Il golpe, la televisione, lo smartphone e l’aeroplano

Lo spazio intermediale dell’agire politico durante il golpe in Turchia.

A questo punto non sarà possibile rispondere a una serie di domande relative al mancato golpe che si è consumato, ed è fallito, nell’arco di una notte, il 15 luglio scorso. Chi erano gli ufficiali golpisti (stando agli arresti effettuati, dopo che Erdogan ha ripreso il controllo della situazione, 5 generali e 29 colonnelli)? Cosa avrebbero voluto fare, se avessero preso il potere estromettendo il presidente della repubblica? La popolazione era pro o contro di loro? E se, com’è più probabile, parte della popolazione era scesa in piazza per sostenerli, parte per invitarli a rientrare nelle caserme, quali erano i numeri reali del consenso, e del dissenso, al tentato colpo di stato?

Erdogan avrebbe preferito inizialmente la fuga o tutto il racconto della notte del 15 luglio – fuga dalla Turchia, rifiuto di asilo da parte di diversi paesi europei, rientro in patria e ripresa del controllo – è una ricostruzione di fantasia, tanto da far pensare a una messinscena ordita dallo stesso presidente della repubblica per rafforzare il suo sistema autoritario di potere sull’onda dello sdegno per il tentativo di sovversione dello stato?

Ora sapremo solo una cosa: il golpe fallito sarà la scusa (inoppugnabile) di Erdogan per portare a compimento lo smantellamento dello stato turco a partire dalle sue fondamenta laiche, procedendo poi all’edificazione di un nuovo stato autoritario e islamista, ideologicamente fondato sulla nostalgia del passato imperiale ottomano. Sia chiaro: storicamente l’esercito non difende in Turchia la democrazia. L’ideologia politica dei militari turchi è un misto di nazionalismo (l’integrità della nazione turca contro le minoranze, quella curda in testa), ordine repubblicano (che precede e può perfino sopprimere ogni riferimento alla democrazia) e laicità.

Per elaborare un’analisi, per quanto rozza, del fallito golpe del 15 luglio, si deve partire da un giudizio e da una presa di posizione di fondo: la politica di Erdogan rappresenta un problema per il mondo. Erdogan si è dimostrato un leader autoritario, il quale non si limita a governare con il pugno di ferro, ma aspira evidentemente a edificare nel paese un nuovo ordine politico, incentrato sulla sua figura presidenziale.

Tradizionalmente i militari in Turchia hanno sposato invece una versione repubblicana dell’autoritarismo: riferimento alla figura di un padre della patria e fondatore della repubblica (Aratürk), difesa a oltranza dei valori dell’ideologia kemalista e affidamento su un’élite laica che condivide con i militare questa base ideologica. Erdogan è stato capace di inventarsi un nuovo nazionalismo, in cui l’appello alla difesa dell’unità nazionale contro ogni forma, anche minima, di autonomia delle minoranze si unisce a una crescente islamizzazione della società turca e al passaggio progressivo da una forma di potere diffuso in un’élite a una forma di potere concentrato nelle mani del presidente e distribuito da questo ai suoi fedelissimi.

Ciò consente a Erdogan di non rompere, almeno ufficialmente con l’ideologia kemalista alla base della stato turco, e contemporaneamente di resuscitare le glorie dell’impero ottomano. Sul filo di queste contraddizioni Erdogan è riuscito a dare vita a un modello di democrazia autoritaria e populista, che perseguita gli oppositori politici (giornalisti in testa) in spregio ai princìpi della democrazia liberale, ma che trova poi conferma del consenso popolare nel responso delle urne. Quando i risultati elettorali sembravano voltare le spalle al presidente, questi ha saputo abilmente manovrare la crisi politica in modo da tornare alle urne (nel pieno dell’instabilità seguita a una serie di attentati), uscendo rafforzato dalla situazione di crisi.

Si tratta di una serie di questioni squisitamente politiche. La loro soluzione sarebbe potuta venire anche da una diversa gestione dei media. A essere più precisi, da una diversa organizzazione dell’azione politica in vista della sua inevitabile esposizione attraverso i media.  Agire politicamente significa oggi, in una misura crescente, come sostiene Richard Grusin in Premediation, “premediare” il lavoro dei media. I tre elementi fondamentali che hanno accompagnato l’esposizione mediatica della notte turca del 15 luglio 2016 sono stati lo smartphone, la televisione e l’aeroplano.

I militari golpisti hanno agito come da manuale: per prima cosa hanno occupato la televisione. Il controllo della comunicazione braodcast appariva loro lo strumento fondamentale per evitare l’emergere di un dissenso diffuso nei confronti della loro azione e, in seconda battuta, per veicolare il consenso al nuovo ordine. Uno scenario degno degli anni Settanta del secolo scorso. I militari non hanno calcolato che, nell’epoca della rete, bastano uno smartphone e un canale televisivo privato (la CNN turca) ancora attivo per consentire al presidente destituito di far sentire la sua voce, invitando la popolazione a scendere in piazza per affrontare i golpisti.

I militari hanno capito che la televisione costituisce ancora il medium principale, quando si tratta di rivolgersi al corpo politico nella sua interezza. Essi non hanno capito, però, che la rimediazione, la quale è ormai il tratto caratteristico di ogni forma di medialità (vecchie e nuova), non consente più di assicurarsi il controllo di un medium attraverso l’occupazione della sua centrale (la televisione pubblica) per comunicare la verità ufficiale dei fatti in corso. La controinformazione è ormai immediatamente disponibile a chiunque: bastano uno smartphone e una televisione privata – non necessariamente un’emittente “indipendente” nel senso stretto della parola – per mettere in circolazione una narrazione alternativa dell’evento. Erdogan non avrebbe potuto comunicare al popolo turco la sua narrazione dei fatti senza creare questa rimediazione di un “nuovo” medium (lo smartphone) in un  “vecchio” medium (la televisione).

Il terzo elemento fondamentale, accanto alla televisione e allo smartphone, è l’aeroplano. Stando alla ricostruzione giornalistica dei fatti, Erdogan si sarebbe trovato in una località di villeggiatura lontana dalla capitale al momento del golpe. Avrebbe provato a raggiungere l’aeroporto di Istanbul per raggiungere con l’aereo presidenziale un paese amico dove cercare asilo.

È circolata la notizia – non sappiamo se falsa o solo parzialmente vera – che il governo tedesco avrebbe rifiutato asilo politico al presidente turco. Se fosse vero, si sarebbe trattato evidentemente di una tattica attendista, condivisa peraltro dal resto della comunità internazionale, paesi europei e Stati Uniti d’America in testa. Solo quando è stato chiaro che Erdogan era rientrato in Turchia (o non l’aveva mai lasciata) e aveva ripreso il controllo della situazione, tutti i paesi occidentali si sono affrettati a stigmatizzare l’accaduto nel rispetto di chi governa a seguito di elezioni democratiche.

Questa posizione non tiene conto del fatto che Erdogan esercita il potere in modo autoritario. Inoltre il suo partito, l’AKP, è stato confermato dalle urne solo dopo che un parlamento appena eletto con un rapporto di forze completamente diverso tra maggioranza e opposizione era stato sciolto e nuove elezioni si sono tenute in un clima di profonda instabilità, a seguito di una serie di attentati. Il primo parlamento avrebbe rappresentato un valido contrappeso a Erdogan, in particolare in merito al suo progetto di riforma della costituzione in senso presidenzialista, mentre il secondo parlamento è schiacciato sulle posizioni del presidente della repubblica.

Tra televisione, smartphone e aeroplano si è aperto una spazio (intermediale) dell’agire politico, ovvero uno spazio politico dell’intermedialità, estremamente interessante per gli imprevisti effetti prodotti (e dunque per il tasso di creatività che esso conteneva). La sola rimediazione dello smartphone nella televisione avrebbe probabilmente dato l’impressione di un leader che lancia un ultimo, disperato al suo popolo: un leader debole, al tramonto. La triangolazione tra smartphone, televisione e l’evocazione di un presidente su un aeroplano per i cieli dell’Europa e del Medio Oriente ha lanciato un’immagine di Erdogan completamente diversa. Si è diffusa la sensazione che Erdogan agisse e comunicasse come un potere invisibile, o per meglio dire non localizzabile, da un luogo sconosciuto (lo spazio aereo? una località segreta? un luogo di detenzione?), pronto a riapparire da un momento all’altro per riprendere in mano la situazione, rassicurando tutti di essere sempre stato a fianco del suo popolo e invitandolo a non abbandonare le piazze, in una forma di mobilitazione permanente (anticamera di un prossimo passaggio totalitario).

La notte del 15 luglio, prima ancora che l’islamismo o il kemalismo, ha vinto probabilmente questo potere invisibile dei media.

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