Anti anti-criticism. Per un’antropologia nel presente

Armando Cutolo, autore di uno dei saggi compresi nel volume curato da Fabio Dei e Caterina di Pasquale interviene dopo i testi di Fabio DeiPietro Saitta e Valerio Romitelli.

1 Reductio ad unum

Di solito non si commenta il saggio introduttivo di chi ha curato un volume in cui compare un proprio contributo. Oltre all’invito della redazione de Il lavoro culturale, mi spinge a farlo il senso di disagio causatomi dalla lettura della Premessa e del saggio Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica, entrambi di Fabio Dei. Si tratta dei due testi che aprono il libro collettivo Stato, violenza, libertà, curato dallo stesso Dei insieme a Caterina di Pasquale. L’averne firmati uno in qualità di curatore e l’altro come autore, non rende meno visibile l’unitarietà e la collocazione tattica di quella che appare a tutti gli effetti come un’unica, articolata introduzione-pamphlet. Nelle sue pagine, Dei cerca di delegittimare sul piano intellettuale e politico quella che etichetta come “antropologia critica” – in pratica, gli sviluppi più rilevanti avvenuti in antropologia dopo la svolta ermeneutica affermatasi trent’anni fa.

La cosa singolare, però, è che diversi dei saggi contenuti nel libro si rifanno a questi sviluppi. Possono essere considerati, cioè, saggi di antropologia critica. Di ciò Fabio Dei non dice nulla, salvo avvisare il lettore che i coautori del volume – frutto di un convegno tenutosi a Pisa nel gennaio 2017 – sono “di orientamento molto diverso, più vicini o più distanti dal nucleo e dal linguaggio dell’antropologia critica”. Tutto qui.

Il lettore ottimista o frettoloso potrebbe pensare a un approccio fondamentalmente pluralista. Chi avesse partecipato al bel convegno pisano organizzato da Dei, poi, potrebbe forse intendere l’assenza di presentazioni e commenti ai testi pubblicati come volontà di presentare in modo diretto, senza filtri, la varietà di posizioni registrate a Pisa. È quanto sembra suggerire effettivamente Dei quando annuncia, nella Premessa, “un confronto tra metodi e stili etnografici e teorici non certo omogenei”. Se questa era l’intenzione dei curatori, però, il risultato è di segno opposto. Innanzitutto, perché il saggio che segue la Premessa è di quelli che fanno davvero di tutta l’erba un fascio. Vi viene presentata una teoria immaginaria, quella de Lo Stato assassino, creata appositamente per poter accomunare e attaccare – a volte al limite dell’insulto – autori e stili analitici che tra di loro non hanno nulla a che vedere. Ma soprattutto, l’ “introduzione de facto” (non saprei come definirla altrimenti) scritta dal curatore determina una logica metonimica in cui una parte (la sua) rischia di rappresentare e di dare senso al tutto. Una sorta di “inglobamento gerarchico del contrario” che fa venire in mente Louis Dumont.

Agli autori “critici” che hanno partecipato al libro potrebbe allora venir voglia di ragionare sul perché Dei e Di Pasquale non abbiano presentato e discusso, come si fa di solito, i diversi saggi pubblicati. Sarebbe stato assai opportuno, data la vis polemica con cui il curatore tratta i riferimenti intellettuali che vi figurano. Verrebbe voglia di ragionare, inoltre, sui motivi della propria presenza nel libro. Vi compaio come esempio di antropologia da mettere all’indice? Sono qui perché il mio modo di usare i concetti di “nuda vita” o di “biopolitica” risulta accettabile ai curatori? E perché dovrebbe essere così, vista la condanna senza appello di Dei? Oppure abbiamo tutti inconsapevolmente partecipato alla costruzione di una tribuna concepita far risaltare la voce del curatore-autore?

Questo sgradevole sospetto sembra confermato dall’intervento di Stefano Allovio e Adriano Favole pubblicato il 25.03.08 su La lettura, settimanale culturale del Corriere della sera. Poiché so bene che le redazioni dei periodici decidono spesso autonomamente i titoli dei testi firmati dagli accademici, non commenterò a loro spese quella che sarebbe stata la perfetta sentenza di un tribunale coloniale alle prese con un antropologo dissenziente: “La militanza radicale nuoce all’antropologia”. Ma ciò detto, non si può fare a meno di notare il delinearsi di un quadro egemonico: dalle pagine autorevoli di uno dei quotidiani più letti in Italia, Allovio e Favole parlano (solo) del saggio di Fabio Dei sposandone in pieno le posizioni e difendendo la centralità delle “prospettive interpretative e riflessive” dalle minacce del post-strutturalismo. Sia chiaro: non metto certo in questione il diritto di questi (peraltro stimati) colleghi di esprimere le loro opinioni sull’antropologia critica, né il diritto di tralasciare gli altri contributi (ubi maior…). Ma è difficile, a questo punto, evitare di constatare come i rischi evocati sopra siano tutt’altro che immaginari.

2 Nostalgie ermeneutiche

Come intendere questa peculiare difesa tardiva dell’antropologia interpretativa? La prospettiva ermeneutica, pur essendosi affermata nel nostro paese da più di vent’anni, non hai mai rappresentato la totalità delle posizioni. Desta un certo stupore il fatto che ci venga riproposta oggi in una nuova chiave egemonica (o controegemonica, come vorrebbe farci intendere Dei). Che si cerchi, cioè, di far dare per scontato che difendere la prospettiva ermeneutica equivalga a difendere l’antropologia tout court.

A ben vedere, tutta la “critica all’antropologia critica” di Dei è pervasa dalla nostalgia: nostalgia per la figura dell’intellettuale organico, rispetto agli attuali percorsi individuali, autonomi, di coinvolgimento e militanza degli antropologi nei movimenti sociali; nostalgia dei tempi in cui Gramsci era letto e usato in modo filologicamente corretto; nostalgia, esplicitamente formulata, per i dibattiti epistemologici degli ultimi decenni del Novecento (p.3). Di quei dibattiti, che iniziarono nell’antropologia culturale americana, Fabio Dei è stato un attento lettore e commentatore nel quadro degli studi italiani. Ma, come ha già osservato Pietro Saitta nel suo intervento su questo sito, l’antropologia critica ha preso le mosse proprio da lì. È strano che non vi sia, nel saggio di Dei, neanche un accenno a tale genealogia.

Già in Scrivere le culture (1986), volume collettivo curato da George Marcus e James Clifford che ha segnato la storia dell’antropologia, l’approccio interpretativo geertziano era stato infiltrato da una critica che rifletteva su “le poetiche e le politiche” della scrittura etnografica, mettendo in evidenza le forme di autorità che si costruiscono al suo interno. L’antropologia che oggi non piace a Dei è il risultato dell’approfondirsi di quella linea di riflessione, la quale, a lungo andare, non ha potuto essere confinata all’ambito strettamente epistemologico. Perché, come osservò Lila Abu-Lughod in Scrivere contro la cultura, nel 1991, non si possono oscurare i contesti storico-politici in cui il progetto conoscitivo antropologico ha preso e continua a prendere forma. Gli antropologi e gli informatori che si confrontano nel setting etnografico sono parte di storie più ampie, di processi politico-economici globali che si riflettono nella distinzione tra osservatori e osservati, nel riconoscere universalità a certe voci e particolarità – alterità, etnicità – ad altre.

Non si possono liquidare queste osservazioni come le solite argomentazioni politically correct dell’accademia americana. Se provengono da lì è perché quella élite intellettuale possiede da tempo un carattere composito e cosmopolita che da noi fa fatica ad affermarsi. Di conseguenza è teatro di scontri e tensioni politico-culturali di cui in Italia non facciamo esperienza … finché restiamo all’interno delle mura universitarie, perché quando andiamo sul campo – nei paesi postcoloniali così come nelle nostre periferie – le stesse questioni ci vengono buttate in faccia da quelli che si vorrebbe restassero dei pacifici informatori, sulle cui spalle arrampicarsi geertzianamente per formulare “interpretazioni di interpretazioni”.

È rispetto a queste istanze che gli antropologi critici, convergendo con storici, sociologi e antropologi provenienti dal mondo postcoloniale, hanno avvertito l’esigenza di ricorrere a strumenti concettuali capaci di oggettivare e relativizzare assunti culturali che stanno a fondamento dei nostri modi di pensare il sociale e il politico. Concetti come quelli di biopolitica e biopotere, per fare un esempio non casuale, sono l’esito della messa a distanza culturale e della conseguente denaturalizzazione, da parte di Michel Foucault (che non a caso nell’ultima parte della sua vita si definiva come “un etnologo dell’Occidente”), di un episteme politico che a partire da un preciso periodo della storia europea ha iniziato a plasmare non solo il modo di governare e di intendere il sociale, ma progressivamente anche le soggettività dei cittadini, nonché le categorie con cui rappresentano se stessi ed i propri rapporti con lo Stato.

Il biopotere quale “potere di dare (proteggere, curare) la vita”, i processi di calcolo economico-politico e demografico che contribuiscono al funzionamento delle azioni di governo, sono elementi di cui occorre essere consapevoli nel momento in cui si affrontano temi come quello – per fare un altro esempio non casuale – dell’accoglienza ai migranti. Usando le parole di Fabio Dei (p.22), come dar conto della “peculiarità dell’atteggiamento europeo verso i migranti clandestini” che “vorrebbe al contempo respingerli e salvarli”, senza fare alcun riferimento ai legami profondi tra umanitarismo e securitarismo che l’antropologia critica ha messo in luce? Come potremmo “dare senso all’incredibile mix di sopraffazione e assistenza, disumanizzazione e dialogo umano che caratterizza i Centri di identificazione ed espulsione”, senza riferirci alla struttura biopolitica del dispositivo che tiene insieme tutto ciò in un unico quadro di cura e controllo, di esclusione e presa in carico? La “opacità irriducibile dei sistemi di norme contraddittori”, i “malintesi linguistici” gli “stereotipi etnici” (cito ancora Dei) che si osservano nei CIE sono elementi fondamentali del loro funzionamento concreto. Nessuno sta in questi campi in quanto “soggetto culturale”; anzi, c’è da augurarsi di non essere trattati come tali, perché quando ciò avviene si rivela un efficace strumento per delegittimare le istanze soggettive dei richiedenti asilo, riducendole ad espressione di un’alterità che rende inadeguati, che spiega di per sé l’indisciplina, che inchioda i “recalcitranti” (un vecchio termine che si usava per designare chi si opponeva ai poteri dello Stato coloniale) alle loro “primitive” culture d’origine. E per quanto riguarda la soggettività di operatori, psichiatri, medici, agenti di polizia, assistenti sociali ecc. , come analizzare gli habitus professionali che strutturano il loro agire senza far riferimento ai protocolli disciplinari, ai saperi sociali e comportamentali standardizzati, ai dispositivi burocratici e giuridici da rispettare, alle parole-chiave del settore umanitario da contemplare … insomma, all’idioma governamentale e biopolitico in cui tutto ciò prende forma, sia pure con le contraddizioni, le contingenze e le linee di fuga che caratterizzano il funzionamento di ogni dispositivo?

Infine, restando ancora sul tema dei migranti ma passando dalla biopolitica alla nuda vita, si pensi al dispositivo d’identificazione biometrica EURODAC, che raccoglie le impronte digitali dei richiedenti asilo giunti in Europa. Che cosa avviene, ad ogni scansione elettronica delle impronte, se non una separazione potenziale tra l’identità sociale espressa dalla dichiarazione di un nome, di una storia di vita e di viaggio, e l’identità non-sociale, meramente biologico-corporea che verrà riconosciuta da quel momento in poi mediante dei ghirigori rilevati sui polpastrelli? Da una parte un’identità personale che, proprio in quanto tale, è aperta alle pratiche tattiche e alle negoziazioni della vita sociale; dall’altra un’identità materiale immediatamente (e coercitivamente) accertabile attraverso tutte le frontiere dei paesi Schengen: un numero in un database – questo producono le macchine biometriche – corrispondente a un corpo per il quale, in ultima analisi, si potrebbe anche fare a meno di un nome.

L’identificazione biometrica è un’identificazione che non ha bisogno di riferirsi alle forme culturali e sociali dell’identità personale. Produce un’identità dalla quale la forma di vita del migrante viene separata: quale categoria usare, qui, se non quella della nuda vita? Il fatto che gli schedati restino comunque dei soggetti sociali, capaci di sfuggire ai controlli e di continuare a ricostruire percorsi e storie personali, nulla toglie alle implicazioni di questa tecnologia. Il fatto poi che non siano “uccidibili” come l’homo sacer romano – argomento sul quale Dei impernia la sua critica principale all’uso di questo concetto – non ha molta rilevanza, perché l’homo sacer, come chiarisce molto bene Agamben sia nel testo eponimo che altrove, non è che un caso estremo, e tuttavia esemplare, della riduzione a nuda vita quale prodotto del potere sovrano.

Certo, l’indagine antropologica non può limitarsi a riconoscere la pertinenza delle categorie “critiche” nei contesti etnografici che studia. Ma quale “antropologo critico” limita il suo lavoro in tal modo? Nel concreto delle ricerche, queste categorie costituiscono perlopiù dei mezzi, che intervengono tra altri nell’analisi di fatti e processi specifici. Pensiamo, tra i molti esempi possibili, a noti testi di antropologia critica come quello di Ahiwa Ong sui rifugiati cambogiani negli Stati Uniti, quello di Michel Agier sulla “gestione degli indesiderabili”, o quello di Philippe Bourgois sull’economia della droga di East Harlem. Come potremmo sostenere, a fronte delle minuziose descrizioni di Ong, degli anni passati da Agier a fare ricerca nei campi dei rifugiati e di tutto il tempo speso da Bourgois in compagnia degli spacciatori di crack – e davanti alle centinaia di pagine di etnografia prodotte da questi autori – che i riferimenti a Foucault, Agamben, Negri, Marx sacrifichino il contenuto etnografico delle loro ricerche e riducano le loro analisi alla ripetizione del lessico della “Theory”?

L’uso trasversale di strumenti analitici e di nozioni condivise è utile,in realtà, proprio a sviluppare una dimensione comparativa minima che l’antropologia ha rischiato di perdere. Ritornando alla biometria, il sistema indiano di registrazione chiamato Adhaar non ha le stesse funzioni e non è stato prodotto dalle stesse ragioni politiche di EURODAC, e quest’ultimo non ha nulla a che vedere con i fini e con le pratiche sociali connesse alla biometria in molti paesi africani. Resta il fatto che indagini antropologiche su contesti così diversi possono parlarsi reciprocamente riferendosi ad alcuni concetti comuni, se questi ultimi vengono aperti alle trasformazioni imposte dalla ricerca etnografica. E’ forse la costruzione di questo tipo di nessi che l’antropologia interpretativa non vede di buon occhio? Credo di si: Fabio Dei teme che il tipo di “gergo analogico” dell’antropologia critica possa contribuire a un ritorno verso “forme di determinismo e oggettivismo di segno decisamente positivistico” (p. 29, nota 10). La “critica dell’antropologia critica” mostra di essere innanzitutto una difesa dell’antropologia interpretativa.

3. Una questione che viene da lontano, quella del soggetto

Nelle pagine conclusive di Le parole e le cose, Michel Foucault ha dedicato parole entusiastiche al progetto conoscitivo dell’etnologia. Ad essa, insieme alla psicanalisi e alla linguistica generale, assegnava un ruolo di rinnovamento nel campo delle scienze umane. Era il 1966, e Foucault si riferiva evidentemente all’etnologia strutturalista di Claude Lévi-Strauss. Il filosofo la descriveva come una “contro-scienza”, ovvero come una scienza portatrice di un “principio di inquietudine, di problematizzazione, di critica e di contestazione di ciò che altrove poteva sembrare acquisito”. L’etnologia strutturalista veniva schierata nel campo dei saperi che si applicano a “disfare incessantemente proprio quell’uomo che le scienze umane cercano di costruire”. Come la psicanalisi, essa metteva radicalmente in questione la figura del soggetto umano che le altre scienze cercavano di delineare. La sua missione era di scoprire “ciò che, fuori dell’uomo, consente di sapere, in forma positiva, quello che si dà o si sottrae alla sua coscienza”.

Le parole e le cose fu pubblicato tre anni dopo il numero molto noto della rivista Esprit in cui il filosofo Paul Ricoeur e gli altri membri della redazione avevano discusso con Lévi-Strauss del suo ultimo libro, Il pensiero selvaggio. A fronte delle perplessità della redazione rispetto alle implicazioni di un’antropologia che non mirava a costruire un’immagine unificata dell’Uomo, e che non si assegnava come obiettivo quello di porsi “dal punto di vista dei nativi”, Lévi-Strauss ribadiva che “Il fine ultimo delle scienze umane non è quello di costituire l’uomo, ma di dissolverlo.”

Nella cultura francese di quegli anni, Foucault e Lévi-Strauss erano schierati apparentemente dallo stesso lato. In realtà, in Le parole e le cose Foucault voleva schierare l’etnologia dalla sua parte, collegandola strategicamente al proprio progetto antistoricista e fondamentalmente relativista. A differenza dell’etnologia strutturalista, però, la ricerca genealogica foucaldiana lasciava esplicitamente spazio alla pratica ermeneutica. Bisognava capire ciò che era stato detto sulla follia, sul sesso o sull’arte di governo, dagli autori di una certa epoca, senza presupporre cosa la follia, il sesso o il governo fossero per noi contemporanei. Bisognava praticare uno straniamento storiografico analogo a quello dell’etnografo sul terreno di ricerca, e ricostruire, a partire da lì, gli episteme e i dispositivi che avevano reso possibili e necessari determinati discorsi, saperi, regimi di verità. Foucault praticava un ossimorico “positivismo ermeneutico”, come lo ha definito Paul Veyne, mediante il quale tenere insieme due prospettive diverse: da un lato quello delle scienze che avevano iniziato a indagare le strutture e le determinazioni che si sottraggono alla coscienza degli uomini, dall’altro la possibilità di ricostruire l’esperienza di quegli uomini nel loro mondo di significati. L’elaborazione di una concezione processuale del “soggetto”, come ciò che si forma all’incrocio tra dispositivi (habitus, strutture sociali, rapporti di potere) e pratiche (più o meno riflessive) del sé, e dunque dei concetti di assoggettamento e soggettivazione , è stata parte integrante di tale progetto. E qui arriviamo ad punto importante, a mio avviso.

Non è un caso che Hubert Dreyfus e Paul Rabinow, abbiano dato al loro libro su Foucault il sottotitolo Beyond structuralism and hermeneutics. Il post-strutturalismo ha visto nei concetti di Foucault e in quelli di altri autori “critici” degli strumenti per superare i limiti degli strutturalismi e degli approcci ermeneutici: l’assenza del punto di vista dei nativi, del riferimento alla loro esperienza soggettiva, nei primi; nel caso dei secondi, l’incapacità di analizzare il punto di vista dei nativi – il “soggetto culturale” di Dei – come prodotto di processi storico-sociali e politici che lo inglobano e lo ricostruiscono continuamente. Mi rendo conto di stare tagliando con l’accetta materiali delicati. Ma la tecnica dell’accetta è quella scelta da Fabio Dei per delegittimare gli indirizzi che, negli ultimi vent’anni, hanno voluto spingersi oltre un’antropologia intesa (solo) come studio interpretativo della cultura. Indirizzi post-strutturalisti (e post-interpretativi) che hanno voluto ristabilire connessioni, analogie e riflessioni comparative – dunque critiche – che gli indirizzi ermeneutici avevano reso difficili, rischiando di rinchiudere ogni etnografo nel perimetro del proprio terreno d’indagine.

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