Better call Max.
All’inizio di luglio le principali sigle sindacali del comparto istruzione hanno firmato un accordo con il MIUR per la chiamata diretta del Dirigente Scolastico. Un commento critico a uno degli aspetti più dibattuti della legge 107/2015.
Nel novembre 1917, quasi un secolo fa, riflettendo sulla trasformazione novecentesca del lavoro di studioso accademico in carriera, Max Weber notava come in un sistema di selezione robustamente burocratizzato e tecnicizzato, quello delle università statunitensi, una buona componente nella scelta delle nomine dei docenti fosse alla mercé del caso. Secondo Weber «se gli studenti si affollano intorno a un professore, ciò è determinato in larghissima misura da circostanze puramente esterne, come il temperamento o perfino il timbro della voce» (La scienza come professione. La politica come professione, tr. it. di P. Rossi, Einaudi, Torino 2004, p.11).
Da qui la sfiducia dello studioso tedesco per una democratizzazione dell’insegnamento scientifico: la libera docenza non produce di per sé buoni ricercatori perché la selezione di questi ultimi è una faccenda non certo di selezione sulla base dei consensi, ma di «aristocrazia dello spirito», di criteri oggettivamente orientati ai valori della scienza e della cultura.
Weber pronuncia queste parole a Monaco di Baviera, in una Germania guglielmina che si avvia alla disfatta bellica e con lo spettro bolscevico che si sta impadronendo del potere al di là del Don. Da allora, la questione del rapporto fra docenza, professionalità e democrazia rimane un nodo difficile da districare per qualunque classe dirigente. Il grande merito di Weber, fra i tanti, sta nell’aver individuato il campo semantico del problema, riflettendo sull’ambiguità della parola “professione”, in tedesco Beruf, parola che può significare anche “vocazione”, “chiamata” e che pertanto conserva, secolarizzandolo, un afflato religioso, paolino-agostiniano e luterano: la professione come realizzazione di sé, come risposta alla voce della propria interiorità.
La medesima complessità dell’endiadi professione-insegnante, affrontata da Weber, la troviamo oggi nel nostro provincialissimo dibattito quotidiano, in cui le questioni relative al ruolo e all’organizzazione dell’istruzione nello scenario contemporaneo di una moderna democrazia, passa in secondo piano rispetto alla propaganda governativa di un sottosegretario con voraci appetiti elettorali o a vittorie di Pirro sindacali.
All’inizio di luglio i maggiori siti di informazione sull’istruzione pubblica italiana riportavano trionfali notizie di un accordo fra sindacati e MIUR a proposito della chiamata diretta, il meccanismo con il quale a partire dal prossimo anno scolastico, i Dirigenti Scolastici provvederanno ad assegnare gli incarichi per i docenti di ruolo afferenti all’ambito territoriale in cui è collocata ciascuna scuola. Si tratta di una delle novità più importanti e cariche di conseguenze della legge 107/2015: si dice che i DS sceglieranno direttamente il team docente che comporrà l’organico dell’autonomia sulla base delle esigenze espresse dal Piano Triennale dell’Offerta Formativa. La selezione avverrà a partire da una serie di criteri “oggettivi”, orientata ai titoli (in queste ore si parla di ben 46 requisiti valutabili). Novità che hanno indotto non pochi analisti balneari delle sorti dell’istruzione pubblica italiana ad acclamare il superamento della selezione per anzianità dei docenti, in favore di una più moderna e giusta selezione per competenze. Chiamata per competenze: una rivoluzione, anzi una rottamazione.
Posta l’indegnità dell’attuale sistema di selezione e reclutamento degli insegnanti, fondato su una totale disparità generazionale, su regole arbitrarie e su forme di umiliazione in pieno stile BDSM, bisognerebbe interrogarsi sul senso e sugli effetti concreti della chiamata per competenze.
Partiamo dagli ultimi. Bisogna innanzitutto notare che la “chiamata per competenze” non elimina o neutralizza il meccanismo delle graduatorie d’istituto, fondate sul punteggio per anzianità di servizio. La procedura che porterà alla selezione e alla scelta dall’organico dell’autonomia dei docenti di un istituto scolastico verrà espletata presumibilmente nei mesi estivi, prima della fine di agosto.
I DS dovranno compiere la selezione nel giro di un paio di settimane al massimo, per poi passare il lavoro di nomina burocratica al personale ATA delle segreterie. Vista, al momento, la totale assenza di leggi o ordinanze ministeriali che abroghino il sistema di punteggio delle graduatorie interne d’istituto, immagino che un docente di ruolo che da anni lavora in un istituto e che si trovi surclassato nella scelta del DS da un altro docente chiamato “per competenze”, faccia regolare ricorso agli uffici competenti. Possiamo immaginare che di queste situazioni e affini se ne verificheranno una moltitudine. Il primo effetto pratico della “chiamata per competenze” sarà pertanto un ulteriore caos nella già lentissima formazione dell’organico di fatto di una scuola. In barba alla tecno-velocità sbandierata dai pasdaran della 107.
Secondo, ma non meno importante, bisogna interrogarsi sulla logica educativa della “chiamata per competenze”. Il presupposto ideologico di una selezione degli insegnanti basata su un’etichetta di questo tipo è appunto che le capacità professionali si misurino sulla base delle competenze acquisite, e che queste ultime siano percettibilmente misurabili nella quantità di titoli acquisiti durante il proprio percorso di istruzione e formazione.
Mi limito a osservare che l’equazione competenze-titoli culturali e professionali certificati sia quanto meno discutibile e più affine alla sensibilità di una realtà aziendale che a quella di un’istituzione educativa come la scuola pubblica.
Misurare una competenza è faccenda complicatissima e al centro di raffinati dibattiti internazionali, da anni. Ciò che invece viene pregiudizialmente escluso dall’acritica equazione competenze=titoli è la qualità della relazione educativa e formativa, la capacità dell’insegnante di costruire e alimentare un canale di scambio con i propri studenti. Tale aspetto, il più importante per chi lavora a scuola, è invece il più trascurato, se non del tutto ignorato, da una legge di riforma che è molto più attenta a cogliere il plauso confindustriale di una legge di stabilità.
Una scuola a misura di stage aziendale ha bisogno di formatori altamente qualificati e ufficialmente certificati, con il bollino della famosa marca di banane sul CV. Aggiungo e con molta malizia da gufo, anzi, da civetta, che la corsa alla titolazione produrrà un discreto introito nelle casse dei formatori post laurea, delle Università con l’acqua alla gola, dei fittizi enti certificatori di competenze linguistiche. Per utilizzare una metafora sportiva, tanto cara ai social-comunicatori di palazzo, il CV di un docente di ruolo non dovrà mancare di nessun trofeo per sperare nella chiamata diretta, anche a costo di truccare il torneo e comprarselo, con la compiacenza di organizzatori truffaldini, più attenti alle proprie tasche che ai valori della competizione.
La parola competenza viene dal latino competĕre cioè “dirigersi insieme a un medesimo punto”, “convergere insieme” verso un approdo comune. Nell’ultimo ventennio è diventata la parola chiave per l’istruzione nei Paesi a capitalismo finanziario avanzato, non a caso ciò che si può considerare il quid del concetto di “competenza” è la riflessività: tutte le competenze di un soggetto, se sono tali, richiedono la capacità di porsi nel mondo in modo flessibile, adattabile, intraprendente e ipocritamente tollerante.
La stessa riflessività è oggi richiesta, col plauso delle maggiori sigle sindacali, a chi ha visto in questi anni l’erosione del patrimonio di valori e intelligenze vantato dalla nostra scuola pubblica. Adattatevi, cari insegnanti, e anche per voi arriverà la vocazione, pardon, la chiamata diretta.