Scienze sociali sotto assedio

Considerazioni in vista di una giornata di riflessione sulla libertà di ricerca etnografica che si terrà l’1 ottobre a Modena.

Libertà di ricerca e libertà politiche in Italia

Non ce ne siamo accorti, ma le scienze sociali italiane sono sotto assedio. Nelle settimane scorse hanno fatto scalpore le vicende che hanno visto come protagonisti gli antropologi Roberta Chiroli e Enzo Vinicio Alliegro: la prima condannata per “concorso morale” per avere condotto una ricerca etnografica sul Movimento No-Tav; il secondo, analogamente, rinviato a giudizio per avere presenziato ai fini di uno studio a una manifestazione contro il taglio degli ulivi affetti da xylella in Puglia.

In realtà, come mostrato dal breve dossier sugli attacchi alla libertà di ricerca pubblicato da Effimera, i casi di ricercatori finiti al centro di vicende giudiziarie oppure osteggiati da quotidiani di destra, associazioni, sindacati di polizia e gruppi di portatori di interessi sono, a partire dal 2002, molti di più. Questi ulteriori attacchi, che hanno avuto echi diversi in ragione della stagione politica o del carattere apparentemente isolato e particolare che sembravano avere, non hanno ricevuto la medesima attenzione e sono spesso sfuggiti all’attenzione dei media e della “società civile”. Osservati di seguito e posti in relazione ai differenti contesti entro cui hanno avuto luogo, essi però mettono a nudo alcune tendenze. La prima concerne il moltiplicarsi di voci repressive “intermedie”, connesse al mondo delle polizie, sia pure in veste di rappresentanza e non di esercizio diretto e ufficiale della funzione di controllo. Queste voci “intermedie” appaiono dotate di contatti con importanti media nazionali, partecipano a dirigere l’attenzione dell’opinione pubblica e mirano, oltre che a delegittimare i “nemici di turno” (per esempio movimenti sociali, istituzioni di ricerca, studiosi o familiari di vittime dell’operato di polizia), a dare un indirizzo culturale e un supporto politico-sindacale a quegli operatori delle forze dell’ordine che agiscono sul campo in situazioni controverse.

In secondo luogo, questi episodi denotano il salto di qualità delle attività repressive. Se il coinvolgimento di ricercatori in vicende giudiziarie è interessante per i connotati simbolici, questo coinvolgimento degli studiosi nei processi ci dice anche che la repressione politica in Italia è sempre più slegata dai comportamenti di piazza e orientata alla criminalizzazione della presenza e della partecipazione politica. Se non è possibile dire nulla di certo riguardo la consapevolezza degli operatori di polizia intorno all’identità dei ricercatori denunciati e rinviati a giudizio, possiamo tuttavia essere certi del fatto che i filmati e le altre evidenze non mostrano alcun comportamento irregolare da parte degli studiosi presenti in campo. In Val di Susa così come in Puglia, questi erano al massimo volti e nomi dentro una massa discesa in piazza per reclamare visioni relative al territorio, e non manifestanti violenti, oppure direttamente impegnati a bloccare servizi e devastare centri urbani. Le denunce ai loro danni appaiano dunque come cartine di tornasole dell’operato delle agenzie di controllo: volto alla repressione generalizzata, all’intimidazione e alla criminalizzazione della partecipazione attiva dei cittadini ai conflitti.

Terzo punto. Se le forze dell’ordine presenti sul campo possono non conoscere le identità professionali delle persone fermate o non attribuire loro alcuna importanza in fase di indagine, i magistrati incaricati delle inchieste hanno a disposizione, oltre che le prove prodotte da polizia e carabinieri (i filmati, in primis), le deposizioni degli indagati e le precisazioni dei loro legali. Da parte dell’organo requirente, la scelta di rinviare a giudizio corrisponde dunque a una precisa visione del campo: quella per cui autore di reato è la piazza intera e i ricercatori sono complici e sodali (“concorrenti morali”, per l’appunto).

Quarta osservazione. Parlare di attacchi alla libertà di ricerca appare, entro una certa misura, corporativo. Infatti, come abbiamo notato poco sopra, gli attacchi non sono rivolti unicamente ai ricercatori, ma alla piazza nel suo complesso. Resta tuttavia il fatto che gli attacchi alla ricerca sono attacchi dello Stato allo Stato. Morsi dati da un organo contro altri organi del medesimo corpo. Quantomeno dagli anni settanta del secolo scorso – allorquando lo status della docenza universitaria cessa di essere equiparato e agganciato a quello delle funzioni direttive dello Stato – magistratura e polizie hanno assunto ruoli sempre più centrali nella gestione delle vicende politiche nazionali, mentre l’Università ha specularmente visto declinare la propria autorevolezza e importanza nei processi sociali e politici del Paese. Al punto da potere essere trattata, almeno in parte, e relativamente alle sue componenti disciplinari maggiormente critiche, alla stregua di una forza eversiva. Lì ove essa è invece, esattamente come la polizia, un “organo epistemologico” dello Stato; che, però, al contrario di quest’ultima, opera in direzione della comprensione dei processi e, al limite, lì ove ce ne sia bisogno, per una riscrittura delle verità pubbliche e per la destrutturazione delle retoriche e dell’operato delle forze presenti in campo, incluse quelle di matrice istituzionale.

Da quanto notato sopra deriva la conclusione che la crescente criminalizzazione della ricerca universitaria è tanto la spia di un processo autoritario più ampio che riguarda la cittadinanza nel suo complesso quanto quella di un crescente declino dello status universitario, il cui culmine è costituito per l’appunto dalla summenzionata collezione di attacchi unilaterali rivolti da precisi settori dello Stato contro l’Università stessa (che si sommano a quelli ben noti in materia di riforma della sua organizzazione). Tali attacchi richiedono una discussione approfondita tra gli universitari e quanti conducono ricerca sociale, in quanto il loro esercizio non ha ripercussioni unicamente penali, ma tenta anche di indicare una direzione verso cui orientare gli studi relativi ai fenomeni sociali: una direzione, potremmo dire in sintesi, meno “comprendente” e “interna” ai mondi del dissenso e più istituzionale. Ed è facile notare come, in tempi di precarizzazione e depauperamento delle risorse pubbliche destinate alla ricerca o agli avanzamenti di carriera, tale visione relativa al ruolo e alla missione delle scienze sociali possa rivelarsi efficace e produrre effetti in termini professionali, investendo, magari con modalità diverse, tanto i precari quanto gli strutturati dell’Università e delle altre istituzioni di ricerca.

Per esempio dissuadendo i precari dall’adottare certi posizionamenti rispetto all’oggetto, oppure suggerendo agli strutturati di disegnare progetti e adottare metodologie che privilegino le fonti istituzionali rispetto a quelle provenienti “dal basso” o dal “campo” . Oppure caratterizzando e, dunque, stigmatizzando e marginalizzando ricercatori e gruppi di studio distintisi in passato per approcci eccessivamente critici, impedendo così loro di ricevere finanziamenti, esperire promozioni o stabilizzarsi. Generando, insomma, conformità e variegate forme di ricatto occupazionale. In conclusione riteniamo che la gravità degli eventi recenti e di quelli accaduti negli anni passati, e lo scenario che prefigurano, meritino un incontro nazionale per condividere esperienze di persecuzione, per proporre analisi pubbliche delle forme di censura contemporanee e per costruire un coordinamento in difesa della libertà di ricerca.

Invitiamo dunque studenti, dottorandi, assegnisti e docenti a una giornata di riflessione sulla libertà di ricerca etnografica da tenersi l’1 Ottobre a Modena in una sede universitaria ancora da definirsi. L’intento è quello, da un lato, di raccogliere testimonianze di intimidazioni finalizzate a limitare la ricerca o la sua pubblicizzazione e, dall’altro, di riflettere sull’ostilità contemporanea delle istituzioni statali rispetto alla libera investigazione. Di fronte al pericolo di un progressivo restringimento della libertà di ricerca, siamo convinti che solo una denuncia pubblica del mondo scientifico, decisa e collettiva, possa invertire la tendenza a criminalizzare l’indagine etnografica. Per le ragioni sopra indicate invitiamo colleghi e studenti a inviarci le loro reazioni e, a chi fosse interessato ad intervenire, un breve riassunto (15 righe) della comunicazione proposta entro il 5 Settembre. Pensiamo ad interventi brevi (di massimo 20 minuti) in modo da garantire un’ampia polifonia e spazio per discussioni, confronti e per immaginare forme di coordinamento finalizzate alla tutela della libera ricerca etnografica.

I contributi devono essere inviati a: Amalia Rossi: amalia.rossi79@gmail.com; Pietro Saitta: pisait@gmail.com; Stefano Boni: stefano.boni@unimore.it

 

 

 

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