Il contributo che segue, frutto dell’intervento realizzato dall’autore in occasione del PREMIO INTERNAZIONALE ALEXANDER LANGER 2015, tenutosi alla Camera dei Deputati il 17 giugno, va ad inserirsi all’interno del percorso di approfondimento dedicato alla figura di Alenxander Langer.
Di Alex Langer, dalla sua giovinezza in Sudtirolo fino all’esperienza come deputato al Parlamento europeo, possiamo ricordare molte cose: fra le altre il contributo di grande originalità dato come esponente di punta dei Verdi in Europa a una pratica sociale, e anche a una politica, che perseguissero concretamente il riequilibrio del rapporto fra gli esseri umani e la natura; come pure la vocazione non già solo a proclamare la pace come necessaria – sarebbe stato troppo facile – ma a perseguire giorno per giorno la convivenza in una prospettiva nonviolenta, anche nel pieno di una guerra fra le più sanguinose, quale era il conflitto nella ex-Jugoslavia degli anni ‘90. In questo come nelle mille altre iniziative a favore dei più deboli agiva da Hoffnungsträger – portatore di speranza -: lo stesso termine che nel 1992 lui per primo aveva attribuito a Petra Kelly esponente dei Grünen tedeschi da poco tragicamente scomparsa; entrambi bene sapevano per esperienza diretta quanto fosse oneroso caricare su di sé le sofferenze degli altri.
All’antologia più ricca e conosciuta dei suoi scritti è stato dato però un titolo che si attaglia a Langer con ancor maggiore efficacia: Il viaggiatore leggero. Perché richiama la gentile naturalezza, quasi il candore disarmante, con cui poneva in primo luogo a se stesso i compiti più ardui e ambiziosi; e dice nello stesso tempo della sua attitudine a non farsi appesantire dagli interessi di piccolo cabotaggio, dalle logiche burocratiche o dall’incapacità di riconoscere i propri errori; liberatosi di quella zavorra era pronto ogni volta a riprendere il cammino di buon passo. E poi quel titolo ci offre di lui l’immagine che più di tutte le altre è rimasta negli occhi dei tantissimi che lo hanno conosciuto: quella di un uomo riflessivo, attento, curioso delle persone, ma spinto da una forza irresistibile a muoversi oltre, a cercare sempre nuove mete da raggiungere.
Nei suoi 49 anni è corso da un posto all’altro, senza mai fermarsi. Sceglieva i luoghi dove accadevano le cose grandi della storia, come la Praga invasa dai sovietici nel 1968, la Mosca del disgelo, l’Albania della grande emigrazione, Israele e il suo disperante conflitto o Rio de Janeiro, quando nel ’92 le Nazioni Unite organizzarono la Conferenza mondiale su ambiente e sviluppo. Ma preferiva le realtà meno appariscenti, dove pochi erano disposti a intervenire, e dove ad essere protagonisti erano in prima persona gli individui.
Questo ininterrotto peregrinare aveva però un luogo di elezione, cui Langer non cessava mai di tornare: il Sudtirolo, la terra delle sue origini che sin da ragazzo era stata la sua scuola; vi aveva sperimentato le violazioni imposte alla libertà dei singoli dagli scontri fomentati in nome dell’appartenenza forzata a un gruppo, e viceversa aveva appreso come fosse possibile contrastare – al prezzo spesso di una dolorosa solitudine – le chiamate interessate, strumentali e violente alla compattezza etnica. Aveva anche imparato che il viaggio era in primo luogo andare verso gli altri, muoversi attraverso uno spazio mediano dove è lecito e anche giusto tradire la propria parte, ma non per rinnegarla definitivamente, quanto piuttosto per favorire l’incontro con chi stesse compiendo il medesimo sforzo venendo da altrove. Quella verità, sperimentata più e più volte, sarebbe stata poi cruciale nell’impegno condotto con il Verona Forum, luogo di incontro fra personalità della società civile radicate nelle entità territoriali in guerra fra loro della Jugoslavia in disfacimento nei primi anni ’90.
La corsa di Langer si arrestò improvvisamente; il 3 luglio 1995, con il suo ultimo viaggio fino ai rami di un albicocco non lontano da San Miniato, nei dintorni di Firenze. Pochi giorni dopo, l’11 luglio, le milizie serbo-bosniache di Karačić scatenarono il macello di Srebrenica a lungo temuto da chi per anni aveva denunciato l’incapacità dell’Europa di prendere parte contro gli aggressori e le sue responsabilità di omesso soccorso.
Non c’è legame diretto fra i due eventi. E’ lo sgomento che entrambi suscitano ad accomunarli nel nostro sguardo: lo sgomento per come sia fragile la vita indotto dalla decisione del suicidio – refrattaria ad ogni spiegazione plausibile -, e quello per l’insondabilità del male estremo che ci porta ad accostare il genocidio di Srebrenica agli stermini di cinquant’anni prima e agli abissi di crudeltà dei nostri giorni.
Dopo lo sgomento per la morte di Langer e nell’intento di contrastare il senso di impotenza che ne derivava, la Fondazione a lui intitolata ha deciso di riprendere il filo con pazienza e guardare in faccia la realtà. Lo ha fatto cercando anno per anno, e mettendo in valore con un premio, le personalità o i gruppi animati nel presente da intenti che richiamassero lo spirito nel quale si era mosso Alex. In questo ha mantenuto uno sguardo privilegiato sui Balcani e sulla Bosnia: per un lungo amore ereditato sin dai primi anni ’90, ma anche per la consapevolezza dei rischi che un dopoguerra mai realmente iniziato poteva e può tuttora comportare per l’intera Europa. L’occhio puntato sui deboli fremiti di rinascita a Srebrenica e sulla necessità di assecondarli è venuto di qui.
Ma a sgrovigliare il gomitolo con coraggio, senza farsi annichilire dal trauma della strage o rimanere abbagliati dall’orgoglio etnico e dallo spirito di vendetta, sono stati innanzitutto i giovani che in quella città, prima inondata di cure di breve respiro da molti paesi e poi abbandonata a se stessa, hanno dato vita man mano al gruppo di Adopt. Già accettare, per chi era rimasto o aveva avuto il coraggio di tornare, di non chiudere gli occhi a priori sulle ferite o sul non detto delle proprie famiglie è stata una conquista gravida di fatica e di sofferenze. Riuscire a parlarne lo è stato ancora di più, a maggior ragione in un gruppo misto di serbi e di bosgnacchi, cresciuto nella stessa logica che Langer aveva delineato nei suoi dieci punti per la convivenza interetnica, ma in un clima proibitivo. E poi i piccoli passi di ogni giorno, le esitazioni, i cedimenti, le inevitabili discussioni, in un processo che non può ritenersi separato dalla vita quotidiana di ognuno, come non lo è la buona politica quando si propone appunto come arte della convivenza.
Srebrenica è una città bloccata dall’assenza di una vera rinascita economica, da un contesto politico paralizzante, dall’essere stata assegnata alla Repubblica Srpska – lo stato voluto dai suoi carnefici -, dalle spire impalpabili del trauma da cui in quelle condizioni è tanto più difficile liberarsi. Di fronte a questo il gruppo di Adopt è una piccola cosa, ma è uno fra i pochissimi segni concreti di apertura, che dal 2007 non ha mai cessato di esistere e di progredire: con il suo Centro di documentazione – contenuto per ora in poche scatole piene però di materiale molto prezioso – sulla storia di Srebrenica oltre l’abisso del ’95, con la Settimana internazionale che richiama ogni anno l’attenzione sulla città dentro e fuori i confini della Bosnia, con la rete di sostegno costruita fra diverse istituzioni locali in Italia essenziale per garantire aperture e continuità.
Adopt è senz’altro una cosa piccola – dicevo -, ma cercata e costruita con cura. Le sue contraddizioni sono la ragione prima della permanente fragilità che l’accompagna, ma la capacità dei suoi membri di riconoscerle via via è il suo vero punto di forza. Era così anche per Alex: nelle parole “più lento, più dolce e più profondo” erano riassunte le sue aspirazioni più vere; la sua corsa senza quasi prendere fiato per abbracciare il mondo era la manifestazione più clamorosa di quanto viceversa la realtà fosse ostica a concedere quelle forme di beatitudine. La sua grandezza è stata di aver saputo governare, finché ha potuto, quell’ingovernabile opposizione.
[*professore ordinario di Storia Contemporanea – Università di Torino, Presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Alexander Langer]