Storie dal S. Niccolò: ritratti da un futuro remoto #1

Da una collaborazione tra MILLEUNA e REPARTO AGITATI, a partire da oggi pubblicheremo una serie di racconti brevi, a cura di Simone Ghelli, dedicati ai frammenti di biografia di uomini e donne che furono ricoverate al S. Niccolò, l’ex manicomio di Siena.

M.

Mi piacerebbe raccontare che sia venuto a visitarmi in sogno, almeno una volta. Comparirebbe così dal nulla, come faceva quando gli infermieri lo sorprendevano nella camera della L. o della T. con una mutandina di pizzo in testa e un reggiseno alla caviglia.

M. aveva questo potere di scomparire silenziosamente, rasente i muri. Se lo fissavi roteava gli occhi, come se dovesse circoscrivere lo spazio, e dopo un po’ ti sorrideva e chiedeva: «Che vòi?» Non parlava molto e quando lo faceva la voce gli usciva un po’ strozzata. Non appena ti incontrava allungava la mano per stringertela. Gli avevano insegnato a dire piacere e lui lo faceva continuamente, anche più volte al giorno e con la stessa persona. Era senz’altro il mio preferito, adoravo le zampe di gallina intorno ai suoi occhi e anche il modo in cui sbatteva continuamente le palpebre. L’ho visto in tante di quelle situazioni grottesche che potrei asserire di esserne stato amico intimo. Se non ho mai raccontato di certi particolari è perché ne provo ancora un certo pudore, a distanza di quindici anni. Mi piace invece ricordarlo in trattoria, sorridente e con la faccia impiastricciata di sugo al pomodoro.

Al San Niccolò si usava comprare un regalo per il compleanno degli “ospiti”[*], solitamente una maglietta, o un paio di pantaloni o un paio di scarpe. Per M. chiesi però di fare uno strappo alla regola e proposi di accompagnarlo a mangiare fuori, per fargli assaggiare la pasta lunga che non aveva mangiato mai – nonostante al refettorio venissero serviti soltanto i formati corti per evitare che si strozzassero nel deglutire, periodicamente accadeva che qualcuno degli ospiti rischiasse comunque di soffocare per aver inghiottito il cibo senza neanche masticarlo. Così ci sedemmo al tavolo, l’uno di fronte all’altro, e io ogni tanto gli pulivo la bocca col tovagliolo o gli raccoglievo qualche filo caduto fuori dal piatto. Quel giorno in trattoria c’eravamo soltanto lui ed io e la cameriera che ci guardava un po’ stranita, ma non come se fossimo due matti. Non c’era giudizio nel suo sguardo, anche perché all’apparenza M. non era che un cinquantenne con la sindrome di down. Tutti gli altri disturbi che gli furono diagnosticati durante la degenza in manicomio furono il risultato dell’internamento. Sarebbe capitato a chiunque, dopo venti o trent’anni di vita tra quelle mura. Fui così contento quando vidi che aveva mangiato tutto quanto che rimasi a fissarlo come un ebete. «Che vòi?» mi chiese sporgendosi sul tavolo. Non aveva poi tutti i torti. Che avevo da guardarlo così?

 

[*Per “ospiti” s’intendevano le persone in attesa di una nuova destinazione nel periodo di transizione che doveva portare alla chiusura definitiva dell’ex manicomio.]

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