una riappropriazione simbolica e pratica del territorio di Srebrenica.
Le commemorazioni del massacro di Srebrenica sono oggi l’occasione attraverso la quale i confini e la storia di quel luglio del ’95 viene ridiscussa e ricollocata pubblicamente dai vari movimenti, partiti politici ed istituzioni internazionali, coinvolte nel processo di memorializzazione e, più in generale, nel contesto politico bosniaco.
Nell’arena commemorativa dell’11 luglio trovano così spazio rivendicazioni politiche di una comunità bosniaco-musulmana alla continua ricerca di riconoscimento della propria perdita, accanto alla narrazione conciliatoria e funzionalmente miope condotta dai rappresentanti dei governi occidentali che, attraverso il motto del “Never Again”, appiattisce la complessità politica del massacro su un dualismo vittima-carnefice completamente a-storico e de-responsabilizzante.
Dove i confini tra egemonico e subalterno vengono così ricollocati all’interno di una cornice di significato che trova nel sentimento di pietas il miglior dispositivo espressivo per confermare, implicitamente, la propria estreneità e superiorità morale di fronte a tale violenza.