Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica

Pubblichiamo le prime battute del saggio di Fabio Dei apparso nel volume collettaneo “Stato, violenza, libertà. La «critica del potere» e l’antropologia contemporanea” (Donzelli 2017), che l’autore ha curato insieme a Caterina Di Pasquale.

In un recente provocatorio articolo, la filosofa Barbara Carnevali ha denunciato gli effetti perversi della diffusione accademica di una particolare forma e stile di pensiero, che ha chiamato la «Theory». Ne cito ampiamente l’apertura:

Un simulacro di filosofia, la Theory, si aggira per i dipartimenti del mondo intero. Non stiamo parlando dell’opera di un autore particolare, dal momento che molti acclamati theorist sono pensatori a tutti gli effetti, e nemmeno dell’autorevole scuola filosofica che ha rivendicato l’appellativo di Teoria Critica; ma di quella specie di scolastica postmoderna nota a chiunque insegni una materia umanistica all’università: un amalgama di idee e formule di varia provenienza disciplinare (prevalentemente filosofia, psicanalisi e sociologia), estratte da un canone di autori disparati ma accumunabili in una generica postura radicale (Marx, Nietzsche, Lacan, Foucault, Deleuze, Bourdieu, Agamben, Said, Spivak, Butler, Žižek, l’onnipresente Benjamin, l’uscente Derrida, la new entry Latour…), fuse in un solo crogiolo e ridotte a un’agenda tematica angusta: il potere, il bios, il genere, il desiderio e il godimento, il soggetto e le moltitudini, la coppia dominanti-dominati, il capitale e lo spettacolo, etc. Che sia chiaro da subito. L’obiettivo polemico di quest’articolo non è un autore, un libro e nemmeno una specifica corrente teorica. È una modalità di pensiero, una scolastica, appunto, che nel corso degli ultimi decenni si è declinata in combinatorie variabili conservando una forma costante. A partire dagli anni Sessanta e Settanta, la Theory ha attraversato diverse fasi, dall’originaria sintesi di marxismo e psicanalisi, al mix di decostruzione, heideggerismo, cultural e post-colonial studies, fino alle metamorfosi più recenti, nutrite di foucaultismo, gender e queer studies, biopolitica e lacanismo. L’invenzione recente di un’«Italian Theory», come la Nottola di Minerva, ha segnato il passaggio in cui questo processo, prima latente e ricostruibile solo a posteriori, non solo è venuto alla luce – ma è diventato addirittura programmatico.

Carnevali ha qui il coraggio di indicare e mettere allo scoperto un disagio che molti provano ma che difficilmente emerge in modo esplicito – poiché le basi della Theory sono incastonate ormai profondamente nell’accademia e nel suo principio di autorità, e fanno anche parte inevitabilmente della formazione e del percorso di ciascuno. Quello che l’autrice chiama Theory è un linguaggio gergale, criptico e autoreferenziale che non si preoccupa più neppure di confrontarsi col linguaggio comune e con il buon senso; un codice espressivo che si pretende engagé e politicamente radicale, ma di fatto funziona come contrassegno distintivo di un’élite intellettuale globalizzata e largamente chiusa su se stessa, per lo più priva di rapporti con il mondo della politica reale.

Carnevali non cita l’antropologia fra le discipline più contaminate dalla Theory. Ne rintraccia le origini nella filosofia continentale, nella psicoanalisi e nella sociologia, e ne individua i principali focolai nei dipartimenti americani di studi culturali e di letterature comparate. Un sospiro di sollievo, dunque? Non tanto, perché anche nella nostra disciplina il linguaggio e lo stile di pensiero della Theory hanno messo radici ormai profonde. Partendo, anche qui, dall’accademia nordamericana e dalla sua canonizzazione dei maîtres à penser francesi (e forse, più di recente, di quelli italiani). Quasi tutti gli autori citati da Carnevali sono oggi costanti riferimenti della teoria antropologica: lo sono diventati con la mediazione di una generazione formata per lo più attorno al Sessantotto, che ha dominato per decenni il campo degli studi riconoscendosi nelle etichette dei post-colonial studies e della cosiddetta critical anthropology (la quale rappresenta oggi più o meno la manifestazione antropologica della Theory). La disciplina ama presentarsi come post-teorica, lontana dalla rigidità dei vecchi -ismi e dalle Grandi narrazioni della tarda modernità, e radicata piuttosto nella pratica etnografica. Ma di fatto, l’indebolimento della esplicita discussione teorica e soprattutto epistemologica ha favorito la diffusione quasi sottotraccia di un bricolage intellettuale tanto «forte» quanto semplificato e banalizzante.

In questo saggio cercherò di individuare e sottoporre a scrutinio critico alcuni momenti di questa penetrazione della Theory nel lessico e nell’agenda del dibattito antropologico contemporaneo. Data l’ampiezza del campo, potrò solo muovermi attraverso parziali sondaggi. Dopo una sintetica caratterizzazione della Grande narrazione politica cui l’antropologia critica aderisce, esaminerò due nozioni molto diffuse nel suo linguaggio, quelle di «forclusione» e di «nuda vita»: non per la loro intrinseca importanza, ma per mostrare gli intricati processi di messa a punto (e, a mio parere, di confusione) concettuale che le fondano. Introdurrò quindi il tema dello Stato. Utilizzando le riflessioni di Bourdieu, cercherò di individuare il punto di disgiunzione fra il programma di un’antropologia riflessiva e interpretativa e quello dell’antropologia critica. Entrambe intendono studiare lo Stato attraverso l’etnografia delle pratiche quotidiane in cui esso si incarna. Ma mentre la prima è attenta al ruolo costitutivo delle norme statali, la seconda si concentra quasi esclusivamente sul loro ruolo repressivo. La prima pone in evidenza gli aspetti simbolici e culturali del potere dello Stato, mentre la seconda cerca di liquidare la «cultura» come puro rivestimento ideologico degli interessi di potere. Esaminerò quindi alcuni esiti dell’approccio critico allo Stato in due campi specifici della ricerca antropologica – l’antropologia medica e quella della violenza, con particolare riferimento al terrorismo. Infine, sosterrò che l’impianto «critico» assume (contro le sue stesse premesse) un’immagine essenzialista dello «Stato moderno»: scorgendo in esso la fonte di ogni violenza e ingiustizia, trascura la complessità e le ambivalenze della sua storia, all’interno della quale sono maturate quelle stesse istanze etico-politiche (di giustizia sociale ed emancipazione dei gruppi subalterni) che i critici intendono sostenere.

Dunque, il cardine dell’antropologia critica è l’impegno militante che la generazione post-strutturalista ha assunto come base della propria postura conoscitiva. L’antropologo sta dalla parte dei dannati della terra e dei gruppi che vivono in una qualche condizione di subalternità, come il dominio coloniale e neocoloniale, l’oppressione di classe e di genere, la discriminazione etnica e quella di orientamento sessuale. Ha bisogno quindi di una teoria critica del sistema di dominio di cui essi (i colonizzati, i migranti, i proletari, le donne, i neri, le persone Lgbt) sono vittime: un sistema identificato da etichette come «neoliberismo globale», «capitalismo finanziario», «impero» e analoghe. Diversamente dal marxismo più classico, il sistema dominante è riconosciuto non tanto in termini di gruppi sociali specifici, quanto di un «potere» impersonale e dei suoi dispositivi istituzionali. Qui è forte l’influenza di un certo lessico foucaultiano («discipline», «governamentalità», «bio- potere» e «società biopolitica»), peraltro per così dire popolarizzato. Infatti, la riflessione foucaultiana invita a pensare la dimensione del potere non come puramente repressiva ma semmai come costitutiva del sociale, delle forme della soggettività e della stessa riflessione delle scienze umane; laddove la Theory più popolare vede il potere un po’ come l’Impero Galattico di Star Wars, la parte dei «cattivi» che opprimono e reprimono i poveri e gli inermi (e sono a loro volta contrastati solo da pochi intellettuali-Jedi, gli unici in grado di sottrarsi all’accecamento ideologico che le forze del Male suscitano nelle loro stesse vittime). Sempre rispetto al marxismo, è più forte l’accento sui processi di soggettivazione che il potere produce. Qui il bricolage si accentua ancora di più, combinando il tema della «falsa coscienza» indotta dai media con il linguaggio psicoanalitico e in particolare lacaniano (si pensi ad esempio alla fortuna di «forclusione», sulla quale tornerò oltre). Il Potere si esercita all’interno della mente e del corpo dei subalterni. Il che spiega l’innesto della Theory nelle tradizioni dell’antropologia medica e dell’etnopsichiatria; e, più in generale, l’idea, anch’essa pop-foucaultiana, dei saperi sociali e umanistici (dalla medicina all’antropologia stessa) come collusi con il Potere e permeati di violenza epistemologica. Ma il Potere si esercita naturalmente anche all’esterno, attraverso le istituzioni dello Stato sovrano (e delle sue emanazioni sovranazionali), rappresentato come univocamente asservito alla difesa del «sistema» e alla repressione delle «eccedenze» e degli antagonismi che si oppongono al suo progetto.

Ora, è chiaro che queste letture dell’economia e della politica contemporanea non sono prive di elementi di fondatezza. La Theory può poggiare su riscontri empirici e su aspetti dell’esperienza esistenziale di ciascuno; le disuguaglianze e le discriminazioni verso i soggetti subalterni (post-coloniali, sottoproletari ecc.) che essa denuncia sono certamente tra i grandi problemi del nostro tempo. Ciò che la caratterizza è però il tono totalizzante, uno spirito che la accomuna alle vecchie «teorie del sospetto». La realtà non è quella che sembra: una volta smascherati i segreti e le dissimulazioni del Potere, ogni cosa mostrerà il suo vero volto. È uno stile di pensiero che non ama le ambivalenze o le vie di mezzo. Così, ad esempio, la ragione coloniale o l’orientalismo non sono solo aspetti della storia occidentale (magari in tensione con altri e diversi fattori), ma le leggi ferree che la determinano in ogni sua dimensione. I lager e i campi di reclusione non rappresentano solo un momento particolarmente problematico nella vita degli Stati moderni, ma l’inveramento della loro reale natura repressiva. La chiusura delle frontiere agli immigrati non viene letta in relazione a mutevoli difficoltà e contesti storici, ma come manifestazione dell’eterna natura escludente e razzista dello «Stato sovrano» in sé. La figura dell’iperbole è irrinunciabile per la teoria critica. Ad esempio, dell’industria culturale non bastava dire (con la vecchia e «moderata» Scuola di Francoforte) che produce soggettività menomate e represse: si va oltre affermando che distrugge la realtà, che niente è reale nell’esperienza contemporanea.

Corollario di tutto ciò è il collasso delle distinzioni tra diverse posizioni politiche interne al «sistema»: quelle che alimentano disuguaglianze e discriminazioni e quelle che tentano di attenuarle. Queste ultime sono accusate di coprire ipocritamente gli effetti più sgradevoli senza toccare la causa profonda dell’ingiustizia, consistente in un Atto originario (la violenza coloniale, il «bando sovrano» e l’imposizione dei confini statali, il dominio maschile, la proprietà privata…) la cui lunga ombra conferisce il suo sinistro senso all’intero dipanarsi della storia. Un buon theorist, ad esempio, sorride con l’aria di chi la sa lunga di fronte ai tentativi di distinguere democrazie e totalitarismi. Non sta lì il problema: sono entrambe manifestazioni del sistema neoliberista globale. La democrazia è anche più subdola perché dissimula la produzione di inuguaglianza: e in ogni caso può esistere solo perché esporta altrove i totalitarismi, così come la pace può esistere solo perché esporta altrove (nel mondo post-coloniale, di solito) la guerra. E che dire dei movimenti per la cooperazione internazionale e i diritti umani, che tentano di aiutare i soggetti più deboli? Beh, sono semplicemente l’aspetto soft dell’oppressione dell’Impero, perché con la loro stessa azione confermano la negazione della cittadinanza agli «Altri» e la loro riduzione a «nuda vita». È in fondo un vecchio argomento della tradizione comunista: il riformismo è dannoso perché maschera le contraddizioni del sistema e rallenta l’inevitabile avvento della rivoluzione. Ma con una differenza: la rivoluzione comunista mirava a distruggere un sistema per costruirne uno interamente nuovo, in cui si credeva e del quale pareva di avere un modello a portata di mano. Il radicalismo attuale non è così ingenuo da proporre alternative, né così banale da avanzare linee di azione o da confrontarsi con il dibattito politico reale. Gli basta fornire gli strumenti della distinzione intellettuale e sociale dei suoi proponenti, qui e oggi (per quanto ammantata di commitment etico). Da qui l’odierna emarginazione dalla sfera pubblica delle discipline egemonizzate dalla Theory. Non perché troppo eversive e temute dal Potere, come a molti piacerebbe pensare, ma perché autoreferenziali e grandiosamente distaccate dal buon senso.

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