Una Tenda di Cemento

Il 26 giugno Campus in Camps, a cui abbiamo già dato spazio in passato, ha inaugurato una nuova forma architettonico-politica nel campo profughi di Dheisheh, a Betlemme. Pubblichiamo qui la traduzione in italiano del testo con cui Campus in Camps ha lanciato questo inedito e affascinante progetto.

Quando pensiamo ai campi profughi una delle immagini più ricorrenti che viene in mente è un agglomerato di tende. Tuttavia, oggi, a quasi settant’anni dalla loro creazione, i campi profughi palestinesi sono costituiti di una materialità completamente differente.

Le tende che formavano inizialmente l’accampamento con il passare degli anni sono state rafforzate e riadattate con muri verticali, successivamente sostituite da “shelter” e in seguito da vere e proprie case fatte di cemento, trasformando i campi profughi in solidi spazi urbani densamente popolati.

Esiste pertanto una marcata differenza tra l’immagine che abbiamo in mente quando pensiamo ai campi profughi e la loro effettiva materialità. Questo ci spinge a trovare dei significati per la realtà che si trova di fronte ai nostri occhi, ma che a stento riusciamo a capire.

I campi non sono più costituiti da strutture fragili. Però, allo stesso tempo non sono delle città. Le città hanno una serie di istituzioni che organizzano, amministrano e controllano la vita degli abitanti. Nei campi di oggi, nonostante i rifugiati abbiano messo in discussione il ruolo meramente umanitario dell’UNRWA (agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, NdT), questa agenzia delle Nazioni Unite di fatto non governa i campi.

I campi, come sappiamo, hanno sviluppato proprie forme di organizzazione sociale e politica. Manca un vocabolario per descrivere questa nuova condizione prodotta dalla prolungata eccezionalità politica.

Il Centro Culturale Al-Feniq, l’istituzione che ci ospita oggi, è un chiaro esempio di questa condizione contemporanea. Costruito dalla comunità del campo nella zona più elevata di una collina precedentemente occupata da una base militare, il centro ospita oggi una palestra, una pensione, una cucina comune, una sala per matrimoni e la libreria Edward Said. Al-Feniq non sembra affatto una tenda.

Se volessimo incominciare a capire cosa è un campo oggi, dovremmo comprenderne la storia. E qui le cose si fanno complicate.

Supponiamo che i campi abbiano una storia, e che questi oltre sessant’anni di esistenza corrispondessero alla vita di una persona. A una persona di quest’età non sarebbe negata la sua storia, fatta di esperienze ed eventi vissuti fino a quel punto. Come riconciliare questo elemento con il fatto che il campo è sempre considerato e descritto come una situazione temporanea del presente senza passato, come qualcosa che si è costituito al fine di essere cancellato e distrutto velocemente per fare ritorno ai luoghi da cui si è stati espulsi?

Per alcune persone abitare un campo significa abitare delle rovine e vivere ogni giorno nello spazio prodotto dall’inizio della Nakba. I campi sono costruiti sulla distruzione iniziata nel 1948, e per questa ragione sono “siti storici” costantemente distrutti e ricostruiti.

I campi profughi sono anche una ricostruzione dei villaggi demoliti da Israele, un riassemblaggio di persone e relazioni sociali. I campi sono l’incarnazione della lotta palestinese per l’esistenza. Tuttavia sembra che facciamo attenzione a loro solo quando vengono distrutti, solo quando smettono di esistere.

Per esempio, quando il campo di Nahr el-Bared in Libano, è stato distrutto durante la battaglia tra l’esercito libanese e le milizie islamiche, i rifugiati palestinesi hanno richiesto l’immediata ricostruzione. E l’hanno fatto non reclamando delle tende ma la precisa ricostruzione delle loro case di cemento costruite con anni di sacrifici. Lo stesso è successo dopo l’invasione del 2002 del campo profughi di Jenin. Il significato del campo e della ricostruzione delle sue strutture sembra emergere solo dopo la sua distruzione.

Come dare significato alle rivendicazioni dei rifugiati palestinesi in Libano che hanno chiesto di “ritornare al campo di Nahr el-Bared”? O, nel caso della Siria, cosa intendono i rifugiati palestinesi quando chiedono di “tornare al campo Yarmouk”? Cosa significa chiedere di ritornare in uno spazio che non è mai stato concepito per restarci e senza storia?

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Nel dicembre del 2013, dopo due anni di ricerche, i partecipanti a Campus in Camps hanno mappato gli “spazi vuoti” di Dheisheh tra cui un piccolo appezzamento di terra ribattezzato “three shelters” per via delle tre strutture costruite dall’UNRWA negli anni Cinquanta e ancora intatte.

Questo spazio, non più in uso e chiuso da una porta, ci racconta la fondazione del campo e la sua storia. Come può uno spazio che, si presuppone verrà smantellato e fatto sparire, avere una storia?

A questo punto è ovvio che rivendicare la storia del campo — una storia che va preservata per il suo valore culturale, politico e sociale — sia il modo migliore per rispondere alla domanda “che cos’è un campo profughi oggi”.

Ciò che ci è sembrato un patrimonio storico da conservare non è solo la struttura architettonica dei “three shelters”, ma anche la cultura immateriale e il significato di vita comune di cui le persone hanno fatto esperienza quando hanno vissuto in queste strutture. Possiamo sostenere che l’intero campo incarna una forma speciale di vita comune che si oppone all’ideologia umanitaria che riduce i rifugiati a numeri e statistiche.
Dopo una ricognizione sul sito del nostro progetto e alcune discussioni con gli abitanti del posto, i partecipanti a Campus in Camps hanno dato vita a un processo di progettazione collaborativa per preservare e trasformare il sito.

Tenendo conto del valore delle strutture architettoniche e del loro valore di memoria collettiva per gli abitanti del campo, è stato adottato un approccio non intrusivo sia per la salvaguardia del sito sia per dare a questo spazio — e, di riflesso, al resto del campo — nuove possibilità d’uso.

Abbiamo concepito il progetto come una sorta di inquadratura nera che circonda le strutture esistenti, spessa quindici centimetri e rinforzata con del cemento, apparentemente sospesa. L’obiettivo era di lasciare intatti i “three shelters”, la latrina comune, la cisterna e gli ulivi come segno di rispetto per il passato e le tracce per un possibile nuovo inizio.

La piattaforma, una sorta di palco teatrale, aveva una superficie di centoventi metri quadrati e poteva ospitare più di cento persone. Era pronta a ospitare gli incontri della comunità, concerti e rituali collettivi.

I partecipanti di Camps in Camps hanno passato alcuni mesi a dialogare con gli abitanti del quartiere e i proprietari del sito; discutendo non solo gli scopi del progetto ma anche, con il loro consenso, le attività da organizzare nel sito una volta trasformato. Dopo aver coinvolto l’intero quartiere nel progetto, il comitato popolare e i proprietari dei “three shelters”, hanno siglato un accordo.

I lavori di costruzione sono iniziati con degli scavi per creare le fondamenta del progetto. Dopo alcuni giorni un membro della “famiglia allargata” ha impedito agli operai di lavorare nel sito. La famiglia, il comitato popolare e i leader del campo hanno passato alcune settimane alla ricerca di una soluzione.

Tuttavia, nonostante l’accordo iniziale che garantiva l’uso collettivo dell’appezzamento di terra per i due anni successivi, Egli aveva deciso di venderlo contro il parare contrario dell’ intera famiglia. Aveva pensato che vista la nuova attenzione del sito, poteva tranne un personale beneficio. Durante la stessa notte i “three shelters” sono stati completamente distrutti.

Inutile dire che questo è stato un momento frustrante per i membri della comunità di rifugiati, poiché è andato distrutto un sito storico. Ed è stato un momento frustrante anche per membri di Campus in Camps, che hanno perso l’opportunità di vedere materializzarsi il loro discorso su cosa costituisce un campo profughi oggi. L’incidente ha però anche creato una consapevolezza collettiva sull’importanza di preservare il campo e la sua storia.

L’incidente ha prodotto una nuova comprensione del campo non più come un luogo senza storia, ma come luogo pieno di avvenimenti che possono essere narrati attraverso il tessuto urbano.

Queste storie sono state spesso represse per paura di normalizzare la condizione di esilio.

Da un lato questo evento ci ha spinti a pensare a come la nozione di conservazione in un campo profughi sia centrale al fine di dare significato e importanza storica alla vita in esilio. Dall’altro lato ci ha invitato a ripensare al concetto di conservazione e patrimonio culturale, e in base a quali criteri si assegnano valori estetici e culturali.

Affermare che la vita in esilio ha un significato storico è un modo per comprendere la condizione di esilio non tanto come una produzione passiva di una forma assoluta di violenza di stato, quanto come un modo per riconoscere i rifugiati come soggetti storici, che fanno la storia e non ne sono semplicemente vittime.

Rivendicare il campo come un sito da preservare aiuta a evitare la trappola che vuole come uniche alternative la commemorazione del passato o la proiezione della liberazione in un futuro messianico astratto costantemente posticipato e concepito come salvezza.

La nostra prospettiva vede il campo come un soggetto politico storico del presente, e considera il presente non come un ostacolo lungo la via del diritto al ritorno, ma come un passo in avanti. Rivendicare la storia nel campo è un modo per iniziare a riconoscere il presente del campo, la sua condizione, e di articolare il diritto al ritorno.

L’architettura infatti è in grado di registrare le molteplici trasformazioni che fanno del campo un patrimonio culturale. Ogni trasformazione architettonica nei campi è un’asserzione politica. È in questo senso che l’architettura registra i cambiamenti politici.

Quando nei primi anni Cinquanta i rifugiati che sono stati costretti a vivere i primi freddi inverni lontano dalle loro case hanno deciso di sostituire la tenda con dei muri di cemento, essi hanno così fatto fronte alla necessità di proteggere le loro famiglie da condizioni avverse, fornendo loro condizioni di vita decenti. Sono stati costretti ad accettare il rischio di rendere la vita in esilio più stabile.

Costringere le persone a vivere in condizioni miserabili non le avvicina al ritorno. Negare oggi il loro diritto a una vita dignitosa è semplicemente un’altra forma di violenza imposta ai gruppi più vulnerabili di rifugiati rimasti nei campi.

Dobbiamo chiederci seriamente perché il diritto al ritorno dovrebbe negare l’esistenza del campo o spingerci alla sua distruzione.

In altre parole, come possiamo articolare il diritto al ritorno dal punto di vista della condizione del campo?

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Oggi inauguriamo la “Tenda di Cemento” come spazio di conoscenza comune. La tenda ospiterà attività culturali, uno spazio di lavoro e incontri sociali.

L’urgenza di uno spazio di questo genere è emersa dalle discussioni con i partecipanti di Campus in Camps, che hanno visto in questa occasione una possibilità di materializzare e di dare forma architettonica alle narrazioni e alle rappresentazioni dei campi e dei rifugiati al di là dell’idea di povertà, marginalizzazione e vittimizzazione.

Siamo consapevoli del pericolo insito nella monumentalizzazione e sovra-simbolizzazione, ma abbiamo deciso di prendere questo rischio al fine di produrre un’architettura capace di misurarsi con i problemi sociali e politici che riguardano la comunità di rifugiati con cui lavoriamo.

Troppo spesso l’architettura è vista solo come un bene economico senza valore politico e sociale. Troppo spesso l’architettura è stata umiliata dal vuoto formalismo che vuole sembrare (eco)sostenibile o efficiente, dando risposte a-politiche a problemi politici. Troppo spesso, all’interno dell’industria umanitaria, l’architettura è legittimata solo come risposta ai cosiddetti “bisogni della comunità”.

Raramente l’architettura è stata utilizzata nel suo potere di dare forma ai problemi politici e sociali, e di mettere in discussione narrazioni dominanti, siano esse interne o esterne alla comunità.

Il nostro progetto cerca di abitare il paradosso di come preservare l’idea della tenda come valore simbolico e storico. A causa della degradabilità dei materiali di cui sono costituite le tende, queste strutture non esistono più.

Quindi ricreare oggi una tenda fatta di cemento costituisce un tentativo di conservare l’importanza simbolica e culturale di questo archetipo della narrazione della Nakba, confrontandoci allo stesso tempo con la condizione politica di esilio del presente.

La “Tenda di Cemento” si misura con il paradosso della provvisorietà permanente. Essa solidifica una tenda precaria nella forma di una casa di cemento. Il risultato è un ibrido tra una tenda e una casa di cemento, tra il provvisorio e il permanente, tra il cedevole e il solido, tra il movimento e immobilità.

La “Tenda di Cemento” non offre una soluzione. Essa abbraccia la contraddizione di una forma architettonica emersa dalla vita in esilio.

[The Concrete Tend è stato tradotto da Nicola Perugini. Le foto che accompagnano il post sono di Campus in Camps/Sara Anna]

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