“La maschera democratica dell’oligarchia”. Intervista a Geminello Preterossi

Tra i volumi cui si ispira la VI edizione della Scuola estiva di alta formazione in filosofia “Giorgio Colli” di Roccella Jonica trova posto “La maschera democratica dell’oligarchia“, un dialogo tra Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky curato da Geminello Preterossi per l’editore Laterza (2014). 

Qui di seguito un’anticipazione dell’intervista a Preterossi, che illustra quali sono ai suoi occhi alcune delle incertezze della democrazia contemporanea, a partire dalla coppia mezzi e fini cui è dedicata la Scuola 2015. L’intervista completa si può leggere qui.

Angelo Nizza — Ciò che resta della democrazia è il titolo del suo prossimo libro in uscita a ottobre. Quello della democrazia e delle sue trasformazioni nell’epoca della tarda modernità è uno dei temi chiave della sua ricerca e sarà l’argomento intorno a cui ruoterà il suo intervento a Roccella.

Come può un ragionamento sui mezzi e sui fini contribuire alla diagnosi della fase recessiva della democrazia? Forse, la crisi delle istituzioni democratiche, cui è connesso un atteggiamento autoreferenziale di chi sta al potere, si spiega anche ripensando al legame tra mezzi e fini che rischia di non essere più valido nella legittimazione democratico-rappresentativa?

Geminello Preterossi — Il rapporto mezzi-fini è certamente centrale in vista della legittimazione democratica. Anche perché la democrazia moderna rappresenta il compimento dell’artificialismo giuridico-politico (cioè dell’idea di un’autorità dal basso, di un ordine costruito dai consociati in quanto “autori”) e della promessa di minimizzazione dell’eteronomia.

Ma la realizzazione di questo fine “normativo” comporta molti paradossi: da un lato quello di una necessaria riproposizione di forme di “trascendenza” del potere, dall’altro il rischio della riduzione dell’autonomia a individualizzazione catturata dalla tecnocrazia (cioè dal mezzo fine a se stesso). Una delle ipotesi teoriche in campo per spiegare le crescenti incertezze della democrazia punta non sulla riduzione dello scarto tra modello e realtà della democrazia medesima, sui suoi limiti o difetti contingenti, e perciò superabili, ma sulla sua costitutiva “infondatezza” (che condividerebbe, in definitiva, con il mondo e il pensiero moderni in quanto tali).

Una posizione, si badi, che non è propria solo di forze e correnti antimoderne e reazionarie, nostalgiche dell’ordine gerarchico e organico, ma che sta sullo sfondo, più in generale, della koinè postmoderna la quale, sul fronte opposto ma simmetrico, nega nichilisticamente tanto la “sostanza democratica” quanto i suoi “soggetti”.

In ogni caso, la domanda non può essere elusa, anche da un punto di vista razionalista critico: davvero la democrazia è strutturalmente “infondata”? In che senso il relativismo della democrazia pluralista è compatibile con i principi e i diritti fondamentali del costituzionalismo? Quali sono le risorse di senso della democrazia e come possono essere riprodotte? Esiste un “contenuto minimo” dell’ordine democratico? E quanto può essere “minimo”?

L’istanza di fondazione, per come viene presentata da molti critici del nichilismo (che tendono a identificarlo erroneamente con il relativismo), cozzerebbe con le caratteristiche peculiari della democrazia moderna (artificialista, pluralista, procedurale, relativista ecc.). La conseguenza implicita o esplicita di tali chiavi di lettura è che la democrazia, in quanto prodotto eminente della modernità, nella misura in cui, paradossalmente, si “fonda” sulla negazione del “vero” fondamento (quello “assoluto”), sia condannata a essere “nichilistica”.

A. N. — Potrebbe sviluppare questo punto?

G. P. — In realtà, le cose non stanno in modo così semplificato. E la prima mossa da compiere per comprendere il rapporto complesso tra forma e legittimazione democratiche, vuoto e pieno nell’artificio politico-giuridico, è quella di evitare una lettura riduzionista e dimezzata del Moderno.

È vero, come abbiamo già evidenziato, che la democrazia può essere intesa come il compimento non solo delle istanze di partecipazione e inclusione sociale poste già a partire dalla Rivoluzione francese, ma del senso originario implicito nell’artificialismo politico-giuridico. Come l’effetto, insomma, della sostituzione della voluntas alla veritas.

Ma questo passaggio si impone in virtù di una ratio, fondata sul soggetto. Ed è sulla tenuta di questa idea di ragione non sostanziale e oggettiva, ma artificiale e soggettiva, che si fonda la possibilità di sottrarre la svolta volontarista all’irrazionalismo. La modernità si riempie di contenuti, ma sono contenuti “prodotti” (cioè pensati, argomentati, sentiti, voluti, contesi).

Non è chiaro in che senso la “produzione” di contenuto etico-politico – che si nutre di scelte e impegni normativi – ne determinerebbe l’irrimediabile “svalutazione”.

A. N. — La crisi della democrazia sembra registrare la sua quasi fine. Secondo lei un pensiero critico, e per ciò stesso anche capace di sviluppare le contraddizioni e rilanciare, non è precisamente un pensiero che all’ideologia della “fine” della democrazia e della politica sostituisce la ricerca per un nuovo “fine” della sfera pubblica? Se è d’accordo con questa interpretazione, quali sarebbero i nuovi “fini” a suo parere?

G. P. — Posto che una rappresentanza più “rappresentativa” – grazie a partiti non plastificati, più trasparenti e dall’effettiva vita democratica interna, e a leggi elettorali non espropriatrici della volontà popolare – cambierebbe molto il quadro, occorre comunque integrare le forme classiche della rappresentanza, ad esempio attraverso un regime delle leggi di iniziativa popolare che ne impedisca l’accantonamento senza deliberazione, un ripensamento della disciplina dei referendum che miri a evitarne lo svilimento, lo sviluppo di iniziative di azione popolare riguardo ai beni di interesse collettivo e destinati a uso pubblico (come quelli ambientali), la valorizzazione delle esperienze di cittadinanza attiva.

Soprattutto, è necessario che i soggetti politici, in particolare in Europa, acquisiscano vitalità tornando a parlare il linguaggio della realtà, guardando in faccia gli effetti del ciclo neoliberista e tecnocratico, senza inseguire improbabili accomodamenti e bicchieri mezzi pieni, che presuppongono mezze (o nulle) verità.

Allo stesso tempo, è fondamentale capire che una democrazia pluralista non può sopravvivere nel vuoto dei corpi intermedi, i quali non solo hanno perso potere e spazi di azione a causa dell’offensiva neocapitalista e degli effetti disgregativi della globalizzazione, ma patiscono una delegittimazione che nasce anche da limiti interni (corporativismi, chiusure oligarchiche, incoerenza, perdita di credibilità e contatto con i soggetti reali e i temi sui quali si struttura la loro coscienza sociale, ad esempio quelli del lavoro precario).

Sarebbe illusorio pensare di riempire questo vuoto con una “democrazia fluida”, che porta solo a una delega generica al “seduttore” di turno, o all’isolamento e al rifiuto di qualsiasi mediazione.

A. N. — Che fare, quindi, di fronte a questo panorama?

G. P.  — È urgente tanto un rilancio dell’iniziativa politica della società, quanto la ricostruzione di una effettiva rappresentatività del sindacato e della politica (con nuovi partiti, se quelli attuali sono esauriti), sulla base di regole efficaci che garantiscano trasparenza e un effettivo coinvolgimento dei cittadini.

Il deperimento della “democrazia reale” è tale che l’adozione di rimedi giuridici e istituzionali, per quanto necessaria, comunque non sarebbe risolutiva, senza ricostituire una cultura civile diffusa e culture politiche di sostanza.

Un lavoro critico e anche “pedagogico” di fondo, che ha bisogno di idee in contropelo e tempo. Ma la percezione di una discontinuità, di un orizzonte politico diverso, di un contesto che torni a dare senso all’azione sociale delle persone, che non le faccia sentire sole ed espropriate, ma soggetti incarnati in rapporto con gli altri, può essere il primo passo per rigenerare le motivazioni democratiche.

A. N. — In questa ottica, transitando dal livello teorico a quello empirico, quale commento si sente di dare in riferimento alla situazione italiana contemporanea?

G. P. — In una fase come quella attuale, nella quale la politica ufficiale, sempre più delegittimata, sembra subire una mutazione genetica accelerata, diventando marketing della speranza e/o della paura, retorica della concretezza e della buona volontà (perché le cose in fondo sarebbero “semplici”, se solo si volesse), il sostrato politico della democrazia italiana, frutto dell’accumulo delle esperienze collettive e delle lezioni maturate nel Novecento, sembra in via di esaurimento, cosa che mette a rischio la stessa forma democratico-costituzionale.

Anche perché ormai pure quelle parti e culture politiche che, benché più o meno in difficoltà, per tradizione avrebbero dovuto mantenere una certa consapevolezza della natura “complessa” dell’azione politica, essendo state catturate dalla trappola della neutralizzazione tecnocratica in nome della stabilità e della responsabilità, si ritrovano estremamente indebolite e disarmate rispetto ai “populismi” tanto di opposizione (le cui cause sono comprensibili), quanto “di governo” (extrema ratio per i difensori dello status quo).

Uno dei grandi problemi che complica le possibilità di costruire un’alternativa allo svuotamento della democrazia è che l’individualizzazione che ha caratterizzato, anche positivamente, le società post-tradizionali conosce oggi, per gli effetti della crisi e la competizione “allo stato di natura” imposta dal nuovo capitalismo globale, una radicalizzazione individualistica che mina le condizioni minime di vigenza del vincolo sociale e la stessa coscienza collettiva, producendo spoliticizzazione e spaesamento di intensità inedita, non sostenibile.

Una velenosa, atomistica ipertrofia della soggettività, che è il pendant della de-soggettivazione politica. Tale processo da un lato sembra azzerare gli spazi di manovra dei soggetti collettivi (quelli tradizionali, peraltro, ci hanno messo abbondantemente del loro nel generare disaffezione e deficit di rappresentanza); dall’altro finisce per consegnare le stesse nozioni di individuo e di libertà alla destra.

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