Libri che parlano di Milano e di letteratura: Milano di Carta e Rimbaud e la vedova.
Milano è una città che si può definire in base a ciò che ognuno vi trova. Per Michele Turazzi, Milano è fatta di carta: così si intitola la sua guida letteraria della città appena pubblicata da Il Palindromo, con l’introduzione di Fabio Deotto.
Turazzi dà qui forma a quel “mal di Milano” che spesso prende chi non ci è nato: conoscerne il più possibile le curiosità nascoste dietro ogni luogo. E lo fa raccogliendo le pagine che alcuni dei principali autori del Novecento hanno dedicato alla città, sfondo per i loro personaggi o protagonista di storie mai banali. Una selezione intelligente, che ci restituisce uno spaccato fedele della città nel “secolo breve”. Turazzi ci cala in un’atmosfera che sentiamo vicina e ci mostra da dentro alcune delle sfaccettature più conosciute della città, spiegandocene l’intrinseca bellezza e mostrandoci le mille contraddizioni in cui si dibatte da sempre una città incapace di stare a contemplarsi. Ogni capitolo ha perciò una bonus track, un breve testo supplementare dove, allargando lo sguardo, Turazzi stabilisce un ponte con il lettore e il suo tempo.
Quella del vecchio Hem, per esempio, è la Milano degli anni Dieci, che si stende dentro il confine dei bastioni. Per questo il tormentato rapporto tra il convalescente Frederic Henry e l’infermiera Catherine Barkley di Addio alle armi ha come sfondo, nell’estate del 1917, la zona del Duomo. I due passeggiano nell’elegante atmosfera della Galleria Vittorio Emanuele e cenano al Biffi, che si trova lì ancora oggi. Mentre l’ospedale dove Hemingway venne curato, e a cui si ispirò, si trova a pochi passi, al centro di un dedalo di vie che costituisce un nucleo compatto a nord della Galleria, perfetto per perdersi.
A proposito della oggi frequentatissima zona di corso Garibaldi, Dino Buzzati ci racconta di un’umanità dimessa, emanazione del labirinto di vicoli, case e cortili dove – nel suo Poema a fumetti – localizza uno degli ingressi dell’inferno. Poi, l’ansia di lanciare la città nel futuro cancellò le tracce di questa brulicante vitalità, così come qualche decennio prima aveva provveduto a “intombare” i Navigli.
Con gli anni Sessanta e il boom economico sono le periferie a diventare protagoniste. Nel 1962 esce La vita agra, in cui Lucianone Biancardi – salito a Milano da Grosseto nel 1954 per lavorare alla casa editrice Feltrinelli – condensa la sua disillusione per un lavoro intellettuale che si riduce ad alienante omologazione. Come lui, il suo protagonista trascorre le giornate nella bohème disordinata di Brera, al bar delle Antille, che nella realtà è il tuttora esistente Bar Jamaica. Quella Brera che fu un po’ Montmartre divenne, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, un villaggio al centro della città, abitato da artisti talentuosi e squattrinati che si ritrovavano in luoghi entrati nella mitologia cittadina: oltre al Jamaica, l’osteria delle sorelle Pirovini, ai cui tavoli pare che Bianciardi abbia corretto le bozze della Vita agra.
Ma il boom si fa sentire soprattutto fuori dai bastioni: la campagna si popola di casermoni, attirando da tutta Italia persone e aspirazioni a cui si mescola una certa malavita, che trasforma la tradizionale ligera meneghina. Il più bravo a scriverne è Giorgio Scerbanenco, nato Vladimir Ščerbanenko a Kiev e arrivato in Lombardia a diciotto anni come operaio. A Milano ambienta le storie di Duca Lamberti, raccontate in quattro romanzi «che hanno cambiato le regole del giallo italiano, tingendolo di tonalità noir e hard boiled»: Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro e I milanesi ammazzano al sabato, pubblicati tra il 1966 e il 1969. Lo sfondo dei romanzi è la fedele descrizione della città e del suo hinterland. Lamberti abita a Città Studi, «un quartiere figlio degli ultimi sussulti di fiducia positivista» nonostante la sua posizione al limite con la campagna. E in Venere privata si spinge fino al limite estremo della città, in quella Lambrate che oggi – incastonata tra la metropoli e la tangenziale – sembra mancare d’ossigeno.
Giovanni Testori invece descrive l’umanità degli italiani immigrati, che trasformarono i paesini intorno a Milano in quel tessuto urbano senza soluzione di continuità chiamato hinterland. Testori – nato e vissuto in uno di questi, Novate – dà inizio alla sua «“commedia umana” in salsa lombarda» nel 1954, con Il dio di Roserio, per poi tratteggiare «una sterminata periferia, Ghisolfa, Bovisa, Vialba, Villapizzone, Affori, Roserio». Al centro, la mutazione provocata dalla costruzione dei palazzi di edilizia popolare che cancellarono per sempre la civiltà contadina. Uno di questi è il Fabbricone, che Turazzi non riesce a ritrovare; così come sembra scomparso il quartiere di villette monofamiliari, intorno a viale Mac Mahon, dove si trovava la casa della Gilda, protagonista dell’omonimo romanzo. Rimane però, demarcazione urbanistica che rispecchia quella sociale, la fitta trama di cavalcavia, ponti e linee ferroviarie che taglia fuori gli abitanti dell’hinterland dalle sfavillanti luci cittadine.
Per finire, ecco «la lunga notte degli anni Ottanta», descritta da Emilio Tadini in L’Opera, La lunga notte e La tempesta (pubblicati tra 1980 e 1993) e che trovò il suo emblema nella “Milano da bere”. Tadini descrive il lato oscuro dell’ottimismo rampante, «una Milano notturna, inospitale, mostruosa, popolata da un’umanità marginale che si rivela soltanto quando le strade si svuotano e la città scivola nel sonno di chi il giorno dopo sa cosa fare». Turazzi cita Prospero, protagonista de La Tempesta, che Tadini segue nelle sue interminabili passeggiate notturne oltre Lambrate: in particolare, al Parco Lambro raffigura la «scena degna di una bolgia dantesca» di giovani che attendono la propria dose di eroina dagli spacciatori che si sono impossessati della collina al centro del parco. Un parco che negli anni Settanta aveva visto celebrare «la risposta italiana a Woodstock», ovvero il festival del Proletariato Giovanile della rivista “Re Nudo”, e la cui collina era formata dalle macerie dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
La Milano di Turazzi è viva ma spesso irriconoscibile (per questo ha allegato una mappa dei luoghi citati): la sua non è una semplice operazione nostalgia, nonostante non manchino le critiche per le scelte che hanno stravolto la fisionomia cittadina, ma un invito a lasciarsi guidare dalla voce di tanti autori e scoprire la «bellezza pudica che si nasconde dietro ai portoni massicci della città», ognuno a modo suo.
E poi c’è la Milano di Rimbaud, che s’incrocia con la Milano di Edgardo Franzosini.
Qui dalle parti del Lavoro culturale a Franzosini ci si è piuttosto affezionati: allo scrittore milanese sono dedicate questo profilo generale e queste note sul suo Il mangiatore di carta, riproposto anno scorso da Sellerio. Negli ultimi tempi, la sua peculiare attenzione si è concentrata su Arthur Rimbaud, e su Milano. Il tutto, a partire da un anno: il 1875. Il frutto di quell’attenzione è il piccolo libro Rimbaud e la vedova (Skira).
Il 1875 è l’anno in cui Arthur Rimbaud smise di fare Arthur Rimbaud, almeno per quel riguarda il Rimbaud poeta. Ma il 1875 è anche l’anno in cui, verso metà primavera, Rimbaud trascorse tre o quattro settimane a Milano. Edgardo Franzosini si concentra su quei giorni milanesi del poeta, e s’indovina la domanda alla base di questo interesse: il soggiorno milanese e la decisione di smettere con la poesia avevano un qualche legame?
Nel 1875, Rimbaud fece tappa a Milano (tappa prima di cosa, di preciso non lo sappiamo). Ci restò probabilmente tre o quattro settimane, alloggiò presso una «vedova» su cui non si hanno notizie, se non che abitasse al numero 39 di Piazza del Duomo, in un edificio che oggi non esiste più. Non sappiamo cosa spinse il poeta a trascorrere quel periodo a Milano, né cosa fece, chi frequentò, e così via. La sola traccia documentaria rimasta è un biglietto da visita in cui Rimbaud segnò quel suo indirizzo. Le lettere della sorella e le tante biografie del poeta daranno versioni contrastanti e poco convincenti di quel soggiorno.
Qualche traccia potremmo trovarla in certe poesie di Rimbaud. Ci sono sospetti che alcuni versi di Poison perdu e passaggi vari delle Illuminations siano riferimenti alla signora milanese. Inoltre, il Duomo di Milano è forse, come Rimbaud scrive in Après le Déluge, «la cattedrale dai centomila altari».
Parlando dell’episodio decisamente minore della Comédie humaine di Balzac da cui nascerà Il mangiatore di carta, Franzosini lo descrive come «una goccia che si getta giudiziosa in quell’oceano sterminato senza modificarne sensibilmente il complessivo volume d’acqua». Seguendo il consiglio di Roland Barthes, Franzosini si concentra sui «passi trascurati»: ma se nel caso de Il mangiatore di cartasi trattava di un passo letterario che poi ha trasformato in un’opera letteraria di carattere biografico, in Rimbaud e la vedovalo sguardo di Franzosini si pone su un dettaglio trascurato di una biografia, quella del poeta, percorsa in lungo e in largo innumerevoli volte.
Quello di Barthes, scriveva Franzosini, era un «suggerimento che conteneva in sé la promessa di chissà quali godimenti, di chissà quali scoperte». Ma, nel caso di questo libro sul soggiorno milanese di Rimbaud, le cose si fanno più complicate. Scrive infatti Franzosini: «Tutto ciò è circondato dal dubbio e dall’incertezza, e bisogna serenamente riconoscere che, per chi vuole affrontare l’argomento, sono ammesse solo illazioni, congetture, ipotesi». Le tracce lasciate da quel passaggio milanese sono dunque pochissime, talvolta contraddittorie, evanescenti, lievi. Ovvero ancora più intriganti, se messe sotto una penna come quella di Franzosini.
Il suo è infatti un rigore paradossale: le sue ricostruzioni storiche si fanno tanto più interessanti quanto più basate su tracce «vaghe, imprecise, insoddisfacenti», come ha scritto lui forse in un raro momento di sconforto. Eppure, tale situazione di scarsità documentaria non dà adito a congetture, ipotesi esageratamente fantasiose o ricostruzioni letterarie eccessivamente libere, come troppo spesso leggiamo (niente contro le ricostruzioni letterarie, a patto che quella letterarietà sia poeticamente motivata e artisticamente densa).
Al contrario, la costruzione dei testi di Franzosini, e in particolare di questo Rimbaud e la vedova, riesce a mettere in scene delle piccole costellazioni che, prima che informarci sul contenuto storico e storico-letterario del personaggio in questione, ci rendono del tutto partecipi della fascinazione dell’autore per quello stesso personaggio o, meglio, per quel personaggio in quel preciso e curioso frangente storico: in questo caso, il passaggio di Rimbaud a Milano. Insomma, quando si chiude il libro si è diventati, sul tema in questione, curiosi quanto l’autore: se, per un libro del genere (e non solo), vi risulta esistere obiettivo più alto fatemi pure sapere.